In attesa del “salva-Milano”: la demoricostruzione, tra giurisprudenza penale, amministrativa e ambiguità normative.

La questione della demolizione e ricostruzione, a causa della continua, imperterrita e stratificata, modifica dell’art. 3, co. 1, lett. d) TUEd continua ad “affaticare” la giurisprudenza, amministrativa e penale.

La quale, anche a valle delle recenti modifiche (“ampliative”, nell’intento del Legislatore) apportate nel 2020-2021, continuano ad incontrare talune resistenze o, comunque, letture restrittive da parte della giurisprudenza, in particolare, ma non solo, penale.

Di ciò abbiamo “plastica” evidenza con la maxi inchiesta sui “grattacieli di Milano”, in relazione alla quale il Legislatore, in sede di conversione del D.L. 69/2024 – c.d. Decreto Salva Casa – sta elaborando il c.d. “Salva Milano”.

Pomo della discordia è, come noto, fin quanto possa spingersi, in punto di trasformazione del preesistente, la ricostruzione a valle della demolizione e, di conseguenza, quale sia la soglia di discontinuità con il fabbricato demolito oltrepassata la quale l’intervento sia da qualificare non più come “ristrutturazione edilizia” ma nuova costruzione.

Vi è, poi, la questione ancillare (ma non di minore importanza) del regime abilitativo di tali interventi, ossia se essi siano assoggettati a SCIA, ex art. 22, co. 1, lett. d) (ristrutturazione edilizia c.d. leggera ex art. 3, co. 1, lett. d) ), o a permesso di costruire (art. 10, co. 1, lett. a), quali interventi di nuova costruzione, ex art. 3, co. 1, lett. e.1) o, infine, a permesso di costruire/SCIA “alternativa ex art. 10, co. 1, lett. c) – 23, co. 1, lett. a) TUEd.

Si tratta, con tutta evidenza, di un groviglio che ha ormai raggiunto dimensioni difficilmente gestibili e che richiederebbe un urgente intervento di riordino del sistema delle categorie di intervento e dei titoli edilizi.

Proviamo ad andare con ordine.

 

I. La demoricostruzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione post “Semplificazioni 2020”.

Ferma la “tradizionale” nozione generale di ristrutturazione edilizia (“gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”) rimasta immutata negli anni, il cuore dell’art. 3, co. 1, lett. d), per quanto qui ci interessa, è nel passaggio in cui si dispone che rientrano nella ristrutturazione edilizia  anche gi interventi di “demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”.

Prima delle modifiche apportate dalla L. 120/2020, di conversione del D.L. 76/2020 (Decreto Semplificazioni) la norma si limitava a disporre che “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica (…)”.

Appare evidente, per differenza, come il Legislatore del 2020 abbia voluto incidere significativamente sulla fattispecie della demoricostruzione (in ristrutturazione edilizia), giacché oggi ci si riferisce alla possibilità di pervenire ad un fabbricato con diversi sagoma, prospetti, sedime e, soprattutto, “caratteristiche planivolumetriche e tipologiche”.

Quanto alla volumetria preesistente – limite “invalicabile” nel testo precedente – la norma oggi consente incrementi volumetrici ammessi da norme di legge o di piano finalizzate al perseguimento di obiettivi di rigenerazione urbana.

 

I.1          Le “torsioni giurisprudenziali”: la Cassazione penale e la necessaria “continuità” con il fabbricato preesistente.

In un simile contesto normativo, letto in particolare nella sovrapposizione tra ante e post L. 120/2020, norma quest’ultima che mantiene nell’alveo della ristrutturazione edilizia quella ricostruzione differente quanto a (i) sagoma; (ii) prospetti; (iii) sedime e (iv) caratteristiche planovolumetriche e tipologiche (degli incrementi di volumetria e della destinazione d’uso parleremo in seguito), appare difficilmente comprensibile (se non con riferimento a casi assolutamente limite, sui quali torneremo brevemente) l’affermazione, radicatasi nella giurisprudenza della Cassazione penale, secondo cui l’interpretazione della lett. d) dell’art. 3 TUEd continuerebbe ad implicare che la necessaria conservazione della “traccia” dei fabbricati preesistenti, “dovendo l’immobile oggetto di ristrutturazione presentare caratteristiche funzionali o identitarie coincidenti con quelle del corpo di fabbrica preesistente” (Sez. III, sentenza 18.1.2024, n. 18044).

