Piano Casa, rigenerazione urbana e Corte Costituzionale n. 70/2020: “il corto circuito” dello sblocca-Cantieri 2019.
Ha fatto davvero molto “rumore”, destando significative preoccupazioni, la sentenza della Corte Costituzionale n. 70 2020 della Costituzionale, che rischia di produrre un “corto circuito” tra Piani Casa, rigenerazioni urbane e sblocca cantieri 2019.
La pronuncia, in disparte alcune questioni aventi rilievo perlopiù “locale”, ossia la disciplina del Piano Casa della Regione Puglia (L.R. 14/2009, così come modificata dalle L.R. 59/2018 e 5/2019), interviene per la prima volta a chiarire la portata dell’art. 2-bis, co. 1-ter, del D.P.R. 380/2001.
Tale disposizione prevede, in particolare, che
“in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo”.
Il comma in questione è stato introdotto dal c.d. sblocca-cantieri, ossia dalla legge n. 55/2019 (di conversione, con modifiche, del D.L. 32/2019).
Con la sentenza 70/2020 la Consulta è stata chiamata a valutare, tra l’altro, la legittimità dell’art. 7 della L.R. Puglia 5/2019.
Tale disposizione aveva introdotto il co. 5-ter all’art. 4 della L.R. 14/2009, norma, quest’ultima che disciplina gli “interventi di demolizione e ricostruzione di edifici residenziali e non residenziali o misti con realizzazione di un aumento di volumetria sino al 35 per cento di quella legittimamente esistente”.
In particolare, il co. 5-ter introdotto dall L.R. 5/2019 sottoposta al vaglio della Consulta disponeva che
“Gli interventi edilizi di ricostruzione previsti dal comma 1, da effettuare a seguito della demolizione di uno o più edifici a destinazione residenziale o non residenziale, possono essere realizzati anche con una diversa sistemazione plano-volumetrica, ovvero con diverse dislocazioni del volume massimo consentito all’interno dell’area di pertinenza, alle condizioni di cui all’articolo 5, comma 3, e qualora insistano in zona dotate delle urbanizzazioni primarie previste dalle vigenti disposizioni normative, statali e regionali.”
La Corte ha ritenuto tale disposizione illegittima in quanto contrastante con il citato art. 2-bis, co. 1-ter del D.P.R. 380/2001.
Di seguito, i passaggi principali del ragionamento della Corte.
L’art. 2-bis del D.P.R. 380/2001 costituisce un principio fondamentale della materia edilizia (e ciò, sottolinea la Consulta, è già stato chiarito “per ciò che concerne la vincolatività delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968”).
Sicché, posto che la disposizione di cui al co. 1-ter prevede che “in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo”, si sarebbe al cospetto di una “regola unitaria, valevole sull’intero territorio nazionale, diretta da un lato a favorire la rigenerazione urbana e, dall’altro, a rispettare l’assetto urbanistico impedendo ulteriore consumo di suolo”.
Tanto premesso, la Corte perviene alla conclusione che vi è una (sopravvenuta) antinomia tra il co. 1-ter della norma del D.P.R. e l’art. 7 della L.R. Puglia 5/20109. Quest’ultimna norma, quindi, non può (o, meglio, “non può più”) prevedere in caso di demo-ricostruzione un aumento di volume, né, tantomeno alcuna diversa dislocazione di volumi, posto il richiamo che l’art. 2-bis, co. 1-ter del D.P.R. 380/2001 opera al necessario rispetto dell’area di sedime (e del volume) in sede di ricostruzione.
A “salvare” la disposizione regionale non è valso opporre – da parte della Regione Puglia – che ci si trova davanti ad una normativa, quella appunto di Piano Casa, eccezionale che, nell’ammettere ampliamenti in sede di demolizione e ricostruzione, si fonda sulla nota intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata del 1.4.2009, che aveva consentito ai legislatori regionali aumenti volumetrici (tra il 20% ed il 35%) nonché delocalizzazioni.
