licenza di somministrazione

Licenza di somministrazione e sospensione delle attività per un anno: quando si applica la sanzione?

Licenza di somministrazione e sospensione delle attività per un anno: quando si applica la sanzione?

Il Consiglio di Stato è recentemente intervenuto per riformare una sentenza del TAR Lazio e dichiarare illegittimo il provvedimento di decadenza dell’autorizzazione alla somministrazione di alimenti e bevande assunto nei confronti di un imprenditore, proprietario di un’attività di ristorazione, a fronte della sospensione della sua attività per un periodo superiore a dodici mesi.

Un’ approfondita disamina della vicenda ci permetterà di comprendere la questione giuridica e come i giudici di Palazzo Spada abbiano ribaltato la sentenza di primo grado.

  1. La vicenda

L’appellante è il proprietario di un ristorante che, a seguito di un incendio scoppiato nel proprio locale il 7 dicembre 2018, aveva chiuso il proprio esercizio: il personale dei Vigili del Fuoco intervenuto aveva infatti disposto l’interdizione per inagibilità dei locali in cui si svolgeva l’attività di somministrazione sino al 13 luglio 2020. Roma Capitale adottava il 17 marzo 2021 il provvedimento di chiusura per inattività protrattasi per oltre un anno. Nonostante il ricorrente avesse formulato istanza di annullamento in autotutela, questa era stata negativamente riscontrata da parte di Roma Capitale.

Il proprietario dell’attività decide quindi di proporre ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale, avanzando tre diverse censure che avevano ad oggetto sia le ragioni di forza maggiore che avevano determinato la chiusura del locale, sia il mancato rispetto, da parte dell’amministrazione, dei principi di leale collaborazione, buona fede e proporzionalità in quanto l’art. 64, co. 8 del d.lgs. 59/2010 si riferisce solo ad ipotesi di chiusura dell’esercizio volontaria, per ragioni di tutela del mercato.  Con la sentenza di primo grado, i giudici del TAR Lazio respingevano il ricorso sul presupposto che alla data di dicembre 2019 il ricorrente non avesse dato luogo ai lavori di ripristino dei locali, non avendo – tra le altre cose – allegato nessuna motivazione valida a giustificare il motivo per cui i lavori non fossero iniziati immediatamente o dopo breve tempo dall’incendio. I motivi di impugnazione sono stati congiuntamente esaminati, basandosi su un solo presupposto: il verbale con cui veniva interdetto l’accesso ai locale non fissava un dies ad quem per l’interdizione, tale per cui il “termine annuale” poteva non essere superato.

L’imprenditore decide quindi di proporre ricorso avverso la sentenza, adducendo diversi motivi di gravame sostenendo che: i) il TAR avesse del tutto travisato la produzione documentale allegata, la quale dimostrava che pochi giorni dopo l’incendio, l’appellante presentava al Municipio la relazione di “messa in sicurezza” del locale, richiedendo delle precise tempistiche per la “puntellazione del solaio soprastante ammalorato dalle fiamme”; ii) nel secondo si dimostrava che i lavori di ristrutturazione erano iniziati prima del 19.12.2019, come attestato dai numerosi documenti allegati; iii) Roma Capitale aveva effettuato una serie di sopralluoghi in cui dimostrava che il locale fosse “interessato di lavori”.

  1. La decisione del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso. I giudici, infatti,  hanno asserito che: “risulta invero dagli atti l’attivazione della ricorrente per la messa in sicurezza dell’unità immobiliare, così come il fatto che i lavori sono iniziati ben prima della data supposta nella sentenza impugnata (13 dicembre 2019)” e chela stessa amministrazione capitolina – per il tramite del Corpo della Polizia Municipale – aveva rappresentato che successivamente all’incendio, nella serie di sopralluoghi effettuati presso il locale, lo stesso era sempre risultato “chiuso e interessato dai lavori”.

La disposizione che si intende violata, cioè l’art. 64, co. 8 del d.lgs. n. 59/2010, prevede che “l’autorizzazione e il titolo abilitativo decadono […] b) qualora il titolare sospenda l’attività per un periodo superiore a dodici mesi”, secondo il Consiglio di Stato, non va interpretata in modo letterale, ma nel senso chele sospensioni volontarie e consapevoli (per tali espressioni di scelte imprenditoriali – in quanto liberamente revocabili dall’operatore – potrebbero costituire presupposto per l’applicazione de qua, la quale per sua stessa natura postula il principio dell’autoresponsabilità dell’operatore medesimo”.