Ancora: “con riguardo alla ristrutturazione non vi è spazio per nessun intervento che lasci scomparire ogni traccia del preesistente” (Sez. III, 18.1.2023, n. 91669) o, ancora, l’affermazione secondo cui la struttura ricostruita “non possa prescindere dal conservare traccia dell’immobile preesistente” (così uno dei Decreti del GIP di Milano nella nota indagine).

La sentenza 18044/2024 della Cassazione richiama peraltro taluna giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale è escluso che l’esito della ristrutturazione demoricostruttiva possa condurre ad “un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria” pena il passaggio alla categoria della nuova costruzione (Sez. VI, 21.6.2023, n. 6092): ma non può omettersi di considerare che tale decisione del Giudice Amministrativo (come le altre decisioni impropriamente richiamate dalla Cassazione, peraltro) è relativa ad una fattispecie ante L. 120/2020.

In senso opposto all’orientamento penalistico sopra riportato ha così avuto modo – secondo noi condivisibilmente – di osservare il TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 13.3.2024, n. 373, che alla luce del vigente testo dell’art. 3, co. 1, TUEd che gli interventi di demolizione e successiva ricostruzione non richiedono necessariamente “… una certa continuità con l’edificio pregresso”, come invece sostenuto dall’Amministrazione resistente”.

 

I.2          Le zone grigie.

Poste le considerazioni cui si è pervenuto sopra circa la correttezza di quella che si definita come la “tesi penalistica”, occorre esaminare quei parametri (diversi, ribadiamo, da una ferrea quanto ingiustificata regola di “continuità” tra demolito e ricostruito)  rispetto ai quali il confine tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione è senz’altro meno marcato.

Ci riferiamo, in particolare, a:

–             accorpamenti e frazionamenti di cubatura;

–             ampliamenti volumetrici;

–             cambio di destinazione d’uso.

 

I.2.1       “Demolizione e ricostruzioni” e “demolizioni e ricostruzione

Il riferimento, nella definizione di demoricostruzione, alla variabilità di tutti i parametri edilizi e, in particolare, alla possibilità di variare anche le “caratteristiche planivolumetriche e tipologiche” determina una possibile incertezza interpretativa in ordine alla possibilità di demolire un’unica cubatura originaria, con realizzazione di più corpi di fabbrica o, al contrario, alla sostituzione di più corpi di fabbrica con un’unica nuova costruzione.

Le due ipotesi non sembrano, almeno non a priori, da escludere: infatti, stando al significato proprio delle parole oggi adoperate nella norma di legge tra le caratteristiche planivolumetriche ben possiamo ricomprendere anche le due ipotesi di “frazionamento” e “accorpamento” di cubature preesistenti (e ciò anche combinandovi i parametri del sedime e delle caratteristiche tipologiche).

La redistribuzione della cubatura sul lotto non sembra quindi in assoluto determinare uno sconfinamento dalla categoria di intervento della ristrutturazione edilizia, ferma restando, in tali ipotesi la necessità di verificare la disciplina relativa alle distanze, anche avuto riguardo all’art. 2-bis, co. 1-ter del medesimo D.P.R. 380/2001 (tema sul quale, in questa sede, non ci soffermeremo).

La fattispecie in esame, tuttavia, “confina” con l’intervento di cui all’art. 3, co. 1, lett. f), D.P.R. 380/2001, ossia la “ristrutturazione urbanistica“: ossia gli interventi “volti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale“.

In linea con tale soluzione interpretativa si segnala, così, il parere 29.12.2021 del Servizio Territorio della Regione Emilia-Romagna: “ogniqualvolta sia prevista la completa demolizione di uno o più edifici esistenti nello stesso lotto, con successiva ricostruzione sul medesimo lotto o di un unico edificio (nel caso di accorpamento) o di più edifici (nel caso di frazionamento)” si rientra nella “nuova” ristrutturazione edilizia demo-ricostruttiva.

