Lottizzazione abusiva negoziale: proporzionalità e adeguatezza della confisca in caso di prescrizione del reato.
Può la confisca, intesa come misura ablatoria, costituire per il giudice l’unico strumento idoneo a ripristinare la conformità urbanistica dell'area interessata, nel caso in cui il reato di lottizzazione abusiva negoziale sia prescritto?
Per rispondere a tale spinoso quesito, sono richiesti brevi cenni sulla tipologia di reato di cui trattasi, e sulla definizione di confisca.
Ai sensi dell’art. 30, comma 1, d.P.R. 6 Giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio, cd. negoziale, quando “quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
Ci troviamo di fronte ad un reato cd. contravvenzionale, punito ai sensi dell’art. 44, comma 1 lett. c) del TU Edilizia con “l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 15.493 a 51.645 euro”; la sentenza definitiva che ne accerta la responsabilità penale, è foriera di conseguenze gravose per il reo, la più importante tra tutte è rappresentata dalla confisca dei terreni abusivamente lottizzati, misura di sicurezza patrimoniale disciplinata dal codice penale e che consiste di fatto nell’espropriazione a favore dello Stato dei beni che servirono o furono destinati a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.
Ritornando al quesito iniziale, la Terza Sezione Penale della Cassazione con la sentenza in commento ha vagliato il caso in cui detta contravvenzione si sia estinta per intervenuta prescrizione, ma la Corte di Appello di Messina ne ha confermato la confisca.
Secondo la difesa dei ricorrenti, la sentenza non avrebbe verificato il necessario requisito di proporzionalità della misura ablatoria rispetto all’illecito contestato, così da annullarne la decisione.
Recenti e di notevole rilievo giuridico sono i precedenti giurisprudenziali in materia di confisca in materia di lottizzazione abusiva, sia a livello europeo alla luce della sentenza G.I.E.M. e altri c/Italia, emessa dalla Grande Camera della Corte EDU il 28/06/2018, sia a livello nazionale, con la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, detta “Perroni”, la n. 13539 del 30/01/2020, che ne ha recepito i parametri convenzionali.
Con la pronuncia “G.I.E.M.”, la Corte Europea, ispirandosi alla tutela dei diritti della difesa sanciti dall’art. 6 della CEDU, ha stabilito che:
-anche in caso di prescrizione del reato, e quindi di sentenza di non luogo a procedere, i giudici di merito “constatino che sussistono tutti gli elementi - oggettivi e soggettivi - del reato di lottizzazione abusiva”;
-è necessario valutare la proporzionalità della confisca, considerando i seguenti elementi: “la possibilità di adottare misure meno restrittive, quali la demolizione di opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l'annullamento del progetto di lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione”.
Alla luce di quanto dedotto, la stessa Corte ha concluso con l’illegittimità dell’applicazione automatica della confisca in caso di lottizzazione abusiva “in quanto non consente al giudice di valutare quali siano gli strumenti più adatti alle circostanze specifiche del caso di specie e, più in generale, di bilanciare lo scopo legittimo soggiacente e i diritti degli interessati colpiti dalla sanzione".
Applicando i principi richiamati al caso di specie, secondo l’assunto della Terza Sezione Penale della Cassazione, il Giudice di seconde cure non ha considerato che “la lottizzazione accertata a carico dei ricorrenti - in ogni profilo oggettivo e soggettivo e nel pieno rispetto delle garanzie difensive - ha carattere esclusivamente negoziale, atteso che la trasformazione urbanistica dei terreni era avvenuta attraverso il frazionamento degli stessi, la vendita dei suoli od atti a questa equivalenti; il tutto, senza l'esecuzione di opere”.
Già nel caso di lottizzazione mista, caratterizzata sia dal frazionamento che dall’edificazione abusiva, fu sancito da consolidato orientamento giurisprudenziale che la effettiva ed integrale eliminazione di tutte le opere eseguite in attuazione dell'intento lottizzatorio rende superflua la confisca, perché misura sproporzionata secondo i parametri di valutazione indicati dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Partendo da quest’ultimo principio, il Collegio, annullando con rinvio la sentenza che aveva confermato in appello la misura della confisca, conclude che:
-“la verifica della proporzionalità ben può investire anche la fattispecie di lottizzazione solo negoziale, non apparendo la confisca - in astratto - l'unica misura applicabile per l'ipotesi in cui, comunque, un intervento ripristinatorio sia stato eseguito, ad esempio nei termini richiamati nel precedente arresto giurisprudenziale, pur in difetto di opere da demolire; intervento che, tuttavia, per giustificare una misura diversa, dovrà possedere i caratteri sopra richiamati e dovrà essere inconfutabilmente dimostrato da chi ha interesse a giovarsene”
-al giudice del merito “è richiesto un rigoroso ed effettivo accertamento in fatto che non può limitarsi ad una mera presa d'atto”.