Insomma, ad avviso della Consulta l’art. 2-bis, co. 1-ter, D.P.R. 380/2001 avrebbe determinato la sopravvenuta illegittimità di tutte le previsioni, ancorché speciali e legittimate da una norma nazionale ed un successivo accordo Stato – Regioni, che ammettono aumenti di cubatura e modifiche della dislocazione plano volumetrica in sede di demo-ricostruzione.
Seguendo la pronuncia della Corte, si potrebbe pervenire alla conseguenza che si sarebbe prodotto nell’ordinamento il superamento – la sopravvenuta illegittimità – di molte delle norme adottate dalle Regioni sotto la “copertura” non solo dell’accordo Stato-Regioni del 1.4.2009, ma anche dell’art. 5, co. 9, D.L. 70/2011 (conv. in legge 106/2001, c.d. decreto sviluppo, il quale, pure, espressamente riconosceva la possibilità di ammettere, per finalità di “incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate”, interventi di demolizione e ricostruzione con premialità di cubatura e diverse localizzazioni). D’altra parte, le disposizioni dei Piani casa fino ad oggi erano state dichiarate incostituzionali – proprio con riferimento al parametro dell’art. 2-bis D.P.R. 380/2001 – con esclusivo riferimento al tema, strettamente inteso, della inderogabilità delle distanze di cui al D.M. 1444/1968.
Con il doveroso ossequio per la Corte Costituzionale, ci sembra che tale lettura – che rischia di creare problemi sistematici, operativi ed economici non indifferenti (paradossale, se consideriamo che la questione sorge da una norma battezzata “sblocca-cantieri”) – innanzi tutto non si faccia sufficiente carico di considerare la specialità dei Piani Casa (ma anche delle leggi sulla c.d. rigenerazione urbana, “applicativi” del D.L. 70/2011).
In altri termini, è ragionevole ritenere che laddove veramente il legislatore statale avesse voluto, con l’introduzione del co. 1-ter dell’art. 2-bis D.P.R. 380/2001, superare tanto i Piani Casa quanto le possibilità parimenti speciali affidate alle Regioni con il D.L. 70/2011, ciò sarebbe dovuto avvenire in modo assai più chiaro ed espresso. E ciò senza considerare come un simile effetto sembrerebbe da escludersi già solo per le finalità dichiarate in generale dalla L. 55/2019 (“sblocca-cantieri”) e, in particolare, dall’art. 5 della stessa, introdotto al dichiarato fine di incentivare la c.d. rigenerazione urbana.
In secondo luogo, ci sembra che la lettura offerta dalla Consulta vada ben oltre alla effettiva portata dell’art. 2-bis, co. 1-ter del D.P.R. 380/2001.
Ci si riferisce, con riferimento a quest’ultimo aspetto, alla circostanza che la norma – in cui il decreto sblocca-cantieri ha inserito il co. 1-ter – non ha ad oggetto la disciplina generale della ristrutturazione edilizia e/o della demolizione e ricostruzione e dei relativi limiti “assoluti” a tali tipologie di intervento, bensì un tema più “limitato”.
L’art. 2-bis, infatti, è rubricato “deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati”.
Il co. 1, poi, in parte estendendo il raggio di azione della norma, disciplina il potere delle Regioni di dettare “disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali” (ossia di derogare gli standard edilizi ed urbanistici). Precisa poi il co. 1-bis, introdotto anch’esso dallo sblocca-cantieri del 2019, che le predette disposizioni regionali sono “finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio”.
È in tale norma che si inserisce il co. 1-ter che – a nostro avviso – si limita, con espresso e circoscritto riferimento alla disciplina delle distanze, a prevedere che, per poter mantenere eventuali distanze preesistenti derogatorie del D.M. 1444/1968, l’intervento di demolizione e ricostruzione deve essere realizzato “assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo”.
