Concessioni senza gara: incostituzionale l’art. 177 del Codice
La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 177, comma 1, del Codice dei contratti pubblici che, come si ricorderà, ha fatto molto discutere in relazione all’obbligo di mettere a gara le concessioni.
In particolare, l’art. 177, comma 1, Codice prevedeva che “Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 7, i soggetti pubblici o privati, titolari di concessioni di lavori, di servizi pubblici o di forniture già in essere alla data di entrata in vigore del presente codice, non affidate con la formula della finanza di progetto, ovvero con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione europea, sono obbligati ad affidare una quota pari all’80% dei contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni di importo pari o superiore a 150.000 euro e relativi alle concessioni mediante procedura ad evidenza pubblica, introducendo clausole sociali e per la stabilità del personale impiegato e per la salvaguardia della professionalità. La restante parte può essere realizzata da società in house di cui all’articolo 5 per i soggetti pubblici, ovvero da società direttamente o indirettamente controllate o collegate per i soggetti privati, ovvero tramite operatori individuati mediante procedura ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato”.
Il successivo comma 2 – recentemente emendato dall’art. 47 ter d.l. 77/2021 (c.d. decreto Semplificazioni bis) – prevedeva di posporre il termine per l’obbligo di conformazione (per le sole concessioni già vigenti) alla data del 31.12.2022.
La Corte costituzionale, con sentenza 23.11.2021 n. 218, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 177, comma 1, d. lgs. 50/2016 (e, per l’effetto dei commi 2 e 3 della medesima disposizione, nonché dell’art. 1, comma 1, lettera iii) legge delega).
La pronuncia appena richiamata presenta elementi di notevole portata. In particolare, la Consulta statuisce che:
1) le norme censurate determinano non una limitazione della libertà di iniziativa economica, ma una inaccettabile (ed irragionevole) compressione della libertà medesima (del che vengono violati i precetti sanciti dagli artt. 3 e 41 Cost.);
2) la stessa Corte costituzionale nega – sentenza n. 56/2015 – il configurarsi della succitata lesione nel solo caso in cui la previsione di limiti all’iniziativa economica privata corrisponda all’utilità sociale (utilità che non deve apparire arbitraria né essere perseguita con modalità che appaiano manifestamente incongrue);
3) le norme oggetto del presente giudizio sono connotate da eccessiva gravosità: tali disposizioni, sebbene dirette a garantire la massima apertura al mercato delle commesse pubbliche, superano di gran lunga i limiti della ragionevolezza (di fatto costringendo il concessionario ad affidare la totalità delle concessioni a terzi soggetti – snaturando, quindi, l’attività imprenditoriale del concessionario stesso, ridotto al rango di mera stazione appaltante);
4) sebbene, ai sensi dell’art. 41 Cost., il legislatore possa limitare la libertà d’impresa in favore della tutela della concorrenza, tale facoltà va comunque commisurata con i limiti della ragionevolezza e della considerazione degli interessi coinvolti: non è, pertanto, consentito limitare la libertà d’impresa nei termini sopra descritti laddove all’imprenditore sia preclusa la possibilità di compiere le scelte che costituiscono l’elemento centrale dell’attività imprenditoriale medesima.
Condividendo, in definitiva, le censure sollevate dal Consiglio di Stato, la Corte costituzionale ritiene che le disposizioni censurate risultino illegittime in quanto la previsione in esse contenuta è “misura irragionevole e sproporzionata rispetto al pur legittimo fine perseguito” in quanto “lesiva della libertà di iniziativa economica”.