In definitiva, il Collegio accede pacificamente alla conclusione secondo cui, in presenza di una lottizzazione abusiva solo negoziale, il giudice del merito è tenuto ad accertare se sotto il profilo del principio di proporzionalità, la confisca costituisca l'unica misura idonea a ripristinare la conformità urbanistica dell'area interessata, e se sotto il profilo del requisito della adeguatezza, possano essere eventualmente adottate altre e meno invasive misure ripristinatorie.
(Cassazione pen. Sez. III, 20/11/2020, n. 3727)
Congiunti & co.: una definizione tanto discussa
Con il DCPM del 26 Aprile 2020, il Governo nell’ottica di contrastare il diffondersi del virus Covid-19, ha ampliato il novero delle situazioni di necessità, che giustificano gli spostamenti di ogni singolo soggetto.
Difatti, all’art. 1, comma 1, lett. a) del decreto, dal 4 Maggio 2020 “sono consentiti solo gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute e si considerano necessari gli spostamenti per incontrare congiunti purché venga rispettato il divieto di assembramento e il distanziamento interpersonale di almeno un metro e vengano utilizzate protezioni delle vie respiratorie”.
Rispetto a quanto previsto dai precedenti decreti, e per la prima volta dopo circa due mesi dall’inizio dell’emergenza sanitaria, si ritiene necessario muoversi dalla propria residenza o domicilio, per andare a trovare un congiunto, pur con le dovute precauzioni riguardo l’utilizzo della mascherina e il distanziamento sociale di almeno un metro. Il che lascia presumere come il Governo cominci pian piano ad allentare le misure che hanno ristretto fortemente le libertà dell’individuo a favore della tutela preminente della salute pubblica, valorizzando quelli che sono i bisogni di tipo personale e sociale, tra cui, quello di incontrare un proprio caro.
Tuttavia, forse per una mera svista, forse per una leggerezza di tipo concettuale, di cui lo Stato non può rendersi artefice seppur inconsapevolmente, sono sorti forti dubbi sulla nozione di “congiunto”.
Chi è il congiunto per la legge italiana?
Soltanto il codice penale riesce ad offrirci una definizione, sebbene ampia; in particolare, all’art. 307 codice penale, s’intendono congiunti “gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti”.
Da un’analisi attenta di quanto in elenco, sembra che il congiunto faccia parte esclusivamente della famiglia, intesa come nucleo sociale costituito da una serie di soggetti legati tra di loro da rapporti di parentela e affinità.
E proprio alla luce di tale interpretazione limitativa, la critica mossa al Legislatore nell’immediatezza dell’annuncio del decreto, muove dall’assunto, secondo il quale non si è tenuto conto dell’esistenza di aggregazioni sociali come le convivenze di fatto, ossia quelle convivenze non riconosciute giuridicamente, o semplicemente dei fidanzati.
A distanza di qualche ora dall’annuncio del decreto, al fine di porre fine alle polemiche, nella giornata del 27 Aprile 2020 Palazzo Chigi è dovuto intervenire per chiarire l’esatta interpretazione da dare al termine “congiunto”, in attesa della relativa pubblicazione nelle Faq sul sito del Governo; perciò, per congiunti si intendono "parenti e affini, coniuge, conviventi, fidanzati stabili, affetti stabili".
Una precisazione sicuramente apprezzabile e tempestiva quella offerta, ma che genera nuovi dubbi interpretativi sul concetto di “stabilità”, in particolare tra i fidanzati, e negli affetti, con conseguenti problemi di verifica da parte delle forze di Polizia, al momento del controllo di quanto dichiarato sull’autocertificazione.
Quando due fidanzati sono stabili? Gli affetti stabili possono essere considerati anche quelli tra amici?
Nella giornata di sabato 2 Maggio, è stato pubblicato il tanto atteso chiarimento nelle Faq sul sito del Governo, ma i dubbi permangono.
Si legge che “deve ritenersi che i “congiunti” cui fa riferimento il DPCM ricomprendano: i coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto grado (come, per esempio, i figli dei cugini tra loro) e gli affini fino al quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge)”.