Orbene, i giudici hanno quindi ribadito che la decadenza può essere comminata solo nel caso in cui la sospensione dipenda da una scelta volontaria e consapevole del titolare, non quando derivi da una causa di forza maggiore come nel caso di specie.

(Consiglio di Stato, Sez. V, 18.6.2024, n. 5454)


Somministrazione: lo svolgimento in un locale separato configura nuova apertura, non ampliamento, e necessita di una nuova SCIA.

Somministrazione: lo svolgimento in un locale separato configura nuova apertura, non ampliamento, e necessita di una nuova SCIA.

Il provvedimento con cui l’amministrazione vieta all’esercente la prosecuzione di un’attività di somministrazione di alimenti e bevande in un immobile posto nelle immediate vicinanze rispetto al locale provvisto di SCIA se ha presentato una semplice richiesta di ampliamento della superficie è legittimo. I giudici del tribunale amministrativo napoletano hanno ribadito che la SCIA di somministrazione di alimenti e bevande non può essere ampliata quando si è in presenza di due unità immobiliari tra loro indipendenti: per poterla esercitare anche nel secondo immobile è necessario un rilascio del titolo autorizzatorio ex novo. L’approfondimento del caso ci aiuterà a capire nel dettaglio (Anche il TAR Veneto si era pronunciato su un caso simile, Si v. la sez. III, 25.6.2015, n. 725).

  1. La vicenda: la richiesta di ampliamento della superficie di somministrazione della SCIA

Il ricorrente è il proprietario di una macelleria che, recentemente, aveva presentato una SCIA di somministrazione per alimenti e bevande, ampliando così il proprio tipo di attività. Dato che il locale commerciale si trova in una via “stretta” e molto traffica, l’esercente decide prendere in locazione e utilizzare un locale – a poche decine di metri – per garantire ai clienti di poter sostare in tutta sicurezza.

Il ricorrente comunicava al Comune l’intervenuta locazione e l’uso dell’immobile in questione, chiedendo l’ampliamento della superficie di somministrazione della SCIA. Il Comune, dopo aver riscontrato la comunicazione, l’ha considerata “irricevibile” sia perché non conforme alla modulistica predisposta dall’amministrazione comunale per l’ampliamento della superficie di somministrazione, sia perché non considerava corretto considerare il secondo locale locato come un ampliamento della superficie di somministrazione del locale originario. Il Comune, quindi, dopo aver vagliato la comunicazione, ha disposto il divieto di attività ad horas, senza altra specificazione.

Il ricorrente decide di impugnare il provvedimento del Comune. Le censure lamentate sono numerose: mancanza di comunicazione di avvio del procedimento e violazione delle garanzie di contradditorio imposte dalla legge e assoluto difetto di motivazione ed istruttoria; violazione del principio di proporzionalità ed economicità in quanto il non aver utilizzato il tipico modello predisposto dall’amministrazione non può essere motivo di rigetto della domanda; violazione delle norme che disciplinano la SCIA in quanto il ricorrente – a suo dire – aveva presentato tutta la documentazione e  violazione delle disposizioni comunitarie in materia di concorrenza e libera circolazione delle merci in quanto si stava limitando l’esercizio di somministrazione.

  1. La sentenza del TAR

Il TAR ha ritenuto il ricorso infondato. Partendo dalla presunta violazione del principio di proporzionalità ed economicità con riferimento al modello dell’istanza presentata: la modulistica utilizzata dal ricorrente non era conforme a quella unificata e standardizzata “ai sensi dell’art. 2, co. 1 del D.Lgvo n. 126 del 2016 e in vigore del 30.6.2017 in seguito alla Conferenza Unificata Governo, Regioni ed Enti Locali del 2017”.

