Il danno da ritardo della P.A.: da contatto sociale qualificato a illecito extracontrattuale. Il caso (ricorrente) della ritardata conclusione del procedimento autorizzativo e il mancato accesso agli incentivi connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Si torna a parlare di danno da ritardo della P.A., più in particolare, della responsabilità di quest’ultima per il ritardo nella conclusione del procedimento originato da un’istanza autorizzativa, tra contatto sociale qualificato e illecito extracontrattuale. La questione deferita all’Adunanza Plenaria è sorta in relazione alla richiesta di condanna della Regione Sicilia al risarcimento dei danni subiti a causa del ritardo con cui l’Amministrazione regionale ha autorizzato la realizzazione e gestione di tre impianti fotovoltaici sui quattro richiesti ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 387/2003 (attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili), con istanze presentate tra il 2009 e il 2010.
In dettaglio, la domanda di risarcimento è stata avanzata in ragione del ritardo nel rilascio delle autorizzazioni – per le quali la società aveva prima agito ex art. 117 c.p.a. contro il silenzio serbato dall’Amministrazione e, quindi, in ottemperanza – che avrebbe reso l’investimento antieconomico.
Il danno, a dire della società ricorrente, deriverebbe dal sopravvenuto divieto di accesso al regime tariffario incentivante di cui all’art. 7 d.lgs. 387/2003 (abrogato nel 2011) connesso alla produzione di energia da fonti rinnovabili (solare).
Il CGARS, avendo ravvisato in materia di responsabilità della P.A. per la ritardata conclusione del procedimento amministrativo orientamenti contrastanti della giurisprudenza amministrativa, ha preferito deferire la questione al Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria.
In particolare, è stato chiesto:
- come valutare la misura del danno risarcibile in conseguenza del ritardo e se la natura della responsabilità della P.A abbia natura contrattuale o da fatto illecito;
- di stabilire se la sopravvenienza normativa interrompa il nesso causale tra l’inerzia della P.A. nel definire i procedimenti autorizzativi originati dalle istanze della società ricorrente e il danno da quest’ultima lamentato a titolo di lucro cessante (o alternativamente quale chance di guadagno), consistente nel venir meno dei margini economici realizzabili con il regime incentivante.
Sulla danno da ritardo nella conclusione del procedimento autorizzativo: natura della responsabilità della P.A.
La pronuncia è di rilievo dato che sembra mettere un punto al dibattito, che negli anni si è sviluppato in dottrina come in giurisprudenza, sulla natura della responsabilità dell’Amministrazione, per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa, configurandola come responsabilità da fatto illecito.
È vero che nel caso di specie si tratta di ritardo nella conclusione di un procedimento autorizzativo di realizzazione e gestione di impianti fotovoltaici ma i principi espressi dall’Adunanza Plenaria, come peraltro dalla stessa affermato, sono applicabili anche all’eolico, in materia di edilizia (si pensi al ritardato rilascio del titolo a costruire), alle concessioni di servizi pubblici (si pensi al caso della mancata tempestiva adozione di un provvedimento tariffario che, essendo stato adottato successivamente al momento in cui la stessa Amministrazione aveva posto a carico del gestore l’obbligo di inizio del servizio, non ha consentito al gestore del servizio di richiedere a terzi il corrispettivo stesso) e più in generale in materia di affidamento dei contratti pubblici.
Di certo configurare la responsabilità in questione come aquiliana rappresenta un punto di svolta e di rottura con quanto affermato e sostenuto nella giurisprudenza di legittimità, con conseguenze anche in relazione al termine di prescrizione applicabile.
Il riferimento è al caso dell’annullamento dell’aggiudicazione che di fatto ha reso inefficace il contratto di appalto successivamente stipulato, ove la Cassazione ha definito la responsabilità della P.A. “di tipo contrattuale da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c.” con la conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione sancito dall’art. 2946 c.c. (Cassazione civile, Sez. I, 27/10/2017, n. 25644, nota di R. Berloco in ItaliAppalti.it).