In pratica, ad eccezione delle specificazioni riguardanti i parenti e gli affini, chi volesse comprendere quando un legame affettivo sia stabile, lo dovrà ricavare dalla giurisprudenza in tema di responsabilità civile. Quindi, basterà un click su Google per ottenere una rassegna di sentenze, che il cittadino medio dovrà studiare, assumendo le vesti del giurista!
Soltanto con una circolare del Ministero dell’Interno, emanata nello stesso giorno, ci viene offerta una interpretazione più precisa di “congiunti”, secondo la quale “deve ritenersi che la definizione ricomprenda i coniugi, i rapporti di parentela, affinità e di unione civile, nonché le relazioni connotate da <<duratura e significativa comunanza di vita e di affetti>>”. In particolare, tale espressione è di origine giurisprudenziale e rinvia espressamente alla sentenza della Corte di Cassazione, sez. IV, n. 46351/2014.
Siamo nell’ambito della richiesta di risarcimento del danno morale, a causa del fatto illecito altrui, da parte di una donna, che perde il suo fidanzato in un sinistro stradale; quest’ultima sarà legittimata ad agire iure proprio contro il responsabile.
Più in dettaglio, nel corpo della motivazione, si legge che non è necessaria la convivenza tra i due fidanzati per far sorgere il diritto al risarcimento, in quanto “la convivenza non deve intendersi necessariamente come coabitazione, quanto piuttosto come "stabile legame tra due persone", connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”.
Sul piano probatorio, il soggetto legittimato dovrà dimostrare che la stabilità del rapporto è data dalla non occasionalità e dalla continuità nel tempo dello stesso, a prescindere dall'esistenza di rapporti di parentela o affinità giuridicamente rilevanti come tali, e nell’ottica del riconoscimento, a livello Costituzionale, all’art. 2, della sfera relazionale della persona.
I dubbi persistono anche per ciò che concerne la verifica dell'operatore di polizia, il quale si limiterà a raccogliere l'autocertificazione compilata dal cittadino, che dovrà indicare tra le situazioni di necessità la visita al congiunto; a tal proposito, non è obbligatoria l'indicazione del nominativo del soggetto a cui si fa visita, né dell'eventuale residenza o domicilio, a tutela della sua privacy.
Esaurita la discussione circa il ricongiungimento legittimo tra i fidanzati nella Fase 2, rimane scoperta la questione degli amici.
L’intento del Governo, con la circolare del Ministero dell’Interno, sembra escluderli dal novero dei congiunti, ma se seguissimo l’iter logico-giuridico percorso dagli ermellini per i fidanzati, ci accorgeremmo che il rapporto di amicizia è allo stesso modo saldato nella costanza e nel tempo, e alla luce del dettato costituzionale, funzionale allo sviluppo della personalità di ognuno di noi, e nella sfera pubblica e in quella privata.
E quindi, perché non ricomprendere espressamente anche gli amici tra i congiunti?
Il Legislatore, probabilmente, ha soltanto nemici.
L'"autocertificazione" ai tempi del Coronavirus. Le novità del D.L. 19/2020
Nel periodo di emergenza sanitaria che stiamo vivendo, uno dei termini che ricorre più di frequente è senz'altro quello di "autocertificazione".
Per definizione, quest'ultima consiste in una dichiarazione sottoscritta dal cittadino, che può essere prodotta in sostituzione delle normali certificazioni ordinariamente di competenza della pubblica amministrazione, per attestare fatti, stati o qualità che la P.A. deve già conoscere e può agevolmente verificare.
L'autocertificazione è disciplinata dagli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445/2000, e rientra nel novero dei documenti di tipo amministrativo.
Proprio per la natura pubblica che questo documento riveste, vi possono essere conseguenze che si riverberano sul piano del diritto penale; difatti, in via generale, allorquando colui che produce le suddette dichiarazioni sostitutive dichiari il falso, sarà considerato responsabile penalmente.
Fatta questa dovuta premessa, veniamo ai giorni nostri.
Sappiamo che quando usciamo di casa e presumibilmente, fino a quando sarà disposta dal Governo la cessazione dell'emergenza, abbiamo il dovere di attestare sotto la nostra responsabilità, sul modello appositamente predisposto dal Ministero dell'Interno :
a) le nostre generalità, consapevoli che in caso di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale, incorriamo nella fattispecie criminosa di cui all'art. 495 c.p. (Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri);
b) di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio e delle limitazioni riguardanti lo spostamento delle persone fisiche all'interno del territorio nazionale, di non essere sottoposto alla misura della quarantena e di non essere risultato positivo al Covid-19, di essere a conoscenza delle sanzioni penali in caso di inottemperanza delle predette misure di contenimento.
c) che lo spostamento è determinato da :
- comprovate esigenze lavorative;
- situazioni di necessità, come recarsi a fare la spesa o in farmacia;
- motivi di salute.