A prescindere da questo, il TAR condivide l’orientamento pacifico secondo cui: “E’ legittimo il provvedimento con cui il Comune ha vietato la prosecuzione di un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, perché l’esercente svolgeva l’attività, oltre che nel locale originariamente autorizzato, anche in un altro immobile posto nelle immediate vicinanze, diviso dal primo da una pubblica via. Tale divisione fa si che i due esercizi siano ubicati in unità immobiliari tra loro indipendenti, con la conseguenza che non si è in presenza di un ampliamento della superficie di somministrazione dell’originario locale e che, al contempo, anche per il secondo immobile occorre il preventivo rilascio del titolo autorizzatorio” Orbene, come specificato dal TAR, il provvedimento con cui è stato imposto il divieto dell’attività di somministrazione si riferiva al secondo immobile e non all’attività nel suo complesso, motivo per cui si esclude ogni violazione del principio di proporzionalità.

Altresì, ai sensi dell’art. 21 octies della l.n. 241/1990, nonostante vi sia stata una violazione della norma sul procedimento – dato che non vi era stato alcun preavviso di rigetto del provvedimento gravato ex art. 10 bis della legge summenzionata – questo non può comportare mai un annullamento del provvedimento quando: “sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato in concreto” o anche, comunque, quando l’amministrazione “dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, come nel caso concreto.

Alla luce di ciò, il Tribunale ha respinto il ricorso.

T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 6.12.2023, n.  6755


bonus edilizi

Il risarcimento per l’inadempimento delle imprese appaltatrici al tempo dei Bonus Edilizi

Il risarcimento per l’inadempimento delle imprese appaltatrici al tempo dei Bonus Edilizi

Non è facile tenere il passo sui numerosi bonus edilizi che si sono susseguiti in questi ultimi anni: bonus facciate, superbonus, ecobonus, bonus mobili e la lista potrebbe continuare. Il principio alla base di questi incentivi fiscali è stato ed è quello di garantire la riqualificazione residenziale e, in generale, immobiliare del nostro paese, al fine di ottenere case più efficienti, autonome e sicure anche dal punto di vista del rischio sismico (un obiettivo non solo del nostro paese, ma anche europeo, basti pensare alla futura e prossima approvazione della direttiva Case Green).

In un contesto normativo assai complesso e farraginoso (se non proprio confuso e contraddittorio) che ha visto il legislatore modificare repentinamente le regole, il meccanismo di cessione del credito o sconto in fattura attraverso cui si garantiva il finanziamento di questi bonus non si è dimostrato immune da problematiche e abusi che hanno rallentato, se non proprio paralizzato, l’accesso al credito e alla liquidità necessaria per eseguire materialmente il lavoro.

A ciò si è aggiunto il rincaro dei prezzi e dei materiali, oltre a difficoltà nel reperimento degli stessi.

Fatta questa premessa, è chiaro che moltissime aziende hanno riscontrato grandissime difficoltà a concludere i lavori.

L’approfondimento di oggi vuole porre il proprio focus su questo aspetto: cosa succede se scade il termine per completare i lavori ma l’azienda non li conclude? Chi risarcirà il committente dei danni? A riguardo sono intervenute due recentissime sentenze del Tribunale di Roma e del Tribunale di Frosinone che forniscono alcuni  interessanti spunti di ragionamento.

  1. Tribunale di Roma, sentenza n. 21607 del 13.2.2023

Nel primo caso, un Condominio ha convenuto in giudizio l’impresa appaltatrice perché, previa cessione dei crediti fiscali in attuazione della normativa del bonus facciate, essa era stata incaricata di svolgere i lavori di ristrutturazione della facciata dell’immobile. Dato l’inadempimento dell’impresa appaltatrice, il condominio si rivolgeva al Tribunale per chiedere l’immediata risoluzione del contratto per grave inadempimento e un risarcimento del danno, dato che i lavori non erano mai iniziati. Ben consapevole di tutte le difficoltà del caso, il Condominio aveva anche avanzato un prestito “ponte” per velocizzare le procedure e garantire la conclusione dei lavori e non perdere i benefici derivanti dal bonus.

L’impresa, una volta costituita in giudizio, ha contestato la risoluzione del contratto ponendo - l’accento sull’impossibilità – date le condizioni descritte anche più approfonditamente nell’introduzione –  di portare a termine i lavori nel tempo prescritto.

Il giudice, in questo caso, ha accolto la domanda del Condominio in quanto: “è fondata la domanda di risoluzione, dato che, anche ad ammettere l’esistenza di una ridotta colpevolezza per il ritardo nell’adempimento del contratto di appalto connessa alle modifiche normative, tale inerzia risulta del tutto ingiustificata, dopo la messa a disposizione da parte del condominio della provvista necessaria per iniziare l’esecuzione dei lavori.”

