concessioni demaniali

Concessione demaniale implicita: è ammissibile?

concessioni demanialiConcessione demaniale implicita: è ammissibile? Si, il provvedimento amministrativo concessorio può avere natura implicita.

Questo è quanto affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza qui in commento.

Come noto, il provvedimento amministrativo è implicito quando la volontà dell'Amministrazione non si estrinseca in un provvedimento formale, ma è ricavabile da un contegno conseguente o da un comportamento cui non possa essere ricondotto un volere diverso da quello equivalente al contenuto del provvedimento formale non adottato (ex multis, Cons. St. Sez. V, 24.1.2019, n. 589).

Ebbene, sulla scorta di tali premesse, i giudici di Palazzo Spada hanno rigettato l’appello, confermando le statuizioni del giudice di primo grado.

Vediamo il caso concreto.

Una società, titolare di svariate concessioni demaniali marittime, si è vista recapitare, dal comune competente, un’ordinanza di demolizione di un manufatto in legno ospitante i servizi igienici dello stabilimento balneare, sull’assunto che detto manufatto risultava sprovvisto del titolo demaniale.

Ritenendo il provvedimento errato, la società ha chiesto, al TAR Sardegna, l’annullamento di tale provvedimento sostenendo, in sintesi, l’ininterrotta esistenza, dal 2005-2006 sino al 2012, di un titolo demaniale (ancorché non rinvenibile a livello documentale) anche sulla porzione demaniale relativa al manufatto in legno, con la conseguente applicazione, per gli anni successivi, delle proroghe ex lege in favore delle concessioni demaniali previgenti.

Il TAR adito ha accolto il ricorso, rilevando come, pur non essendo presente in atti un documento recante il titolo demaniale per l’anno 2009, l’esistenza di quest’ultimo è stata dimostrata, con sufficiente grado di certezza.

In particolare, il giudice di primo grado ha ritenuto provata l’esistenza, la validità e l’efficacia del titolo concessorio implicito, in virtù del fatto che esistono incontestabilmente quali titoli amministrativi espliciti (rectius: esplicitati in documenti formali) sia la concessione precedente, sia quella successiva, che menziona il suo rinnovo, con la conseguenza che, anche alla luce del principio dell’effetto utile, sarebbe irragionevole e ingiusto negare l’esistenza dell’atto intermedio.

L’amministrazione comunale, ritenendo, invece, che non vi sarebbe alcuna prova, nemmeno in via presuntiva, dell’esistenza della concessione demaniale, rilasciata nel 2009, ha impugnato la sentenza dinanzi al Consiglio di Stato, il quale, tuttavia, condividendo il percorso logico – giuridico del giudice di primo grado, ha rigettato il ricorso.

In particolare, i giudici di Palazzo Spada hanno condiviso la ricostruzione dei fatti esposta nella sentenza nella parte in cui, pur dando atto della formale mancanza del documento, ha illustrato tutti gli elementi oggettivi sulla base dei quali deve affermarsi che l’Amministrazione abbia effettivamente manifestato all’esterno la precisa volontà provvedimentale di rilasciare la concessione demaniale in favore della società.

Nell’occasione, il Consiglio di Stato ha tenuto a ribadire due principi.

  1. Il primo principio attiene alla libertà delle forme che può assumere il provvedimento amministrativo, non necessariamente vincolato ad assumere la forma scritta.
  2. Il secondo, invece, riguarda l’indirizzo esegetico seguito dalla giurisprudenza amministrativa secondo cui il provvedimento amministrativo concessorio può, talora, avere natura implicita.

Se volete saperne di più sul tema delle concessioni demaniali, sulle novità normative e sugli orientamenti giurisprudenziali più recenti, vi invitiamo a scaricare gratuitamente il nostro paper "Concessioni Balneari", giunto alla X edizione, a cura degli Avv.ti Rosamaria Berloco e Pietro Falcicchio, con la collaborazione di Sara Turzo e Marica De Angelis.

Cons. St., Sez. VII, 17 gennaio 2024, n. 537


Clausola risolutiva espressa

Clausola risolutiva espressa: se di mero stile, è priva di efficacia

È priva di efficacia, in quanto di mero stile, la clausola risolutiva redatta in termini generici.

Il Tribunale civile di Latina, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità o meno di una risoluzione contrattuale a seguito di recesso anticipato esercitato dall’attore che si era avvalso della clausola risolutiva espressa, ha affermato che una “clausola redatta con generico riferimento a tutte le obbligazioni contenute nel contratto deve essere considerata come una mera “clausola di stile”, non apportando alcuna modifica al meccanismo della risoluzione giudiziale”.

Ci eravamo già soffermarti sull’importanza di alcuni elementi essenziali affinché un contratto “funzioni” (qui la news “Scrivere un contratto non è un gioco da ragazzi. Come devono essere approvate le clausole vessatorie?).

Oggi, con il presente contributo, approfondiremo come redigere una clausola risolutiva espressa, affinché, laddove il contraente voglia esercitarla, non incorra, come nel caso esaminato dal Tribunale di Latina, nella sua inoperatività perché nulla per indeterminatezza dell’oggetto.

Il caso specifico

Una società citava in giudizio un’altra società con la quale asseriva di aver stipulato un contratto di agenzia monomandatario avente ad oggetto la vendita, promozione, e commercializzazione di prodotti e servizi con utilizzo del marchio, insegna ed immagine della stessa.

Aggiungeva, poi, che dopo aver riscontrato alcune difformità e anomalie, di aver diffidato, l’agente a consegnare copia di tutta la documentazione relative alle attivazioni delle SIM e che decorso inutilmente tale termine, il contratto doveva ritenersi risolto di diritto ai sensi dell’art. 1454 c.c., come previsto dal contratto stesso.