E ciò salvo il caso in cui l’intervento “sconfini” nella fattispecie della “ristrutturazione urbanistica“, ossia quando esso “comporti effetti che esulino dal campo meramente edilizio della demolizione e ricostruzione di uno o più edifici (sia pure con le innovazioni introdotte dal D.L. n. 76/2020) e, dunque, un diverso assetto del territorio dovuto, ad esempio, al frazionamento del lotto originario di intervento, alla definizione di differenti indici di edificabilità per ciascun lotto, alla realizzazione o rifacimento di dotazioni territoriali, di tratti di infrastrutture per la mobilità, di parcheggi, di reti e servizi pubblici, ecc.”, così come il caso di interventi edilizi (di frazionamento/accorpamento cubature) che determinino un “trasferimento di volumetrie da un lotto ad un altro” con conseguente ” “creazione di un diverso assetto territoriale“.

Chiaramente, invece, laddove si acceda alla tesi penalistica, non potrà che pervenirsi, sempre e comunque, ad una valutazione in radice negativa (è il caso deciso dalla già citata Cass. n. 18044/2024).

Da segnalare, inoltre, la lettura restrittiva fornita da TAR Puglia, Bari, Sez. III, 10.3.2023, n. 479, secondo cui “richiamando l’art. 3, comma 1, lett. d) del d.p.r. n. 380/2001, non può non evidenziarsi (…) che la disposizione precisa, letteralmente, che siano “interventi di ristrutturazione edilizia” “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”. Per cui è evidente che, secondo la chiara ratio legis e anche la formulazione letterale della previsione normativa, si stia individuando come possibile oggetto di intervento ammissibile di “ristrutturazione edilizia” un unico organismo edilizio di progetto, riveniente da uno o – al massimo – da più organismi esistenti, ma mai il contrario. All’opposto, nel caso oggi in esame – ove l’intervento proposto dalla ricorrente fosse assentito – si verificherebbe l’esatto contrario di quanto normativamente previsto. D’altronde la possibilità di trasformare un solo organismo edilizio in una pluralità di organismi edilizi (…) determinerebbe una inammissibile trasformazione di rango “urbanistico” più che “edilizio”, tale da sfociare nella definizione di “ristrutturazione urbanistica” come stabilita dall’art. 3, comma 1, lett. f) del d.p.r. n. 380/2001 (“quelli rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico – edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale”)”.

 

I.2.2      Gli incrementi volumetrici.

Nel testo anteriore alla L. 120/2020 l’ampliamento volumetrico, pacificamente, non rientrava nel perimetro della ristrutturazione edilizia tramite demoricostruzione.

Esso era contemplato – così come lo è ancora – da un lato nella ipotesi della nuova costruzione ex art. 3, co. 1, lett. e.1) (ampliamento di fabbricati esistenti) e, dall’altro, nella ristrutturazione edilizia c.d. pesante, ex art. 10, co. 1, lett. c).

Al riguardo giova subito osservare come la Tabella A – d.lgs. 222/2016 – chiarisca (punto 8) che nel perimetro di quest’ultima categoria rientrano solo gli interventi che “non prevedono la completa demolizione dell’edificio esistente”.

Come noto, la L. 120/2020 ha previsto per gli interventi demoricostruttivi ex art. 3, co. 1, lett. d) TUEd la possibilità di  “incrementi di volumetria”, ma ciò “nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”.

Al netto della equivoca formulazione letterale della norma, l’interpretazione consolidatasi (aderente alla ratio della disposizione) è quella per cui le norme– legislative o pianificatorie – che ammettono tali incrementi volumetrici  devono essere necessariamente riferite (o riferibili) ad interventi di “rigenerazione urbana”.