Sul danno, invece, il giudice non ha riconosciuto al Condominio l’intero importo (del bonus) perché quest’ultimo:

1) non aveva dimostrato di avere tutti i requisiti per poter usufruire del bonus edilizio;

2) non aveva fatto valere il suo diritto di potersi rivolgere ad un’altra ditta o di ricorrere ad un’altra agevolazione, all’epoca possibile. Il giudice, quindi, ha statuito diritto al risarcimento pari al 70% del bonus astrattamente dovuto.

  1. Tribunale di Frosinone, sentenza n. 1080 del 2.11.2023.

Nel secondo caso, invece, i proprietari di un immobile hanno convenuto in giudizio la società appaltatrice incaricata dal committente del rifacimento di una serie di lavori della propria abitazione, da eseguirsi con gli incentivi fiscali previsti dal Superbonus 110%. Nonostante i proprietari avessero versato una parte del saldo data la difficoltà della cessione del credito, i lavori non sono mai iniziati. I proprietari si rivolgevano al Tribunale per chiedere l’immediata risoluzione del contratto per grave inadempimento e un risarcimento del danno, dato che i lavori non erano mai iniziati. L’impresa non si era nemmeno costituita in giudizio, rimanendo contumace.

La domanda di risoluzione del contratto è stata accolta, avendo il Condominio attore dimostrato il grave inadempimento contrattuale. Tuttavia, il risarcimento è stato limitato al 10% dell’importo dei lavori appaltati, quale percentuale minima del beneficio fiscale andato perduto per via dell’inadempienza. Secondo il Giudice, i proprietari, avrebbero potuto rivolgere ad un’altra ditta o di ricorrere ad un’altra agevolazione, all’epoca possibile.

Quindi, come nel caso precedente, da un lato è stata riconosciuta la sussistenza del grave inadempimento e dunque la risoluzione del contratto, dall’altro è stato però attribuito un risarcimento minimo, in proporzione al concreto danno subito

  1. Conclusioni.

Il timore è che pronunce di un tale portata possano essere le prime di una lunga serie, dato il numero di contenziosi in corso e che verranno avviati.

Tali pronunce ci insegano quanto sia importante, per il committente, provare la gravità dell’inadempimento, ma soprattutto quanto sia ancor più importante e difficile provare il concreto danno subito, e la sua effettiva riconducibilità al comportamento dell’impresa.

Sebbene si tratti di  sentenze sicuramente in linea con i principi generali in materia di inadempimento in tema di contratti di appalti, la sensazione è quella per cui l’effettiva portata dell’inadempimento – e dunque le conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate – non sia stata pienamente colte dal Tribunale. In altre parole, limitare il risarcimento sul presupposto che il committente avrebbe potuto rivolgersi ad un’altra impresa o ricorrere ad altri bonus edilizi, è indicativo di un approccio che non ha colto il particolare contesto dei bonus edilizi entro il quale si è verificato tale inadempimento. E’ nota infatti la difficoltà, nell’edilizia al tempo del Superbonus, di trovare nuovi operatori disposti a subentrare ad imprese inadempienti, nonché riattivare le pratiche di accesso agli incentivi con i nuovi soggetti incaricati. E tutto ciò senza considerare i tempi limitati per l’accesso a tali incentivi e l’esposizione economica per accedere agli stessi.

Occorrerà pertanto in tutti i giudizi di questo tipo valorizzare ed evidenziare tali aspetti, al fine di evitare che i Tribunali, recependo acriticamente queste pronunce, finiscano per consolidare un principio di diritto del tutto disancorato dall’edilizia al tempo dei bonus edilizi.


Come si computa la superficie di somministrazione?

Come si computa la superficie di somministrazione?

Come si computa la superficie di somministrazione?Con una recente sentenza del TAR, i giudici romani sono stati chiamati a dirimere una questione sul computo della superficie di somministrazione di cibi e bevande.  La sentenza n. 17458 del 2023 ci offre la possibilità di porci un quesito nuovo sul tema della somministrazione di cibi e bevande: ai fini della corretta definizione di “superficie di somministrazione” concorre anche una superficie privata esterna annessa ad un esercizio pubblico, o per superficie si deve intende esclusivamente quella interna di “un locale”?