Tale contratto, infatti, conteneva una clausola risolutiva espressa la quale attribuiva al contraente il potere di risolvere il contratto a seguito dell’inadempimento degli obblighi stabiliti in contratto.

La decisione del Tribunale.

Il Tribunale di Latina, facendo proprio un orientamento ormai consolidato della Suprema Corte, ha precisato che è priva di efficacia in quanto “di stile” la clausola risolutiva espressa redatta in termini generici.

La clausola risolutiva espressa è redatta in termini generici quando non contiene un riferimento a specifiche inadempienze ma alla violazione di uno o qualsiasi dei patti contrattuali.

La clausola risolutiva espressa, infatti, presuppone che le parti abbiano previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell’inadempimento di una o più obbligazioni specificatamente determinate, sicché la clausola che attribuisca ad uno dei contraenti la facoltà di dichiarare risolto il contratto per gravi e reiterate violazioni dell’altro contraente a tutti gli obblighi da esso discendenti va ritenuta nulla per indeterminatezza dell’oggetto.

In definitiva, dunque, la clausola risolutiva espressa per essere valida, deve contenere l’esatta e precisa indicazione dei patti contrattuali, la cui violazione determina la risoluzione.

Trib. Latina, Sez. I, 31.10.2023, n. 2318

 


Riserve negli appalti pubblici: posso iscriverle se manca il registro di contabilità?

In assenza di registro di contabilità, l’appaltatore ha la “facoltà” e non il “dovere” di iscrivere la riserva nel primo atto di contabilità utile immediatamente successivo.

Ciò è quanto affermato dalla Corte di cassazione, con ordinanza n. 33118 dello scorso 29 novembre, la quale, chiamata a pronunciarsi in tema di tempestività della formulazione delle riserve, ha chiarito che “solo in esso [n.d.r. registro di contabilità] si ha il dovere o l’onere di iscrivere le richieste dell’appaltatore a pena di decadenza, perché da esso soltanto è rilevabile l’incidenza che le varie vicende potranno avere sui costi dell’appalto sia per il committente sia per l’appaltatore”.

Nell’appalto di opere pubbliche, quindi, solo con l’istituzione del registro di contabilità sorge il dovere di iscrivere le riserve relative ai lavori eseguiti in precedenza.

La vicenda giunta all’attenzione della Corte di cassazione trae origine da una richiesta di condanna della stazione appaltante, formulata dalla società appaltatrice, al risarcimento dei danni come quantificati dalle n. 11 riserve iscritte nel corso del rapporto contrattuale.

Sia il Tribunale che la Corte d’appello hanno condannato la stazione appaltante al risarcimento danni, ritenendo tempestive le riserve.

Avverso la sentenza della Corte d’appello, la stazione appaltante ha, poi, proposto ricorso innanzi la Corte di cassazione, deducendo, in estrema sintesi, che la Corte d’appello avrebbe disatteso il principio generale secondo cui le riserve sono da iscrivere, a pena di inammissibilità, nel primo atto idoneo a riceverle successivo all’insorgere del fatto costitutivo, ossia, nella specie, nel libretto delle misure.

A tal fine, deve precisarsi che nel caso di specie non era stato tenuto il registro di contabilità. Pertanto, la Corte d’appello aveva ritenuto tempestive le riserve, evidenziando, tra le altre, che “alla luce dell’elaborazione di legittimità, il libretto delle misure non si prestava a sostituire il registro della contabilità, sicché unicamente nel registro della contabilità – e non già nel libretto delle misure- l’appaltatore avrebbe avuto l’obbligo di iscrivere le eventuali riserve”.

La Corte d’appello ha quindi ritenuto che mancando il registro di contabilità, venisse meno l’onere di iscrivere la riserva nel primo atto di contabilità utile immediatamente successivo.

Per la Suprema Corte, la tesi proposta dal ricorrente va disattesa e, richiamando i principi già pronunciati con la sentenza n. 3525 del 24 marzo 2000, ha affermato che “in assenza del registro, l’appaltatore avrà la facoltà e non l’onere all’atto della firma d’inscrivere in succinto in quei documenti contabili che devono essere da lui firmati le riserve e le domande che crederà del proprio interesse”.

La Corte ha chiarito che nell’appalto di opere pubbliche il registro di contabilità è solo il documento le cui pagine sono preventivamente numerate e firmate dall’ingegnere capo e dall’appaltatore e nel quale le singole partite siano iscritte rigorosamente in ordine cronologico (art. 52 r.d.n. 350/1895), per cui esso non può identificarsi né con il libretto delle misure, sul quale si annotano la misura e la classificazione dei lavori (art. 42 n.d.r. n. 350/1895), né con il giornale dei lavori di cui all’art. 40 del r.d. citato, in cui si registra settimanalmente la progressione dei lavori.

Il registro di contabilità è l’unico documento non tenuto sul luogo di lavori da cui emerge una visione d’insieme o unitaria dell’esecuzione dell’appalto; cosicché solo in esso si ha il dovere o l’onere di iscrivere le richieste dell’appaltato a pena di decadenza, perché da esso soltanto è rilevabile l’incidenza che le varie vicende potranno avere sui costi dell’appalto sia per il committente sia per l’appaltatore.

Ne consegue, dunque, - a parere della Corte di cassazione - che il registro di contabilità non può essere qualsiasi documento contabile dal quale non risulti una visione complessiva delle opere eseguite secondo il loro ordine cronologico e del rilievo che eventuali variazioni di esse possono avere dei costi dell’appalto per ambedue le parti contraenti.

Sulla base di tali premesse, la Suprema corte ha, quindi, ritenuto di non poter recepire il rilievo della ricorrente a tenore del quale “sul primo atto dell’appalto, successivo all’insorgere del fatto, qualunque esso sia, va iscritta la riserva”.

Ora, quella dell’apposizione delle riserve negli appalti pubblici è una problematica che assume notevole importanza per gli operatori, soprattutto per quanto riguarda i termini e le decadenze (ne abbiamo parlato qui).

