Edifici con vincolo storico-architettonico e mutamento di destinazione d’uso: quali limiti al potere di autorizzazione della Soprintendenza?
Il Codice dei Beni Culturali (d.lgs. 42/2004) impone, con riferimento ai beni oggetto di vincoli culturali, che “opere e lavori di qualunque genere” (anche, quindi, rientranti, al livello edilizio, nella c.d. edilizia libera) e “mutamenti di destinazione d’uso” siano sottoposti ad autorizzazione del MiBACT, per il tramite della competente Soprintendenza.
In particolare, si tratta della disciplina recata dagli artt. 20 e 21, in base ai quali:
- “I beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione” (art. 20, co. 1);
- “l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali è subordinata ad autorizzazione del soprintendente. Il mutamento di destinazione d’uso dei beni medesimi è comunicato al soprintendente per le finalità di cui all’articolo 20, comma 1” (art. 21, co. 4);
- “L’autorizzazione è resa su progetto o, qualora sufficiente, su descrizione tecnica dell’intervento, presentati dal richiedente, e può contenere prescrizioni” (art. 21, co. 5).
Una recente decisione del TAR Lazio, Sez. II-quater, 18.5.2018 n. 5541 ha avuto modo di affrontare un particolare caso, relativo ad un immobile vincolato, collocato nel centro storico di Roma.
Il progetto, sottoposto alla Soprintendenza per l’autorizzazione, prevedeva, previa esecuzione di alcune opere interne, la trasformazione del piano terra dello stabile da “convitto” a “ristorante”.
ll MiBACT aveva negato il n.o., ritenendo tale destinazione incompatibile con le caratteristiche del bene.
Inoltre, sempre secondo la Soprintendenza, la nuova attività, con occupazione di suolo pubblico, avrebbe leso decoro e aspetto architettonico del luogo.
Il TAR ha annullato tale provvedimento a partire da due premesse:
a) un uso può essere vietato solo se concretamente sia incompatibile con la tutela del bene o ne comprometta la conservazione.
b) occorre una pertinente e approfondita motivazione.
Infatti, il potere autorizzatorio della Soprintendenza “che incide sulla proprietà del bene nonché sulla libertà di iniziativa economica, deve essere esercitato nei limiti attribuiti dalla norma [n.d.d. : l’art. 20, co. 1, del Codice] che fa espresso riferimento alla incompatibilità dell’uso con il carattere “storico o artistico” del bene o al “pregiudizio” alla conservazione del bene vincolato“.
Sicché “anche ai fini della legittimità costituzionale e comunitaria della disposizione, si deve ritenere che un determinato uso può essere vietato solo se effettivamente ed in base a circostanze concrete sia incompatibile con la tutela sotto il profilo storico o artistico del bene o possa comportare un pericolo per la sua conservazione”.
Necessita, dunque “un’adeguata motivazione delle ragioni di una prescrizione limitativa dell’attività commerciale con specifico riferimento al pregiudizio alla conservazione e alla fruizione pubblica del bene, ovvero all’incompatibilità con il suo carattere storico-artistico)”.
La sentenza, rilevato che nella motivazione del diniego mancano le ragioni per cui la presenza di un’attività di ristorazione pregiudicherebbe il bene dal punto di vista storico o architettonico, ha precisato, in termini più generali che, “la destinazione ad attività commerciale non è di per sé incompatibile con la tutela di un bene vincolato” e, anzi, è tale da consentire addirittura una “maggiore fruibilità pubblica del bene“.
Il provvedimento della Soprintendenza, inoltre, aveva motivato il diniego anche con riferimento ad un ulteriore presupposto, relativo all’inserimento di una ulteriore attività di ristorazione nella piazza che, con la relativa occupazione di suolo pubblico, avrebbe inciso “negativamente sul decoro e sull’aspetto architettonico della piazza stessa”.
Tale motivazione, secondo il TAR è del tutto esterna al perimetro del potere della Soprintendenza in sede di autorizzazione ex art. 21, che deve limitarsi a considerare l’impatto dell’intervento sul bene, rispetto ai valori tutelati dal decreto di vincolo.
Infatti, la tutela delle aree storiche della città è oggetto dell’art. 52 del Codice che attribuisce al Comune, di concerto con la Soprintendenza, il potere di individuare “aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio”.