Gli effetti della risoluzione del contratto sulle riserve e sulle sospensioni
Quali sono gli effetti della risoluzione del contratto sulle riserve e sulle sospensioni?
Una volta venuto meno il contratto, a seguito della risoluzione del contratto, non ci si può più occupare della legittimità delle sospensioni e neppure della tempestività e della consistenza delle riserve, perché il vincolo negoziale non esiste più.
Sia le riserve che le sospensioni, infatti, presuppongono un contratto di appalto valido e operante, data la funzione peculiare di far valere verso l’amministrazione committente diritti o pretese di maggiori compensi per la sua avvenuta esecuzione, rispetto al prezzo contrattuale originario.
Pertanto, a seguito dell’intervenuta risoluzione giudiziale del contratto di appalto, la società appaltatrice che domanda il risarcimento dei danni ha l’obbligo di dimostrarne l’esistenza.
Ciò è quanto è stato affermato dalla Corte di cassazione che, con una recente ordinanza, nel ribadire che il contratto di appalto configura un contratto ad esecuzione prolungata, si è soffermata sugli effetti della risoluzione contrattuale sulle prestazioni già eseguite.
Vediamo il caso di specie.
A seguito di procedura concorsuale, un’azienda sanitaria affidava ad una società l’esecuzione di lavori di ristrutturazione del distretto sanitario.
I lavori venivano sospesi per due volte: la prima, per una “indisponibilità dei luoghi”; la seconda relativa all’atto di sottomissione, i cui lavori non erano mai stati avviati per mancanza di approvazione della perizia di variante da parte degli organi superiori.
Per tali ragioni, la società affidataria citava in giudizio la società appaltante chiedendo l’accertamento del grave inadempimento posto in essere da quest’ultima, con condanna della stessa al risarcimento dei danni e con pronuncia di risoluzione del contratto, dell’atto di sottomissione e dell’atto aggiuntivo.
A fondamento dell’atto di citazione, la società attrice deduceva l’illegittimità delle due sospensioni ai sensi e per gli effetti dell’art. 25 del D.M. n. 145/2000.
Il giudice di primo grado, reputate entrambe le sospensioni dei lavori illegittime, accoglieva la domanda risarcitoria ex art. 25 del D.M. n. 145/2000, unitamente alla risoluzione del contratto d’appalto. Per il giudice di primo grado, infatti, gli inadempimenti della committente rivestivano il carattere della gravità ai sensi dell’art. 1445 c.c., sì da fondare la domanda di risoluzione del contratto, del successivo atto di sottomissione e dell’atto aggiuntivo.
L’azienda sanitaria proponeva appello avverso la sentenza, sostenendo la legittimità delle sospensioni e l’insussistenza dei presupposti per la risoluzione del contratto. In particolare, l’azienda sanitaria riteneva che all’appaltatore fossero state liquidate una serie di voci di danno prive di prova.
L’appello veniva parzialmente accolto e, per l’effetto, la Corte riduceva l’importo del risarcimento. In particolare, la Corte d’appello evidenziava che i danni per illegittima sospensione dei lavori spettavano esclusivamente nell’ipotesi in cui si fosse verificato il completamento dell’opera, ma non anche nell’ipotesi di intervenuta risoluzione del contratto, in quanto in tal caso, una volta venuto meno il titolo giustificativo delle rispettive attribuzioni patrimoniali, non poteva liquidarsi il danno come se il contratto, a seguito delle sospensioni, fosse proseguito.
Per la Corte d’appello territoriale, dunque, nella specie, non trovava applicazione l’art. 25 del D.M. n. 145/2000, perché esso prevede la determinazione del danno nel caso di sospensione dei lavori in un appalto non oggetto di risoluzione.
Avverso la sentenza della Corte d’appello, la società, sulla scorta di diversi motivi, proponeva ricorso per cassazione.
Per quanto qui di interesse, la società riteneva che l’errore della Corte d’appello fosse da rinvenirsi nell’aver escluso l’applicazione, al contratto d’appalto, dell’art. 1458 c.c., nella parte in cui dispone che la risoluzione non ha effetto retroattivo nel caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo i quali l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite.
Per la società, dunque, il contratto di appalto, avendo carattere di durata, deve essere attratto nella disciplina di cui all’art. 1458 c.c., propria dei contratti ad esecuzione continuata o periodica e non in quella dei contratti ad esecuzione istantanea. Pertanto, per la società ricorrente, l’art. 25 del D.M. 145/2000 trova applicazione anche in caso di risoluzione del contratto.
La tesi della società ricorrente non ha trovato il benestare della Suprema corte.
La Corte di cassazione, infatti, dato atto che il contratto di appalto non è ad efficacia istantanea e neppure configura un contratto a prestazioni continuative o periodiche, ma trattasi di un contratto ad esecuzione prolungata con conseguente efficacia retroattiva della risoluzione, ha affermato che in tali contratti l’effetto restitutorio opera a pieno regime per ciascun contraente ed indipendentemente dalle inadempienze a lui eventualmente imputabili.
La sentenza che pronuncia la risoluzione del contratto per inadempimento produce, quindi, un effetto liberatorio ex nunc rispetto alle prestazioni da eseguire ed un effetto recuperatorio ex tunc, rispetto alle prestazioni già eseguite.
Solo nel caso in cui gli effetti restitutori non possano essere disposti in forma specifica, il giudice deve necessariamente ordinarli per equivalente.
Ne consegue, dunque, che in tema di risoluzione del contratto di appalto, qualora la risoluzione consegua all’inadempimento del committente e non sia possibile la restituzione in natura all’impresa appaltatrice della costruzione, parzialmente eseguita, il contenuto dell’obbligo restitutorio in capo alla committente va determinato con riferimento al momento della pronuncia della risoluzione e in relazione all’ammontare del corrispettivo originariamente pattuito.
I medesimi principi si applicano anche in caso di risoluzione dell’appalto pubblico: una volta venuto meno il contratto, a seguito di risoluzione giudiziale, non ci si può più occupare della legittimità delle sospensioni e neppure della tempestività delle e della consistenza delle riserve, perché il vincolo negoziale non esiste più.
Per l’effetto, gli artt. 24 e 25 del D.M. 145/2000 che disciplinano le sospensioni, rispettivamente, legittime e illegittime, non trovano applicazione nel caso in cui venga dichiarata la risoluzione del contratto.
La Suprema Corte, richiamando un proprio precedente, ha affermato che gli artt. 24 e 25 del D.M. 145/2000 trovano applicazione soltanto nel caso in cui l’appalto sia stato ultimato ed eseguito ma non nell’ipotesi di risoluzione del contratto (cfr. Cass. sez. I, 22.12.2001, n. 28429).
In definitiva, la Corte di cassazione ha ritenuto che sia le riserve che le sospensioni presuppongano un contratto valido ed operante, data la funzione peculiare di far valere verso l’amministrazione committente diritti o pretese di maggiori compensi per la sua avvenuta esecuzione, rispetto al prezzo contrattuale originario.
Pertanto, una volta intervenuta la risoluzione giudiziale del contratto di appalto, la società appaltatrice che intende domandare il risarcimento danni ha l’obbligo di dimostrare l’esistenza dei danni subiti, tra i quali quelli relativi alle spese generali del cantiere.