In disparte, quindi, i principi enunciati dalla Suprema Corte, a parere di scrivere, in tema di riserve, la locuzione latina melius est abundare quam deficere (letteralmente “è meglio abbondare che scarseggiare”) rappresenta l’esatta sintesi di un approccio prudenziale e cautelativo che fa da contrappeso ad un quadro normativo non sempre chiaro e puntuale.

Cass. Civ. ord. 29.11.2023, n. 33118


clausola penale

Clausola penale: anche un solo giorno di ritardo può costare caro.

Clausola penale: anche un solo un giorno di ritardo può costare caro. Questa potrebbe essere una delle massime da estrapolare dalla recente ordinanza della Corte di Cassazione qui in commento, con la quale è stato chiarito che la buona fede non può servire a stabilire il rispetto di un termine di pagamento.

Per cui in caso di ritardo nel pagamento, anche di un solo giorno, il creditore può attivare la clausola penale.

Il caso specifico.
Nel corso di una controversia, veniva stipulato un accordo in base al quale il debitore si impegnava a corrispondere al creditore una somma pari a 700 mila dollari in due rate: la prima di 260 mila entro il 30 giugno e la seconda di 440 mila entro il 30 settembre. In tale accordo veniva inserita una clausola penale secondo cui in caso di “ritardato o mancato pagamento, anche di una sola rata ed anche per un solo giorno”, si conveniva il pagamento di una clausola penale pari a 350 mila dollari. Accadeva che la rata finale veniva accreditata il 5 ottobre. Dato che il pagamento doveva avvenire entro il 30 settembre, parte creditrice, determinata nella scelta di far valere la clausola penale, otteneva un decreto ingiuntivo esecutivo, prontamente opposto dal debitore, il quale sosteneva che il bonifico era stato effettuato in tempo, ossia il 27 settembre, e che soltanto per il ritardo o comunque per i tempi imputabili alla banca, la somma era stata accreditata il successivo 5 ottobre.
Il Tribunale di Treviso accoglieva l’opposizione.
Parte creditrice interponeva appello innanzi la Corte d’appello di Venezia, la quale, nel confermare la tesi del giudice di primo grado, richiamava altresì il principio di buona fede.
La questione giungeva, quindi, innanzi alla Suprema Corte.
Il creditore proponeva ricorso innanzi alla Suprema Corte, denunciando la violazione degli artt. 1176, 1218, 1382 e, per l’effetto, gli artt. 1176 e 1218 c.c.
In particolare, riteneva come non fosse possibile considerare tempestivo un pagamento che aveva determinato la disponibilità della somma in capo al creditore dopo la scadenza del termine, in base al principio di buona fede che serve, sì, a valutare l’importanza dell’inadempimento, ma non l’esattezza dell’adempimento, e ciò a maggior ragione in presenza di una clausola penale.
A sua volta, il debitore proponeva ricorso incidentale condizionato all’accoglimento di quello principale, il quale, denunciando la violazione dell’art. 1384 c.c., ha chiesto, in via subordinata, la riduzione della penale ad equità, ritenendola manifestamente eccesiva.
La decisione della Corte.
La Corte di Cassazione ha ritenuto meritevole di accoglimento entrambi i ricorsi.
Per quanto riguarda il ricorso principale, la Corte di Cassazione, richiamato un principio consolidato secondo cui “l’adempimento dell’obbligazione pecuniaria, ai sensi degli articoli 1182, comma 2 e 1183 c.c., si perfeziona nel luogo e nel tempo in cui il creditore entra in concreto nella disponibilità della somma di denaro”, ha chiarito che la buona fede non può servire a stabilire il rispetto di un termine di pagamento, ossia non può essere applicata per decidere se il termine è rispettato in un momento (ordine di bonifico) o in un altro (effettivo accreditamento), e dunque quale sia il termine esatto entro cui adempiere.
Per quanto riguarda il ricorso incidentale, la Corte di Cassazione ha chiarito che il giudice di merito non deve tener conto degli effetti che il pagamento della penale può avere sul patrimonio del debitore ma se essa è giustificata alla luce dell’interesse del creditore, ossia se il ritardo nel pagamento ha costituito per il creditore un danno tale da richiedere da essere compensato con l’importo individuato nella clausola penale.
In definitiva, dunque, quando in un contratto o in un accordo si pattuisce di inserire una clausola penale occorre prestare la dovuta attenzione nell’adempiere correttamente e senza ritardo alcuno l’obbligazione sottesa.
A tal fine si rammenta che “il pagamento delle obbligazioni per somma di denaro che devono essere adempiute al domicilio del debitore, ove effettuabile in banca, si perfeziona, con la liberazione dell’obbligato, solo allorché la rimessa entri materialmente nella disponibilità dell’avente diritto e non anche quando (e per il solo fatto che) il debitore abbia inoltrato alla propria banca l’ordine di bonifico e questa abbia pur dichiarato di avervi dato corso” (Cass. Civ., 149/2003).
Tuttavia, in caso di ritardato pagamento è possibile ridurre la clausola penale in un accordo da parte del giudice, quando, valutati tutti gli interessi in gioco, la clausola risulti troppo onerosa.
(Cass. Civ. Sez. III, ordinanza 20.9.2023, n. 26901).


manufatti

Concessioni demaniali marittime: quali manufatti possono rimanere montati fino al 31.12.2023?

I manufatti amovibili inerenti all’esercizio delle concessioni demaniali marittime possono rimanere montati fino al 31.12.2023. Questo è quanto previsto dal Decreto Milleproroghe. Ma tale prescrizione vale per tutti i manufatti?