Dunque, in disparte la questione definitoria di quali siano gli interventi di rigenerazione urbana (talune normative regionali facilitano il compito, in altri casi l’indagine sulla finalità delle norme che ammettono incrementi può essere più problematica), ciò che è chiaro è che “la deroga non è estesa a qualsiasi disposizione che consenta incrementi volumetrici (p.es. in funzione premiale o incentivante), ma vale soltanto per le ipotesi in cui questi siano strumentali a obiettivi di rigenerazione urbana (…)” (così la Circolare MIT – Ministero P.A. del dicembre 2020).

Lo ha ricordato, bene, la recente sentenza Consiglio di Stato, Sez. IV, 2.5.2024, n. 4005, laddove si evidenzia che ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. d), TUEd, “l’incremento volumetrico eccezionalmente (…) conseguibile con un intervento di ristrutturazione edilizia è soltanto quello specificamente ammesso una tantum dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali per tale tipo di intervento e non quello (eventualmente) maggiore connesso all’indice edificatorio previsto per gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica” (in termini analoghi: Cons. Stato, Sez. VI, 12.4.2024, n. 3357; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 29.4.2024, n. 2107; TAR Veneto, Sez. II, 7.5.2024, n. 915).

Torneremo su tale decisione in seguito, per evidenziarne, invece, alcuni passaggi, a nostro avviso, non condivisibili.

 

I.2.3      I cambi di destinazione d’uso.

Altra zona apparentemente grigia – anzi: con seri potenziali profili di contraddittorietà rispetto alla finalità perseguita dall’art. 3, co. 1, lett. d) TUEd post L. 120/2020 – attiene al fatto che nell’ambito dei parametri modificabili in seno ad una demoricostruzione qualificabile come ristrutturazione (li ricordiamo: “sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche”, oltre alla “volumetria”, nei casi speciali di cui si è detto poc’anzi) non vi è un esplicito riferimento alla destinazione d’uso.

In effetti, i parametri modificabili in tale speciale tipologia di ristrutturazione (e che, ad onta di quanto afferma la Cassazione, possono condurre ad un fabbricato del tutto discontinuo rispetto al precedente) abbiamo “solo” quelli “fisici” in senso stretto senza alcun riferimento al dato “funzionale” (ossia, la destinazione d’uso).

Lo evidenziò subito la già citata Circolare interministeriale laddove evidenziò che “il riferimento alle “caratteristiche tipologiche” dell’edificio preesistente va letto in stretta correlazione col richiamo agli “elementi tipologici” contenuto nella definizione di restauro e risanamento conservativo di cui alla lettera c) del medesimo articolo 3 (che in parte qua riproduce la nozione introdotta dall’art. 31, comma 1, lettera c), della legge 5 agosto 1978, n. 457). Pertanto, si tratta di una nozione da non sovrapporre a quella di destinazione d’uso dell’edificio – la quale è stabilita dal titolo abilitativo sulla base delle norme urbanistiche di riferimento – e che ha un contenuto al tempo stesso architettonico e funzionale, individuando quei caratteri essenziali dell’edificio che ne consentono la qualificazione in base alla tipologia edilizia (p.es. costruzione rurale, capannone industriale, edificio scolastico, edificio residenziale etc.)

L’assenza di un espresso riferimento alla possibilità, in seno ad un intervento demoricostruttivo, di mutare anche la destinazione d’uso senza che ciò determini un automatico passaggio alla categoria della nuova costruzione appare, tuttavia, superabile per via interpretativa, alla luce di diversi elementi.

E ciò a partire, in primis, da un rilievo fondamentale: se la ratio della nozione di demoricostruzione “innovativa” (ossia: sostituzione edilizia) è quella di consentire (come anche da espresso riferimento in sede di disciplina degli eventuali incrementi volumetrici) interventi di rigenerazione e riqualificazione edilizia, sarebbe assai contraddittorio che una ristrutturazione nella quale è ammesso modificare sagoma, prospetti,  sedime, caratteristiche planovolumetriche e tipologiche nonché un incremento di cubatura non possa contestualmente – senza che ciò determini una modifica della categoria di intervento – determinare anche un cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.