Analizziamo più dettagliatamente le conseguenze penali scaturenti dalle mancate o false dichiarazioni sottoscritte in sede di autocertificazione.
Sul punto a), l'applicazione dell'art. 495 del codice penale è chiara e calzante; il primo comma recita: " Chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l'identità, lo stato o altre qualità della propria o dell'atrui persona, è punito con la reclusione da uno a sei anni".
Sul punto b), in una prima fase (sino al 25.3.2020), si è previsto che, ai sensi dell'art. 3, comma 4 del D.L. n. 6/2020, e dell'art. 4, comma 2 del DCPM 8.3.2020, il mancato rispetto delle prescrizioni in tema di quarantena, di circolazione in caso di positività a Covid-19, e di spostamenti ingiustificati o comunque non rientranti nei motivi elencati al punto c), vieine punito a norma della contravvenzione disciplinata all'art. 650 c.p., la cui applicazione comporta l'arresto fino a tre mesi o l'ammenda fino a 206 euro, salvo il fatto non costituisca più grave reato.
In altre parole, salvo che vengano ravvisati reati più gravi, come il delitto di epidemia (438 c.p.) e i delitti colposi contro la salute pubblica (452 c.p.), i quali puniscono rispettivamente a titolo di dolo e colpa chi attenta alla salute pubblica, cagionando un'epidemia, come il delitto di morte o lesioni come conseguenze di altro delitto (586 c.p.) e di lesioni colpose (590 c.p.), il soggetto contravventore diventa imputato in un processo penale, al quale, nei casi in cui si rendeva protagonista delle suddette violazioni con il proprio veicolo, veniva notificato il relativo fermo amministrativo.
Con il Decreto Legge n. 19 del 25.3.2020 entrato in vigore il giorno successivo, data la mole di denunce occorse e pervenute alle Procure competenti territorialmente, e alla luce del dibattito in corso circa la concreta applicazione della contravvenzione, il Governo ha varato una vera e propria depenalizzazione, trasformando la sanzione penale del 650 c.p., in sanzione amministrativa.
Secondo il disposto di cui all'art. 4, comma 1, del suddetto D.L., "Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all'articolo 3, comma 3".
In altri termini, il D.L. 19/2020:
- ha comportato la depenalizzazione delle sanzioni penali di cui all'art. 650 c.p. in sanzioni amministrative;
- ha fatto salva la clausola in caso di sussistenza di fattispecie criminose più gravi, così come elencate sopra;
- in luogo del fermo amministratio, ha optato per un aumento della sanzione amministrativa di un terzo rispetto a quella già comminata;
- ha previsto un trattamento sanzionatorio diverso per chi si allontana dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus.
In particolare, quest'ultimo divieto, previsto dal decreto legge in esame all'art. 1,comma 2, lett. e), nell'ambito delle misure adottabili dalle singole Regioni, nell'ottica di rafforzare le misure di contenimento del contagio in base ad una discrezionale valutazione di una più aggravata emergenza sanitaria, continua a essere punito sul piano del diritto penale, con una contravvenzione, già prevista dall'articolo 260 del regio n. 1265/1934, Testo unico delle leggi sanitarie, salvo che il fatto non costituisca più grave reato.
Difatti, ai sensi dell'art. 4, commi 6 e 7, del D.L. n. 19/2020 chi non ottempera a tale divieto viene punito "con l'arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l'ammenda da euro 500 ad euro 5.000".
Ma non è tutto. Il Governo fa un ulteriore passaggio, disponendo che la depenalizzazione in questione, vale anche per le violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà. Si tratta di una retroattività giunta ad alleviare il peso procurato dalle numerose denunce che stavano investendo in questi giorni le Procure, le quali provvederanno, sin da subito, ad emettere altrettanti provvedimenti di archiviazione, perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Così operando, il Governo si prefigge l'obiettivo di contenere il contagio con una serie di prescrizioni, la cui violazione fa insorgere in capo al cittadino una serie di sanzioni, sia amministrative che penali; e all'occorrenza, come occorso con la trasformazione delle sanzioni penali in quelle amministrative, tenta un più efficace bilanciamento tra il diritto alla salute pubblica, sicuramente prevalente in questa fase storica, e la libertà personale di ogni singolo soggetto, oltremodo ristretta.