Come ormai noto, il termine di scadenza di validità delle concessioni demaniali marittime in essere, fissato, dalla L. 118/2022, al 31 dicembre 2023, è stato prorogato al 31 dicembre 2024 dal d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. in L. 24 febbraio 2023, n. 14 (c.d. decreto Milleproroghe).

Il decreto Milleproroghe ha, poi, concesso ai titolari delle concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e dei punti di approdo con finalità turistico-ricreative, che utilizzino manufatti amovibili leggeri, di mantenere installati i predetti manufatti fino al 31 dicembre 2023, fermo restando il carattere di amovibilità dei manufatti medesimi.

Il sistema di riforma della legge Concorrenza, apparentemente improntato all’accelerazione, è stato quindi parzialmente frenato dal decreto Milleproroghe.

Tuttavia, le disposizioni contenute nel decreto Milleproroghe non trovano applicazione se, all’entrata in vigore del predetto decreto, i termini di cui alla concessione demaniali sono già scaduti.

Lo sa bene il titolare di una concessione demaniale che si è visto rigettare il ricorso avverso il provvedimento regionale con il quale veniva intimata la rimozione dei manufatti e il conseguente ripristino delle aree in concessione perché “tale norma [n.d.r. decreto Milleproroghe] è entrata in vigore soltanto il 28.2.2023, quando era già scaduto il termine perentorio … per la rimozione delle strutture”.

Il caso specifico.

Il titolare di una concessione demaniale marittima, con scadenza al 31.12.2023 aveva ottenuto, in sanatoria, il rilascio della Valutazione di incidenza ambientale ex artt. 5, commi 2 e 3 DPR n. 357/1997 e 6 comma 3 della Direttiva comunitaria n. 43/1992, limitatamente alla stagione balneare 1.6.2023 – 30.9.2023, con alcune prescrizioni, tra cui quella della “rimozione delle strutture da effettuarsi entro il 15.10.2022”.

Senonché, in data 12.4.2023, i Carabinieri accertavano il mancato rispetto della predetta prescrizione da parte del titolare.

L’autorità regionale competente, con provvedimento ex art. 54 del Codice della Navigazione intimava al predetto concessionario il ripristino delle aree, preavvertendolo che decorso inutilmente il termine fissato, l’ufficio avrebbe dichiarato la decadenza del titolo concessorio.

Il titolare della concessione impugnava, innanzi al TAR Basilicata, il provvedimento ex art. 54 del Codice della Navigazione, deducendo, tra le altre, la violazione dell’art. 10- ter D.L. n. 198/2022 conv. nella L. n. 14/2023, in quanto con tale norma è stato stabilito che i titolari delle concessioni demaniali marittime ad uso turistico – ricreativo, che utilizzano i manufatti amovibili ex art. 3, comma 1, lett. e.5), DPR n. 380/2001, possono mantenerli installati fino al 31.12.2023.

La decisione del TAR.

Il TAR Basilicata, con la sentenza in commento, nel rigettare il ricorso proposto, ha evidenziato che nella fattispecie in esame, l’art. 10 ter D.L. 198/2022 conv. nella L. n. 14/2023, entrato in vigore il 28.2.2023 non può essere applicato perché lo smontaggio delle strutture doveva essere effettuato in data 15.10.2022, prima dell’entrata in vigore del citato articolo.

T.A.R. Basilicata, sez. I, 4.10.2023, n. 558


obbligo

Fin dove arriva l’obbligo di fornire informazioni durante la fase precontrattuale?

Durante la fase precontrattuale, ciascuna parte ha l’obbligo di fornire informazioni idonee a non esporre l’altra parte a rischi o a conseguenze pregiudizievoli di cui la stessa non possa avere contezza e che rientrano viceversa nella sfera di conoscenza o conoscibilità del contraente.

Il contenuto del dovere di informazione nelle trattative precontrattuali riguarda quindi le circostanze obiettive che potrebbero rendere invalido o inefficace il contratto, ma non comprende anche la convenienza dell’affare che ciascuna parte ha l’onere di valutare.

Tali principi sono stati ribaditi dalla Corte d’Appello di Milano che con sentenza dello scorso agosto ha confermato la pronuncia del giudice di primo grado.

Il caso specifico.

Una società stipulava con una società di intermediazione finanziaria contratti di leasing di durata pari a 60 mesi.

Tale durata, però, non permetteva alla società di dedurre fiscalmente i relativi canoni perché inferiore rispetto al minimo previsto dalla legge.

Subito dopo averlo scoperto, la società citava in giudizio l’intermediaria ritenendola responsabile per averla indotta a stipulare un contratto con una durata inferiore al minimo di legge, senza informarla che in tal modo non avrebbe potuto dedurre fiscalmente i relativi canoni.

Il Tribunale di Milano, però, rigettava la domanda risarcitoria non ritenendola meritevole di accoglimento.

Veniva, quindi, interposto appello dalla società, la quale censurava la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176 e 1375 c.c.

La società lamentava altresì l’erroneità della sentenza perché il Tribunale non aveva considerato che la società è un intermediario finanziario, tenuta in tale veste ai comportamenti imposti dall’art. 21 del Testo Unico della Finanza d.lgs. 24.2.1998 n. 58, che specifica la regola della correttezza prevista dall’art. 1175 c.c. in termini di diligenza, correttezza e trasparenza.

La decisione della Corte d’Appello di Milano.

La Corte d’Appello di Milano, nel confermare la sentenza di primo grado, ha preliminarmente evidenziato che un contratto di leasing tra società commerciali non può essere ricondotto nell’alveo della normativa che governa il settore dei servizi di investimento mobiliare e che quindi l’art. 21 del testo Unico della finanza n. 58/1998 non è invocabile perché si tratta di un’operazione di leasing finanziario e non di investimento mobiliare.