Basti pensare che oggetto “tipico” degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente che il legislatore ha inteso semplificare, tramite una nozione così ampia di ristrutturazione demoricostruttiva, sono proprio edifici produttivi, industriali ed artigianali da riconvertire ad altre funzioni (il che implica, gioco-forza un cambio d’uso urbanisticamente rilevante).

Posta tale premessa di fondo, si osserva che anche la ricognizione di alcuni indici normativi presenti in talune disposizioni del TUEd milita nel senso di “non escludere” che un intervento di ristrutturazione tramite demoricostruzione “innovativa” possa contestualmente “contenere” anche un cambio d’uso urbanisticamente rilevante.

D’altronde, occorre premettere che il TUEd, non contiene alcuna previsione generale atta ad inquadrare “automaticamente” il cambio d’uso in una specifica categoria di intervento e/o titolo abilitativo, essendo, piuttosto, il tema della destinazione d’uso e del suo mutamento considerato e disciplinato dal D.P.R. 380/2001 “incidentalmente” e specificamente ai fini delle singole categorie di intervento (ci torneremo) ovvero alla individuazione, nell’art. 23-ter di alcuni principi generali (senza alcuna statuizione puntuale in ordine a “categoria di intervento” e titolo abilitativo).

Si consideri, così, che l’art. 3, co. 1, lett. b), TUEd, (anch’esso innovato dalla L. 120/2020) ammette oggi in seno ad interventi di manutenzione straordinaria opere che possono determinare un cambio d’uso urbanisticamente rilevante (purché non implicanti incremento del carico urbanistico).

O, ancora, si prenda in considerazione l’art. 10, co. 1, lett. c), del medesimo TUEd (disciplinante la ristrutturazione edilizia c.d. pesante) il quale impone il ricorso al permesso di costruire (o alla SCIA alternativa ex art. 23 TUEd) per i soli cambi d’uso urbanisticamente rilevante relativi ad immobili siti in zona A di PRG eseguiti contestualmente ad interventi di ristrutturazione edilizia pesante.

Ancora, la (spesso troppo dimenticata) tabella A del d.lgs. 222/2016 (la quale ha valore precettivo, quanto al regime amministrativo, ex art. 2 del medesimo decreto legislativo), al netto di taluni necessari (e mai avvenuti) aggiornamenti alle luce delle modifiche al TUEd intervenute dal 2016 ad oggi, offre ulteriori rilevanti indici interpretativi:

–             al p.to 7, tra gli “elementi  costitutivi della fattispecie” della ristrutturazione edilizia leggera (art. 3, co. 1, lett. d), assoggettata a SCIA semplice), viene indicato il cambio d’uso urbanisticamente rilevante, purché non in zona A;

–             al p.to 8, relativo alla ipotesi della ristrutturazione edilizia pesante  ex art. 10, co. 1, lett. c), si fa riferimento – in linea con quanto poc’anzi osservato – alla fattispecie del cambio d’uso urbanisticamente rilevante in zona A.

Il quadro che precede, d’altronde, necessita, caso per caso, di essere integrato con la legislazione regionale (oltre che con le “prassi interpretative locali”) in punto di “regime abilitativo” (profilo che, comunque, non incide direttamente sulla qualificazione intrinseca dell’intervento quale ristrutturazione o nuova costruzione).

Ed infatti, molte legislazioni regionali – esercitando la delega contenuta nell’art. 23-ter TUEd (che demanda alla normazione regionale la specifica disciplina dei cambi d’uso) – collegano il regime abilitativo occorrente per il cambio d’uso con opere al titolo necessario per l’esecuzione di dette opere.

A titolo esemplificativo (e rimandando al completo quadro sinottico sul punto elaborato dall’ANCE), si segnalano:

– L.R. Lazio n. 36/1987, art. 7, co. 3 (secondo cui “I titoli abilitativi necessari per effettuare il mutamento della destinazione d’uso sono quelli connessi alle tipologie di intervento che li consentono, secondo quanto disposto dal d.p.r. 380/2001);

–  L.R. Lombardia n. 12/2005,  artt. 51 e 52;

– L.R. Umbria n. 1/2015, art. 155, co. 7;

– L.R. Veneto n. 11/2004, art. 42-bis, co. 3.