Dunque, la norma non sembrerebbe avere avuto una portata tanto innovativa come ipotizzato dalla Corte Costituzionale, quanto, piuttosto, quella di positivizzare l’orientamento giurisprudenziale affermatosi dinanzi al Consiglio di Stato a partire dalla nota sentenza 4337/2017 secondo cui se la ricostruzione avviene nel rispetto della precedente sagoma e area di sedime, potranno essere mantenute le “preesistenti” distanze (anche inferiori a quelle ex art. 9 del DM 1444) mentre se la ricostruzione prevede il mutamento di tali parametri, questa dovrà osservare – come una nuova edificazione vera e propria – la disciplina delle distanze.
D’altra parte, la disciplina “ordinaria” della ristrutturazione edilizia continua ad essere dettata dal combinato disposto degli artt. 3, co. 1, lett. d) (che non impone, ad esempio, il mantenimento della medesima sagoma, salvo il caso di immobili vincolati ed area di sedime in caso di ristrutturazione con demo-ricostruzione), e 10, co. 1, lett. c) (che qualifica espressamente come ristrutturazione edilizia anche interventi che modifichino sagoma e volume del fabbricato) del D.P.R. 380/2001, a loro volta oggetto di ricognizione da parte della Tabella A del d.lgs. 222/2016 (cfr. punti 7 ed 8).
Quanto precede, peraltro, al netto del fatto che gli interventi di demolizione e ricostruzione, se eseguiti con ampliamento volumetrico, come da insegnamento della giurisprudenza amministrativa, non sono propriamente nemmeno da ricondurre alla categoria della ristrutturazione edilizia, quanto, piuttosto della “sostituzione edilizia”, assimilabile alla nuova costruzione.
Ma si tratta di tema che, in realtà, nell’ambito di norme, si ribadisce, speciali (i c.d. Piani Casa ovvero le leggi sulla rigenerazione urbana, “applicative” del D.L. 70/2011), appare comunque assorbito dalla natura eccezionale e derogatoria di dette fonti che, peraltro, espressamente ammettono la forma di intervento demolizione e ricostruzione con ampliamento.
Come uscirne? Possibili argomentazioni atte a “circoscrivere” la portata della sentenza [upgrade del 7.5.2020]
Ovviamente, per quanto discutibile o poco convincente (a nostro avviso, s’intende), la sentenza della Corte rischia di determinare un effetto “incertezza” su operatori economici, investitori e P.A.. Inoltre, vi è il pericolo di un “effetto domino”, tale da potersi estendere (in modo imprevedibile) anche a norme di altre regioni (le quali, laddove prevedano, come in moltissimi casi, interventi di demo-ricostruzione con bonus volumetrico e modifiche plano-volumetriche, ben potrebbero essere considerate illegittime a far data dall’entrata in vigore del co. 1-ter dell’art. 2-bis D.P.R. 380/2001, ossia dal 19.6.2019).
Non resta che auspicare un pronto intervento del legislatore statale.
A meno che della sentenza della Corte non voglia – e possa – darsi una lettura particolarmente restrittiva (per non dire riduttiva e “correttiva”) nel senso che la stessa semplicemente intenderebbe ribadire che, in caso di modifiche di volume e/o area di sedime, sarebbe doveroso il rispetto delle distanze prescritte dal D.M. (ma, se così fosse, la decisione probabilmente non avrebbe dichiarato in modo così tranchant l’incostituzionalità della norma).
Ecco, quindi, alcune ipotesi interpretative, anche tra loro connesse, di interpretazione “restrittiva” della sentenza della Corte.
In tal senso, un possibile argomento atto a supportare questa interpretazione “restrittiva” della decisione della Corte è costituito dal rilievo che la norma di cui al co. 1 dell’art. 4 della L.R. Puglia 14/2009 non viene – almeno espressamente – qualificato come illegittima, ancorché tale comma espressamente preveda, a monte, la possibilità di realizzare interventi di demo-ricostruzione con aumenti di cubatura.