Chiarito il quadro normativo di riferimento, la Corte d’appello ha evidenziato che, nel caso in esame, non risulta omessa da parte della società di intermediazione finanziaria alcuna informazione rilevante involgente elementi e circostanze di fatto a sua esclusiva conoscenza in quanto gli specifici aspetti in tema di deducibilità dei canoni di leasing previsti dalla normativa fiscale italiana, che in tesi non sarebbero stati oggetto di adeguata informazione, avrebbe dovuto essere conosciuti da un importante operatore commerciale quale è la società appellante.

Il collegio ha, altresì, evidenziato che la scelta della durata del contratto rientra nella sfera della piena e discrezionale autonomia decisionale della società utilizzatrice a cui compete l’accertamento della normativa fiscale applicabile, giacché solo l’utilizzatore si trova nella condizione di conoscere direttamente e compiutamente, sulla base delle specifiche previsioni normative, il contenuto necessario da dare al contratto in relazione alla durata al fine del vantaggio fiscale.

Deve perciò escludersi – ha concluso la Corte d’appello – che la società intermediaria avesse l’onere di verificare tale profilo, spettava invece alla società appellante, nell’ ambito delle trattative palesare alla società concedente la necessità di stipula del contratto di leasing in modo da poter ricavare la deduzione fiscale dei canoni.

 

Corte d’Appello di Milano, Sez. III, 18 agosto 2023 n. 2547


proroga automatica

Concessioni demaniali marittime: il Consiglio di Stato ribadisce l’inefficacia degli atti di proroga automatica

Il Consiglio di Stato ribadisce l’inefficacia degli atti di proroga automatica delle concessioni demaniali marittime.

Con la recentissima sentenza dello scorso 28 agosto, i giudici di Palazzo Spada, nel rigettare il ricorso proposto dal titolare di una concessione balneare al fine di ottenere l’annullamento, tra gli altri, dell’ordinanza con la quale l’amministrazione comunale aveva ingiunto la demolizione dello stabilimento balneare con conseguente ordine di ripristino dello stato dei luoghi, hanno ribadito che gli atti di proroga ex lege delle concessioni demaniali devono ritenersi tamquam non esset.

Il caso specifico

Il titolare di uno stabilimento balneare nell’aprile 2018 presentava all’ufficio competente del Comune di Lecce il rinnovo dei permessi di costruire rilasciati in suo favore negli anni 2009, 2012 e 2013.

La richiesta veniva, però, rigettata per incompatibilità dell’intervento rispetto alle previsioni del PRC, del PPTR, del d.P.R. 31/2017 nonché in ragione della necessità di salvaguarda la funzionalità del sistema dunale. Il Comune di Lecce adottava, pertanto, l’ordinanza di demolizione dello stabilimento balneare, ordinando il ripristino dello stato dei luoghi.

Detta ordinanza veniva impugnata, sotto plurimi aspetti, dal titolare della concessione innanzi al TAR Puglia, il quale rigettava il ricorso.

Il titolare della concessione proponeva quindi appello innanzi al Consiglio di Stato deducendo l’erroneità della sentenza di primo grado.

La decisione del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato ha confermato la decisione del TAR Puglia, ritenendo legittima l’ordinanza di demolizione dello stabilimento balneare.

Ora, in disparte le argomentazioni poste a sostegno della legittimità dell’operato dell’amministrazione comunale, la sentenza in commento merita di essere segnalata perché i giudici di Palazzo Spada ancora una volta non hanno perso l’occasione di rimarcare la circostanza che gli atti di proroga adottati dalle amministrazioni non producono alcun effetto giuridico.

In particolare, il Collegio ha osservato come tutti i motivi posti a sostegno dell’appellante e utilizzati per rimarcare il profilo patologico dei provvedimenti impugnati non possano cogliere nel segno laddove non tengano conto della inefficacia della proroga della concessione demaniale marittima che costituisce l’atto sul quale poggerebbe il titolo e la legittimazione dell’appellante a pretendere dal Comune di Lecce il rilascio degli atti abilitativi per mantenere la struttura balneare sul terreno demaniale che occupa.

Il ricorrente, infatti, sin dal giudizio di primo grado ha sostenuto che “…i titoli edilizi sopra indicati, essendo collegati nella loro validità temporale alle concessione demaniale (come è sancito letteralmente nei titoli stessi), intervenuta la proroga della detta concessione sino al 31.12.2020 (cfr CDM 02/2014) ne seguono le relative temporali e dovevano essere prorogati automaticamente sino al 31.12.2020, data di attuale scadenza del titolo concessorio”.  

Il ricorrente ha quindi tentato di irrobustire la propria posizione contestativa nei confronti dei provvedimenti impugnati sul presupposto che i titoli edilizi erano stati temporalmente allineati ai termini “prorogati ex lege” della concessione demaniale marittima.

Senonché, il Consiglio di Stato, richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale sul tema delle concessioni demaniali marittime ed evidenziato, dunque, che gli atti di proroga non hanno alcun valore giuridico, ha ritenuto infondati tutti i profili di censura sollevati dall’appellante.

Per i giudici di Palazzo Spada, dunque, le concessioni demaniali marittime in essere andranno a scadere al prossimo 31 dicembre 2023. Con la sentenza in commento è stato infatti ribadito che anche la recente disposizione normativa del c.d. Decreto Milleproroghe, che ha fissato il termine di validità delle concessioni demaniali al 31 dicembre 2024, deve ritenersi tamquam non esset.

A questo punto una domanda sorge spontanea: cosa accadrà dopo il 31 dicembre 2023 alle concessioni demaniali marittime in essere?

Se da un lato, il Consiglio di Stato non appare avere dubbi sull’inefficacia degli atti di proroga automatica, dall'altro, il Governo non ha ancora fornito indicazioni su come affrontare le "gare", limitandosi ad avviare la sola mappatura delle spiagge.

Chi la spunterà?