In conclusione, dunque, pare potersi escludere che a priori il cambio d’uso, ove connesso alle opere di ristrutturazione tramite demoricostruzione “innovativa” ex art. 3, co. 1, lett. d) TUEd determini “automaticamente” lo slittamento dell’intervento dall’alveo della ristrutturazione edilizia a quello della nuova costruzione, ovvero nell’alveo del titolo abilitativo permesso di costruire.

 

II. Il titolo abilitativo edilizio: la sovrapposizione tra l’art. 3, co. 1, lett. d) e l’art. 10, co. 1, lett. c) TUEd. E le indicazioni contraddittorie di Cons. Stato, Sez. IV, 2.5.2024, n. 4005.

Arriviamo, così, alla questione del regime abilitativo degli interventi di ristrutturazione tramite demoricostruzione.

Al riguardo occorre muovere dall’art. 22, co. 1, lett. c) TUEd, a mente del quale sono soggetti a SCIA “gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), diversi da quelli indicati nell’articolo 10, comma 1, lettera c)”.

Proviamo, dunque, a “sovrapporre”, in ordine alle ipotesi di demoricostruzione, l’art. 3, co. 1, lett. d) e l’art. 10, co. 1, lett. c).

La prima disposizione qualifica come ristrutturazione edilizia leggera gli interventi di demolizione e ricostruzione quelli comportanti la realizzazione di un fabbricato diverso quanto a sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche, oltre che con incremento di cubatura nei casi di rigenerazione urbana (ove previsti dalla Legge o da PRG).

L’ultimo periodo della disposizione – a fronte di una gestazione assai problematica conclusasi con le leggi 34 e 91 del 2022 – esclude dal novero della ristrutturazione edilizia demoricostruttiva, ove non fedelissima (ossia con variazione di uno o più dei parametri edilizi sopra ricordati), gli interventi in parola se realizzati su immobili sottoposti a vincoli (salvo i vincoli “areali” ex art. 136, co. 1, lett. c) e d) e 142 del d.lgs. 42/2004) e sugli immobili ricadenti in zona A, salvo diversa previsione legislativa o di piano urbanistico.

L’art. 10, co. 1, lett. c), a sua volta, quale unica ipotesi (espressamente) prevista di demolizione e ricostruzione ricadente in ristrutturazione edilizia pesante (e, quindi, assoggettata a permesso di costruire ovvero SCIA alternativa ex art. 23 TUEd) menziona il caso della demoricostruzione non fedele di immobili ricadenti nei vincoli “areali” ex artt. 136, co. 1, lett. c) e d) e 142 del d.lgs. 42/2004.

Alla luce di tale previsione, può ritenersi che, al di là di questa speciale ipotesi, gli interventi di integrale demolizione e ricostruzione esulino dal perimetro della ristrutturazione edilizia pesante: in tal senso milita, ancorché mai aggiornato alle modifiche intervenute dal 2020 in poi, anche il p.to 8 della Tabella A d.lgs. 222/2016, laddove si individuava quale elemento della fattispecie ristrutturazione edilizia pesante la necessità che gli interventi “non prevedano la completa demolizione e ricostruzione dell’edificio preesistente”  (ipotizzandone un aggiornamento all’attualità, tale indicazione andrebbe integrata con “salvo il caso di interventi di demolizione e ricostruzione su fabbricati soggetti ai vincoli ex artt. 136, co. 1, lett. c) e d) e 142 del d.lgs. 42/2004”.).

