Co-progettazione, servizi sociali e giudice amministrativo: ancora non si parla la stessa lingua
Nell’ultimo anno, la percezione collettiva degli istituti collaborativi tra enti del Terzo settore e pubbliche amministrazioni – prima fra tutti la co-progettazione – è cambiata radicalmente, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 131/2020 che, in un lungo inciso, valorizza lo spirito collaborativo che caratterizza tali istituti, all’inserimento da parte della legge di conversione del decreto Semplificazioni (l. 11/09/2020, n. 120) di alcuni riferimenti al Titolo VII del Codice del Terzo settore nel corpo del Codice dei contratti pubblici, fino alle nuove Linee guida adottate di recente dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
Ciononostante, anche dopo l’adozione delle attesissime Linee guida, diversi aspetti della co-progettazione necessitano ancora di essere chiariti, il che in parte potrà avvenire solo tramite la prassi delle amministrazioni che applicheranno le Linee guida stesse e, magari, come spesso avviene, anche grazie all’opera interpretativa della giurisprudenza.
Finora, però, le sentenze del giudice amministrativo sulla co-progettazione sono state poco frequenti e, dunque, non stupisce che anche i tribunali amministrativi regionali debbano ancora prendere familiarità con questo istituto e, soprattutto, con i recenti sviluppi nel suo inquadramento.
In un recente caso sottoposto al TAR di Parma, veniva contestata la scelta di un’amministrazione di mettere a bando un servizio sociale con una gara d’appalto ai sensi del Codice dei contratti pubblici, anziché utilizzare gli istituti di cui all’art. 55 del Codice del Terzo settore, che si sosteneva costituissero gli unici strumenti possibili per esternalizzare la gestione di servizi sociali.
Si tratta evidentemente di una censura infondata, in quanto non vi è dubbio che il quadro normativo attuale preveda due sistemi paralleli (quello del Codice dei contratti pubblici e quello del Codice del Terzo settore), da utilizzare al ricorrere dei rispettivi presupposti e in base a una scelta discrezionale dell’amministrazione nel caso concreto.
Quello che stupisce è, tuttavia, la motivazione che impiega il TAR di Parma per motivare il rigetto della censura, che, anziché appunto richiamarsi alla discrezionalità della scelta, rinvia al controverso parere n. 2052/2018 del Consiglio di Stato e cita proprio il passaggio – estremamente criticato – in cui si affermava che “di regola” l’affidamento dei servizi sociali deve in ogni caso rispettare la normativa pro-concorrenziale di origine europea, rappresentando sempre e comunque un “appalto”.
Ferma restando la correttezza della conclusione del TAR – per cui oggi certamente non è obbligatorio l’utilizzo degli istituti collaborativi per la gestione dei servizi sociali – il rinvio al parere del 2018, senza alcuna considerazione degli sviluppi successivi (sentenza della Corte costituzionale, modifiche normative, linee guida ministeriali e anche un altro parere dello stesso Consiglio di Stato di segno parzialmente diverso), a prescindere dall’applicabilità alla vicenda oggetto del giudizio, è forse un indice della necessità di maggiore consolidamento di quella che è stata salutata come una nuova fase della vita di questi istituti.