Cons. Stato, Sez. VI, 28 agosto 2023, n. 7992


effetto caducante, proroga

L’illegittimità di una concessione demaniale marittima ha effetto caducante sugli atti di proroga successivi

Il Consiglio di Stato, con la sentenza dello scorso 7 luglio, confermando le statuizioni del TAR Liguria, ha ritenuto che l’illegittimità di una concessione demaniale marittima abbia effetto caducante rispetto agli atti di proroga successivi, anche quando non specificatamente impugnati.

Il caso specifico

Una società ha impugnato la concessione demaniale marittima rilasciata, nel lontano 2009, dall’amministrazione comunale competente, a favore di un’altra società, domandandone l’annullamento perché illegittimamente prorogata in via automatica. La concessione impugnata, infatti, costituiva rinnovazione della precedente concessione demaniale rilasciata nel 2003, assentita in forza dell’art. 7, comma 5 della L.R. Liguria n. 1/2002.

In particolare, a sostegno del ricorso, la società istante ha dedotto l’illegittimità della proroga automatica della concessione perché adottata in violazione delle norme dell’ordinamento eurounitario e dell’art. 117, comma 1 Cost. che impongono l’espletamento di una procedura di evidenza pubblica ai fini del rilascio della concessione demaniale marittima.

Nel caso specifico, poi, ben dieci prima, il Consiglio di Stato, con sentenza 29 gennaio 2013, n. 525,  aveva già annullato gli atti con cui il medesimo comune aveva rigettato l’istanza dell’odierna ricorrente che, interessata, come oggi, all’area demaniale confinante, in prossimità della scadenza del titolo concessorio, aveva domandato la titolarità della gestione della relativa area demaniale. In quell’occasione, il Consiglio di Stato aveva già evidenziato il contrasto della normativa interna con l’art. 12, comma 2 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa ai servizi nel mercato interno, 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE, nonché con i principi del Trattato in tema di concorrenza e di libertà di stabilimento, contrasto che aveva finanche portato all’abrogazione della norma interna ad opera dell’art. 11, comma 1, della legge 15 dicembre 2011, n. 217, al fine di chiudere la procedura d’infrazione n. 2008/4908 nel frattempo avviata nei confronti dell’Italia ai sensi dell’art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.

Nonostante ciò, il comune ha continuato ad adottare, nelle more, atti di proroga del titolo concessorio, tutti impugnati dalla società ricorrente.

In primo grado, il TAR Liguria ha accolto il ricorso della società aspirante concessionaria, ritenendo che l’illegittimità della concessione demaniale del 2009 “ha effetto caducante e si estende anche a tutti gli atti consequenziali, cioè a tutte le ulteriori proroghe automatiche, anche quando non fossero state specificatamente impugnate”.

La sentenza è stata impugnata dal titolare della concessione, il quale ha dedotto che il giudice di primo grado ha errato nella parte in cui ha escluso l’applicabilità al caso di specie dell’art. 3 L. 118/2022 e non è pervenuto ad una pronuncia di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Nello specifico, ha evidenziato che nel corso del giudizio era intervenuta la nuova disciplina di cui all’art. 3 della L. 5 agosto 2022, n. 118 secondo la quale “continuano ad avere efficacia fino al 31 dicembre 2023 …, se in essere alla data di entrata in vigore della presente legge sulla base di proroghe o rinnovi disposti anche ai sensi della l. 30 dicembre 2018 n. 145 … le concessioni demaniali marittime per l’esercizio delle attività turistico ricreative e sportive, ivi comprese quelle, di cui all’art. 1 c. 1 d.l. 400/93”. Pertanto, a parere del ricorrente, poiché la concessione del 2009, ad agosto del 2022, era in “essere” (seppur sub iudice) sulla base di una serie di proroghe attuative delle leggi nazionali succedutesi nel tempo e, in ultimo, sulla base di proroga attuativa della l. 145/2018, conseguentemente l’art. 3 L. 118/2022 aveva inciso sulla concessione del 2009 come da ultimo prorogata ex l. 145/2018, decretandone l’efficacia fino al 31 dicembre 2023 con effetto sanante.

La decisione del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato, nel confermare la decisione del TAR Liguria ha evidenziato che gli atti di proroga sono stati adottati non solo in violazione del diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 del TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE ma anche del giudicato.

La sentenza resa dal Consiglio di stato, ben dieci anni prima (sentenza 29 gennaio 2013, n. 525), evidenziava, infatti che le normative che prevedono proroghe automatiche in tema di concessioni demaniali marittime violano l’art. 117, comma 1, della Cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di diritto di stabilimento e di tutela della concorrenza. L’automatismo della proroga della concessione determina, infatti, una disparità di trattamento tra gli operatori economici in violazione dei principi di concorrenza, dal momento che coloro i quali in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore se non nel caso in cui questi non chieda la proroga o la chieda senza un valido programma di investimenti.

È proprio il caso di dirlo, dieci anni dopo e nulla è cambiato!

 

(Cons. St., Sez. VII, sentenza 7 luglio 2023, n. 675)


contratto, clausole vessatorie

Scrivere un contratto non è un gioco da ragazzi. Come devono essere approvate le clausole vessatorie?

Scrivere un contratto non è un gioco da ragazzi, questa potrebbe essere una delle massime da estrapolare nella recente sentenza della Corte d’appello di Milano sezione specializzata in materia d’impresa, chiamata a chiarire le caratteristiche dei contratti c.d. standard nonché a definire i requisiti della "specifica approvazione" ex art. 1341 c.c. sulle clausole vessatorie.

Il caso specifico.

Una società operante nella intermediazione turistica sottoscriveva, con un’azienda, cinque contratti di associazione in partecipazione con cui regolava la gestione di altrettanti punti vendita.

Senonché, dopo un paio d’anni, il legale rappresentante p.t. dell’azienda, che nelle more era stata ceduta a terzi, esercitava il diritto di recesso da tutti e cinque i contratti, avviando, al contempo, nei medesimi punti di vendita, un’attività di agenzia viaggi.