I. Fatto

La ricorrente gestisce un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, che esercita sulla base di una SCIA nella quale la superficie dell’attività di somministrazione dichiarata era pari a 26 mq. Successivamente ha dichiarato un ampliamento della superficie, arrivando complessivamente a 64mq: con questa nuova SCIA, la ricorrente ha quindi deciso  di ricomprendervi anche le aree  esterne di sua proprietà. Nella medesima data, ha presentato anche una SCIA per una OSP Covid a servizio della propria attività, parametrandone l’ampiezza al 70% della superficie complessiva dell’attività di somministrazione (così come recentemente ampliata).

Dopo circa quattro mesi, Roma Capitale comunica alla ricorrente l’avvio del procedimento di divieto di prosecuzione dell’attività di somministrazione, relativamente alla sola parte ampliata, e dinega la richiesta di concessione OSP Covid poiché, avendo formalmente avviato un procedimento di divieto di prosecuzione della parte ampliata, il computo dell’area oggetto di tale richiesta non era corretto.

Nonostante la ricorrente avesse partecipato ad entrambi i procedimento formulando le dovute osservazioni, Roma Capitale ha comunicato il mancato accoglimento delle osservazioni per entrambi i procedimenti. Il motivo era da riscontrarsi, sostanzialmente, nel fatto che non poteva considerarsi valido l’ampliamento proposto, in quanto vi era ricompreso uno spazio esterno al locale originariamente destinato ad attività di somministrazione.

La ricorrente decide, quindi, di impugnare le due determine.

II. Diritto

Le censure proposte dalla ricorrente si basavano su tre motivi:

1) Violazione delle norme sul procedimento amministrativo, dato che le SCIA presentate si erano consolidate da tempo, cristallizzandosi nei propri effetti, ex art. 19 L. 241/90;
2) Le due SCIA erano corrette “nel merito”, dato che per superficie di somministrazione può intendersi qualsiasi locale o ambito di pertinenza dell’unità principale;
3) Violazione degli artt. 10 e 10bis, dato che l’Amministrazione ha omesso di valutare le osservazioni formulate dalla ricorrente rispetto all’avvio del procedimento.

Parte delle censure mosse dalla ricorrente ipotizzano un vero e proprio parallelismo con i dehors “leggeri” su spazio pubblico, che non necessiterebbero di alcun titolo abilitativo edilizio; in tal senso, appare utile ricordare che L’espressione dehors ricomprende varie configurazioni di spazi esterni ai locali commerciali, delimitati da elementi di arredo urbano, nei quali si svolge il servizio di somministrazione di cibi e bevande; tali spazi delimitati sono dotati di coperture e protezioni laterali di tela o plastica e, dove presente, di pedane di legno appoggiate sul suolo pubblico.

I Giudici hanno ritenuto che il gravame fosse fondato, accogliendo il ricorso. Il collegio ha ritenuto infatti che una:

 corretta lettura delle norme in materia di somministrazione di alimenti e bevande non consente di escludere a priori che una superficie privata esterna possa essere qualificata quale “superficie di somministrazione.

Lo stesso art. 74, co. 1, lett. a) del T.U. regionale del Commercio (L.R. Lazio 22/2019), quando si riferisce alla somministrazione di alimenti e bevande, ribadisce in modo chiaro che: “comprende tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio e/o in una superficie aperta al pubblico intesa come adiacente, prospiciente o pertinente al locale, ivi comprese le aree pubbliche”.

Se da un lato ritengono fondate le censure, i Giudici non condividono, però, il parallelismo con i dehors:

le due fattispecie non sono comparabili: nel caso del dehors su suolo pubblico, infatti, l’esercente ottiene, in via meramente temporanea, la disponibilità di un’area già soggetta ad un regime pubblicistico di gestione e di controlli; per contro, la destinazione e l’allestimento di un’area privata ai fini di commercio necessariamente richiede il rispetto di puntuali prescrizioni, che giustifica la necessità della previa comunicazione.

III. Conclusioni

Tirando le fila dei ragionamenti spesi dal TAR, si può concludere affermando che un locale di somministrazione di cibo e bevande, allorquando debba dichiarare la superficie somministrazione, può (anzi deve) computare a tal fine anche le eventuali superfici esterne ai locali, laddove queste siano effettivamente pertinenza dei locali; il tutto, ovviamente, al netto delle prescrizioni sanitarie previste.