Per tale via, dunque, potrebbe trovarsi un – parziale – supporto alla tesi che la Corte abbia voluto solamente dichiarare l’incostituzionalità del nuovo art. 4, co. 5-ter, solo se inteso quale deroga delle regole sulle distanze prescritte dall’art. 2-bis, co. 1-ter del D.P.R. 380/2001.
Insomma, come da riflessioni condivise con l’arch. Luca Baldini , il senso della decisione potrebbe essere quello di voler “ribadire” che la derogabilità della disciplina sulle distanze ex D.M. 1444/1968 è ammessa solo in interventi contemplati “nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali” (come prescritto dall’art. 2-bis, co. 1, D.P.R. 380/2001) e non, quindi, in caso di interventi “diretti” puri.
Anche in questo caso – ferma la correttezza del principio e la sua certa applicabilità anche alle norme dei Piani Casa e delle normative sulla rigenerazione urbana – la sentenza della Corte si rivelerebbe meno “innovativa” di quel che appare e, inoltre, difficilmente ancorabile agli effetti “diretti” del co. 1-ter dell’art. 2-bis D.P.R. 380/2001.
Infatti, il principio della non derogabilità del D.M. 1444/68 se non nell’ambito di strumenti di pianificazione “a larga scala” è fermo e pacifico da ben prima della legge sblocca-cantieri del 2019, essendo stato affermato dalla giurisprudenza costituzionale ed amministrativa, anche prima della sua codificazione nell’art. 2-bis citato (ad es. Corte Cost. 232/2005; Cons. Stato 5108/2013; Corte Cost. 41/2017, relativa al tema della deroga delle distanze nel Piano Casa Veneto).
Altra ipotesi interpretativa “restrittiva” è quella che è nata da un confronto ed una riflessione con l’arch. Marco Campagna (qui, un suo commento alla sentenza, con riflessioni operative in ordine alla L.R. Lazio n. 7/2017 sulla rigenerazione urbana).
In particolare, è anche possibile porre l’accento sulla circostanza che la Consulta nella sentenza n. 70/2020 afferma che il co. 1-ter dell’art. 2-bis esprime una “ una ratio univoca, volta a superare tutte le disposizioni (anche regionali), in materia di SCIA, incompatibili con i nuovi vincoli”.
L’espresso riferimento alle disposizioni in materia di SCIA potrebbe essere valorizzato – pur nella cripticità del dispositivo della sentenza della Consulta – nel senso di ritenere che la dichiarazione di illegittimità costituzionale è limitata ad impedire che gli interventi di demo-ricostruzione con ampliamento (ossia, come abbiamo già rammentato, “sostituzione edilizia”) possano essere realizzati con SCIA (semplice, ex art. 22 o alternativa, ex art. 23 D.P.R. 380/2001) anziché permesso di costruire.
Tale prospettiva – seppure di sicuro interesse – potrebbe essere posta in discussione, in vero, dal fatto che a strettissimo rigore non è stato tanto il co. 1-ter dell’art. 2-bis a “chiarire” che gli interventi di demo-ricostruzione con aumento di volume non rientrano nel regime della SCIA (semplice o alternativa), quanto, piuttosto, il d.lgs. 222/2016 (c.d. decreto SCIA 2) e, in particolare, i già citati p.ti 7 ed 8 della Tabella A, Sezione edilizia.
Qui, in particolare, si precisa, laddove vengono esaminati gli “elementi costitutivi della fattispecie” , al p.to 7 (RE “leggera”) la necessità che l’intervento non determini maggiore volumetria mentre, al p.to 8 (RE “pesante”) è espressamente richiesto che gli interventi “non prevedano la completa demolizione dell’edificio esistente“.
Sicché, a ben vedere, la non riconducibilità degli interventi di sostituzione edilizia (DR+aumento cubatura ed eventuale delocalizzazione) al regime della SCIA (e, quindi, la loro sussumibilità nel regime del PdC) non sembra essere un effetto “diretto” dello sblocca cantieri.