La società di intermediazione turistica citava, quindi, in giudizio la predetta azienda eccependo la violazione dell’obbligo di non concorrenza contrattualmente previsto, con conseguente condanna della convenuta al pagamento delle penali.

Il Tribunale adito rigettava tutte le domande formulate dall’agenzia, la quale, all’esito, interponeva appello, deducendo l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui il giudice ha ritenuto che tutti i rapporti di associazione in partecipazione sono stati regolati da formulari standardizzati nonché nella parte in cui ha dichiarato la nullità della clausola contrattuale, relativa all'obbligo di non concorrenza, perché indeterminata nell’oggetto.

Decisione della Corte

La Corte d’appello, nel rigettare l’appello e confermare dunque la sentenza di primo grado ha ritenuto che i contratti in questione sono da qualificare come contratti standard.

Questi, infatti, risultano composti da varie clausole predisposte unilateralmente dall’agenzia di intermediazione turistica e sottoscritte solo per adesione. Nel caso specifico, poi, il giudice di secondo grado ha rilevato che la società di intermediazione turistica è un network di rilevanza nazionale che gestisce centinaia di agenzie sul territorio nazionale.

Elemento determinante, però, nel qualificare tale contratto come contratto standard, è che non vi è stata specifica e particolareggiata trattativa su ciascuna clausola contrattuale, né tanto meno, su quelle che introducono forti limitazioni all’autonomia negoziale dopo la conclusione del contratto, tra cui anche l’articolo, limitativo della concorrenza, posto a fondamento della domanda risarcitoria formulata dall’agenzia di intermediazione turistica.

Al riguardo, la Corte ha chiarito che neppure la doppia sottoscrizione apposta sull’elenco soddisfa il requisito della “specifica approvazione”, considerato che non è stato indicato il contenuto di ciascuna clausola a fianco al relativo numero e l’elenco non ricomprende solo clausole vessatorie, ma anche pattuizioni che non presentano tale carattere.

Del resto, in giurisprudenza è ormai pacifico l’orientamento (Cfr. ex multis Cass. Civ. Sez. II, 29.02.2008, n. 5733; Cass. Civ. Sez. II, 31.10.2016, n. 22026; Cass. Sez. VI, 12.10.2016, n. 20606) secondo cui non integra il requisito della specifica approvazione per iscritto ex 1341, comma 2, c.c., il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto o di gran parte di esse, comprese quelle prive di carattere vessatorio, e, quindi, la loro sottoscrizione indiscriminata, poiché con tale modalità non è garantita l’attenzione del contraente debole verso la clausola a lui sfavorevole, in quanto ricompresa tra le altre richiamate.

Tale modalità di approvazione della clausola vessatoria rende oggettivamente difficoltosa la percezione della stessa, giacché la genericità di tale riferimento priva l’approvazione della specificità richiesta dall’art. 1341 c.c., in quanto la norma richiede non soltanto la sottoscrizione separata, ma anche la scelta di una tecnica redazionale idonea a suscitare l’attenzione del sottoscrittore sul significato delle clausole specificatamente approvate.

(Corte d’Appello di Milano, Sezione specializzata in materia d’impresa, 21.6.2023, n. 2049).


codice dei contratti

Concessioni demaniali: il codice dei contratti pubblici non trova integrale applicazione

Il codice dei contratti pubblici non trova integrale applicazione nell’ambito delle concessioni demaniali. Questo è quanto affermato dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un diniego di rinnovo della concessione demaniale marittima ex art. 36 cod. nav. per il mantenimento di un impianto di distribuzione carburanti, disposto dalla Autorità portuale competente.

Il caso specifico.

All’esito della pubblicazione della domanda di rinnovo del titolo concessorio presentata dalla società titolare della concessione, una seconda società  presentava, a sua volta, istanza di concessione demaniale in concorrenza per la gestione di un impianto di distribuzioni carburanti.

L’Autorità portuale competente, informate le due società concorrenti, comunicava che per l’esame delle domande sarebbe stata predisposta la relativa Conferenza dei servizi decisoria per l’acquisizione dei pareri istruttori.

Pervenuti i dovuti pareri e assunte le osservazioni delle due società concorrenti, l’Autorità portuale emetteva la determinazione di conclusione positiva della conferenza dei servizi decisoria, ritenendo ammissibile l’istanza ed il progetto della società concorrente. Faceva quindi presente che con successiva nota avrebbe comunicato l’avvio della fase procedimentale di comparazione delle due offerte. Con la medesima nota precisava altresì che solo la società che sarebbe risultata preferita avrebbe dovuto acquisire l’autorizzazione paesaggistica della Soprintendenza.

L’Autorità portuale, determinatasi a procedere alla assegnazione della concessione demaniale a mezzo di licitazione privata ex art. 37, comma 3 del cod. nav., inviava le società concorrenti a formulare offerte economiche al rialzo sull’importo a base d’asta di € 7.500,00.

Entrambe le società formulavano la propria offerta economica (la società già titolare della concessione per un importo pari ad € 45.000,00, la società concorrente per un importo pari ad € 108.000,00) e all’esito delle operazioni di gara è risultata migliore offerente la società che aveva offerto il maggior rialzo, ovvero la società concorrente.

Per l’effetto, l’Autorità portuale rigettava la domanda di rinnovo della concessione avanzata dalla società già titolare e adottava l’atto di intimazione a procedere allo sgombero ed alla rimessione in pristino dell’aerea demaniale occupata dall’ormai ex concessionaria.

Entrambe le società impugnavano gli atti della procedura adottati dall’Autorità portuale.