Secondo l’Adunanza Plenaria, la responsabilità da inadempimento che si fonda, ai sensi dell’art. 1218 c.c., sul non esatto adempimento della prestazione cui il debitore è obbligato in base al contratto non può essere configurata per la P.A. che agisce nell’esercizio delle sue funzioni amministrative e, quindi, nel perseguimento dell’interesse pubblico.
Nonostante l’evoluzione dei rapporti tra privato e Amministrazione, la funzione – e, di conseguenza, la responsabilità – amministrativa si connota come “prestazionale” e “di supremazia” rispetto al privato essendo tesa alla realizzazione dei fini determinati dalla legge. Tale caratterizzazione mal si concilia con le teorie sul “contatto sociale” che si fondano su una relazione paritaria.
Dunque l’emanazione di atti illegittimi come l’inerzia colpevole della P.A. possono essere fonte di responsabilità sulla base del principio generale del neminem laedere (art. 2043 c.c.).
Elemento centrale di questa fattispecie di responsabilità è l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale. Declinata nel settore relativo al “risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi”, di cui all’art. 7, comma 4, c.p.a., il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso il bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere.
Dunque, solo se dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica sia derivata per il privato una lesione della sua sfera giuridica quest’ultimo può domandare il risarcimento per equivalente monetario.
Nel settore del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento amministrativo il requisito dell’ingiustizia esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento favorevole, per il quale aveva presentato istanza.
L’ingiustizia del danno così declinata non è tuttavia il solo presupposto della responsabilità ex art. 2-bis l. 241 del 1990.
Quest’ultima disposizione va letta in combinato con l’art. 2 della medesima legge, che disciplina in termini generali la “conclusione del procedimento”.
La disposizione – oltre a enunciare, tra gli altri, il dovere di concludere il procedimento con provvedimento espresso, la cui violazione sostanzia l’antigiuridicità della condotta dell’Amministrazione – prevede uno strumento di cooperazione con il privato istante, finalizzato a superare l’inerzia dell’Amministrazione.
L’attivazione da parte del privato è indice di serietà ed effettività dell’interesse legittimo di quest’ultimo al provvedimento espresso. All’opposto, in assenza di ulteriori iniziative del richiedente, potrebbe presumersi che l’ulteriore decorso del tempo sia sostanzialmente indifferente per il privato.
In tale prospettiva, la mancata cooperazione del privato può concorrere a costituire comportamento valutabile ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a. al fine di escludere “il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
Sempre in termini di cooperazione, allo strumento procedimentale ora esaminato si aggiungono quelli di ordine processuale, tra cui l’azione contro il silenzio (artt. 31 e 117 c.p.a.) e quella di ottemperanza (art. 112 e ss. c.p.a.), la cui proposizione di per sé evidenzia all’Amministrazione che l’ulteriore ritardo nella conclusione del procedimento può comportare un pregiudizio economico.
Vale in ogni caso precisare che la mancata sollecitazione del potere di avocazione previsto dall’art. 2, commi 9-bis e ss., l. 241/1990 così come la mancata proposizione di ricorsi giurisdizionali costituisce un elemento di valutazione che può concorrere, con altri, alla definizione della responsabilità.
Nel settore della responsabilità dell’Amministrazione da illegittimo o mancato esercizio dei suoi poteri autoritativi, è posto dunque a carico del privato un onere di ordinaria diligenza – come tale valutabile dal giudice – di attivarsi con ogni strumento procedimentale o processuale utile a salvaguardare il bene della vita correlato al suo interesse legittimo, in modo da delimitare in termini quantitativi il perimetro del danno risarcibile.
Una volta ricondotta la responsabilità della P.A. per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere positivizzato nell’art. 2043 c.c., deve escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità.
Assume invece un ruolo centrale l’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.
Tornando al caso di specie, è stato accertato che l’inosservanza colposa da parte della Regione siciliana dei termini del procedimento ex art. 12 d.lgs. 387/2003 ha impedito alla società ricorrente di ottenere il bene della vita attraverso la previsione legislativa dei termini entro cui la funzione amministrativa deve esercitarsi, consistente nel tempestivo rilascio delle autorizzazioni ai sensi della disposizione richiamata.
In relazione a tale primo profilo, l’Adunanza esprime il principio per cui “la responsabilità della P.A. per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 c.c. i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 c.c. e non anche il criterio della prevedibilità del danno”.