Da questo “incrocio” sembra potersi concludere – sia pur in un contesto normativo che non brilla per chiarezza – che la demoricostruzione innovativa:

  1. a) in via ordinaria, costituisce ristrutturazione edilizia leggera ed è assoggettata alla SCIA “semplice” ex artt. 3, co. 1, lett. d) e 22 TUEd;
  2. b) in caso incida su immobili soggetti a vincoli areali (art. 136, co. 1, lett. c) e d) e 142 del d.lgs. 42/2004) costituisce ristrutturazione edilizia pesante, ed è assoggettata a permesso di costruire ovvero SCIA alternativa, ex artt. 10, co. 1, lett. c) e 23, co. 01, lett. a) TUEd (come constatato anche da Cons. Stato, Sez. IV, 2.4.2024, n. 3022)

Residuano le ipotesi di demoricostruzione innovativa in caso di vincoli paesaggistici (e “beni culturali”) puntuali, da qualificarsi come nuova costruzione, e in caso di interventi in zona A, parimenti da qualificarsi come nuova costruzione, salvo diversa previsione legislativa (pensiamo alle varie normative regionali sulla rigenerazione urbana e simili) o urbanistica (ad esempio i PRG che ammettano in zona A interventi di demoricostruzione “infedele”).

II.1         In tale quadro (che si ritiene di aver ricostruito in modo abbastanza lineare e fedele al testo normativo nazionale) si inserisce la recente decisione Cons. Stato n. 4005/2024, sentenza prima già segnalata in punto di (corretta) precisazione circa il fatto che l’incremento volumetrico in caso di ristrutturazione edilizia tramite demoricostruzione è ammesso solo nel caso, speciale, di “rigenerazione urbana” (art. 3, co. 1, lett. d) TUEd).

In tale decisione, al di là della specifica fattispecie decisa (caratterizzata anche da notevoli peculiarità dal punto di vista della disciplina urbanistica di riferimento) il Consiglio di Stato afferma che “in caso di modifiche complessove della volumetria degli edifici si ricade nel regime degli interventi subordinati a permesso di costruire ex art. 10, co. 1, lett. c), TUEd (ergo: anche SCIA alternativa).

E la sentenza precisa altresì che “anche quando l’incremento di volumetria preesistente è espressamente consentito” per le finalità di rigenerazione urbana nell’ambito di una demoricostruzione “si versa in una fattispecie che esorbita dalle opere di mero recupero, tanto è vero che l’art. 10, comma 1, TUE,  annovera gli interventi di ristrutturazione edilizia novera gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino a un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria complessiva degli edifici, tra quelli di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, prevedendosi l’assoggettamento di tale fattispecie al regime del permesso di costruire e non a quello della segnalazione certificata di inizio attività”.

Tale conclusione, e soprattutto il principio generale che pare affermare il Consiglio di Stato, risulta, alla luce della ricostruzione che precede, non condivisibile.

Infatti, l’attuale assetto normativo sembra deporre nel senso che l’intervento di demoricostruzione trasformativa, anche con ampliamento volumetrico ove connesso a norme di rigenerazione urbana, ricada nel perimetro dell’art. 10, co. 1, lett. c) TUEd (con conseguente assoggettamento a permesso o SCIA alternativa) solo nel caso di interventi su immobili vincolati ex art. 136, co. 1, lett. c) e d) e 142 del d.lgs. 42/2004.

Diversamente, in presenza di una integrale demolizione e ricostruzione (non in zona A, ipotesi che richiede, come visto, ulteriori valutazioni di carattere normativo e urbanistico) la fattispecie non potrà che essere ricondotta nell’alveo della ristrutturazione edilizia leggera ex art. 3, co. 1, lett. d) TUEd, assoggettata al regime della SCIA ex art. 22.

D’altronde, occorre ricordare nuovamente che la Tabella A del d.lgs. 222/2016, al p.to 8, nell’individuare (in base al testo del D.P.R. 380/2001 allora vigente) gli elementi della fattispecie ristrutturazione edilizia pesante, escludeva il caso della “completa demolizione e ricostruzione”, fattispecie oggi contemplata dall’art. 10, co. 1, lett. c), come detto, solo con riferimento agli immobili vincolati.

 

III. Attendiamo il “Salva Milano”.

E’ in questo quadro, dunque, che il c.d. Salva Milano (chiamato a dirimere anche ulteriori profili) dovrà intervenire, cercando di fornire una risposta (innovativa od interpretativa?) chiara e che, soprattutto, in un senso o nell’altro, dovrà esser tale da evitare l’ulteriore proliferare di interpretazioni giurisprudenziali antitetiche.