Il Tar Catania accoglieva il ricorso presentato dall’ex concessionaria, rilevando:

  • l’illegittima mancata partecipazione della Soprintendenza per il rilascio del parere ex art. 146 del d.lgs. 42/2004 su entrambe le istanze di comparazione, alla conferenza decisoria indetta dall’Autorità;
  • la mancata esclusione della società concorrente dalla procedura di comparazione per non aver presentato referenze di (minimo) due diversi istituti bancari, così come espressamente richiesto dall’Autorità.

Avverso la sentenza del giudice primo grado, ha presentato appello principale la società concorrente, nonché appello incidentale la società ex concessionaria e l’Autorità portuale.

La decisione del CGARS.

Il Consiglio di giustizia amministrativa ha dichiarato, l’appello principale, per intero, inammissibile per superamento non autorizzato dei limiti dimensionali (per un approfondimento si veda il punto 12.1. della sentenza), mentre ha accolto l’appello incidentale presentato dall’Autorità portuale e rigettato quello della società ex concessionaria.

Nello specifico, è stato ritenuto fondato il motivo ove è stato dedotto l’erroneità della pronuncia di primo grado nella parte in cui ha fondato l’asserita illegittimità dei provvedimenti impugnati sulla mancata acquisizione del parere della Soprintendenza ai beni culturali e ambientali in seno alla Conferenza di servizi decisoria.

Il CGARS ha, infatti, rilevato che la mancata partecipazione della Soprintendenza alla conferenza dei servizi è frutto di una precisa scelta della stessa Soprintendenza, ripetutamente manifestata all’amministrazione procedente. La Soprintendenza, infatti, aveva espressamente comunicato che il parere ex art. 146 d.lgs. 42/2006 doveva essere richiesto solo relativamente al progetto che sarebbe stato scelto dall’Autorità.

Ne consegue, dunque, che “la volontaria mancata partecipazione della Soprintendenza alla Conferenza di servizi decisoria non possa chiedersi ragione all’Autorità di sistema portuale”.

Anche il secondo motivo di censura sollevato dall’Autorità portuale, con il quale è stata criticata la parte della sentenza che ha ritenuto dirimente ai fini dell’accoglimento del ricorso presentato dall’ex concessionaria la mancata esclusione dal procedimento di comparizione della società concorrente per non aver prodotto le duplici referenze bancarie richieste dall’Autorità portuale, è stato ritenuto fondato dal CGARS.

In particolare, il collegio ha ritenuto che tale omissione non costituisca un’esplicita clausola di immediata esclusione dalla procedura comparativa. Invero, il CGARS, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. IV, sent. 22 novembre 2013, n. 5542), secondo cui “la presentazione d’idonee referenze bancarie comprovate dalla dichiarazione di “almeno due istituti bancari o intermediari autorizzati” non può considerarsi quale requisito “rigido”, dovendosi conciliare l’esigenza della dimostrazione dei requisiti partecipativi con il principio della massima partecipazione alle gare di appalto, con conseguente necessità di prevedere temperamenti rispetto a quelle imprese che non siano in grado, per giustificati motivi, di presentare le indicate”, ha ritenuto che la mancata presentazione delle duplici referenze bancarie avrebbe potuto influire sulla valutazione della capacità economico-finanziaria della richiedente ma non essere causa di esclusione.

Ha aggiunto, altresì, il collegio che la procedura prevista dall’art. 37, comma 3 del cod. nav. è connotata da caratteristiche meno rigide rispetto alla licitazione prevista dal codice dei contratti che non trova integrale applicazione nell’ambito delle concessioni.

Il CGARS ha ritenuto fondato anche il terzo motivo di appello formulato dall’Autorità portuale con il quale è stata dedotta l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha affermato l’illegittimità dell’ingiunzione di sgombero anche perché “al tempo in cui fu adottata” non era ancora stato individuato il soggetto destinatario della nuova concessione.

Al riguardo, il collegio ha osservato che la scadenza della concessione rende sine titulo l’occupazione degli immobili. Lo sgombero è, solo per tale motivo, provvedimento immediatamente obbligatorio e vincolato. Non necessita, pertanto, l’attesa dell’individuazione di un nuovo concessionario (che – precisa il CGARS- potrebbe, in linea puramente astratta, perfino non esserci mai, laddove l’amministrazione si determini per la gestione diretta dell’area).

Concluso lo scrutinio dell’appello incidentale dell’Autorità portuale, il CGARS ha esaminato l’appello incidentale presentato dalla società ex concessionaria, la quale ha, sostanzialmente, richiamato i plurimi profili di doglianza dedotti già in primo grado.

Nella disamina di detto appello incidentale, degno di nota è la puntuale e condivisibile osservazione del CGARS, secondo cui non sussiste un obbligo di legge di procedere all’affidamento delle concessioni demaniali marittime nelle forme tipiche delle procedure ad evidenza pubblica previste per i contratti d’appalto della pubblica amministrazione.

L’assenza di tale obbligo – ha precisato il CGARS – è dovuta dal fatto che l’art. 37 cod. nav. contempla l’ipotesi di una domanda che perviene dal mercato privato, al contrario dell’ipotesi dei contratti pubblici, in cui è l’amministrazione a rivolgersi a quest’ultimo.

Il CGARS ha infatti evidenziato che “è indispensabile unicamente che il procedimento informale di cui agli artt. 37 cod. nav. e 18 reg. es. cod. nav. si svolga con modalità idonee a soddisfare gli obblighi di trasparenza, imparzialità e par condicio, rendendo effettivo il confronto fra le istanze in comparazione e quindi le chances concorrenziali delle nuove imprese contendenti”.

Nel caso scrutinato, il CGARS ha quindi ritenuto legittima la procedura di licitazione privata rilevando che il procedimento concorrenziale di cui qui trattasi non è soggetto agli stessi formalismi, né dunque ai principi giurisprudenziali che sono previsti per l’aggiudicazione dei pubblici appalti.

CGARS, 22.5.2023, n. 350