Sul divieto sopravvenuto come fattore autonomo in grado di interrompere il nesso di consequenzialità immediata e diretta ex art. 1223 c.c. tra ritardata conclusione del procedimento autorizzativo e mancato accesso al regime incentivante.
Come precisato dalla pronuncia, tra danno emergente e lucro cessante, il mancato accesso al regime tariffario incentivante si colloca nel secondo concetto ossia nel lucro cessante.
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, con riferimento al periodo di tempo anteriore alla modifica normativa che ha soppresso gli incentivi, è possibile imputare al ritardo della Regione il pregiudizio patrimoniale subito dalla società a causa del mancato accesso agli incentivi tariffari.
La regolarità causale che lega i due eventi – ritardo dell’Amministrazione nel provvedere e perdita degli incentivi – non può infatti ritenersi recisa dalla sopravvenienza normativa, poiché è stato proprio il ritardo a rendere la sopravvenienza rilevante, come fatto impeditivo per l’accesso agli incentivi tariffari altrimenti ottenibili.
Il ritardo non si pone dunque come mera occasione del pregiudizio, ma ne è stata la causa.
A ben vedere, a dimostrazione di quanto sopra detto circa la rilevanza dei principi espressi dalla pronuncia in ogni settore connesso all’esercizio della funzione pubblica, si potrebbe fare il caso dell’esecuzione di un’opera pubblica laddove i ritardi accumulati dalla P.A. hanno generato un danno all’appaltatore conseguente alla sopravvenuta adozione da parte della Regione di una delibera in deroga al PPTR che ha previsto ulteriori opere in capo all’appaltatore. Se la P.A. non avesse impiegato quattro anni per procedere alla consegna dei lavori, gli eventi descritti causativi dei danni non avrebbero inciso sull’appalto in questione giacché i lavori si sarebbero conclusi nel termine contrattuale di 360 giorni dalla consegna, molto prima del verificarsi degli eventi descritti.
Nell’ambito della realizzazione degli impianti FER il regime incentivante è stato il fattore chiave dell’investimento privato spesso messo a rischio da comportamenti della P.A. non improntati al buon andamento e alla funzione prestazionale su menzionata. La pronuncia in esame rappresenta un importante riconoscimento per gli operatori del settore oltre che un monito per le amministrazioni coinvolte nei procedimenti autorizzativi degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Il comportamento inerte sottostà, sul piano risarcitorio, alla mancata realizzazione degli investimenti nel settore quando è causata dal comportamento antigiuridico dell’Amministrazione procedente.
In definitiva, il mutamento normativo, espressivo di un mutato indirizzo legislativo rispetto all’intervento economico pubblico in funzione agevolativa degli investimenti privati, deve pertanto essere considerato un rischio imputabile all’Amministrazione quando la sopravvenienza normativa non avrebbe avuto rilievo se i tempi del procedimento autorizzativo fossero stati rispettati.
In relazione a tale secondo profilo, l’Adunanza afferma che:
- “con riferimento al periodo temporale nel quale hanno avuto vigenza le disposizioni sui relativi benefici, è in astratto ravvisabile il nesso di consequenzialità immediata e diretta tra la ritardata conclusione del procedimento autorizzativo ex art. 12 d.lgs. n. 387/2003 e il mancato accesso agli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili quando la mancata ammissione al regime incentivante sia stato determinato da un divieto normativo sopravvenuto che non sarebbe stato applicabile se i termini del procedimento fossero stati rispettati;
- occorre tuttavia stabilire se le erogazioni sarebbero comunque cessate, per la sopravvenuta abrogazione della normativa sugli incentivi, nel qual caso il pregiudizio è riconducibile alla sopravvenienza legislativa e non più imputabile all’amministrazione, oppure se l’interessato avrebbe comunque avuto diritto a mantenere il regime agevolativo, in quanto la legge, per esempio, faccia chiaramente salvi, e sottratti quindi all’abrogazione, gli incentivi già in corso di erogazione e fino al termine finale originariamente stabilito per gli stessi;
- in ogni caso, il danno va liquidato secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, e non può equivalere a quanto l’impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l’attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione”.