Il principio di equivalenza non risolve tutti i problemi
Il caso di cui ci occupiamo oggi riguarda un bando pubblicato nella vigenza del Codice del 2006, ciononostante, trattando del principio di equivalenza, è utile parlarne – anche considerato che l’art. 68 del Codice previgente è rimasto sostanzialmente immutato nel testo (ma anche nella numerazione visto che è stato inserito all’art. 68 D.Lgs. n. 50/2016).
Nell’ambito di una procedura aperta per l’affidamento della fornitura di calzature, il disciplinare stabiliva che:
- la fornitura deve rispondere ai requisiti tecnici minimi prescritti nel Capitolato Tecnico, in particolare, il prodotto deve essere realizzato interamente con tomaio in microfibra tessile ed essere dotato di certificazione “latex free” (non deve contenere lattice);
- la mancata corrispondenza dei prodotti offerti alle specifiche caratteristiche previste dal C.T. comporta l’esclusione dalla gara;
- sono ammesse variazioni di foggia (es. cucitura, impuntura etc.) purché non vadano a incidere sulla funzionalità del prodotto.
Nel corso del giudizio è emerso che il prodotto offerto dalla aggiudicataria conteneva del lattice. L’aggiudicataria si difende sostenendo che la previsione di specifiche tecniche comporta sempre l’ammissione di equivalenze.
Ad avviso del TAR, la Commissione ha sostanzialmente consentito l’offerta di un prodotto diverso da quello che, secondo la stessa legge di gara, andava invece offerto a pena di esclusione.
Ebbene, la finalità dell’art. 68 è quella di evitare indebite restrizioni alla concorrenza e alla partecipazione ai pubblici appalti, che potrebbero verificarsi in caso di indicazione, da parte delle stazioni appaltanti, di specifiche tecniche di prodotto eccessivamente restrittive oppure costituite da una determinata fabbricazione o provenienza, se non addirittura da uno specifico marchio o brevetto; situazioni queste che sono scongiurate dall’obbligo in capo ai committenti di menzione nella legge di gara dell’espressione <<o equivalente>>.
Nella vicenda in questione, in cui il committente ha indicato e circoscritto l’oggetto dell’appalto con riferimento ad un prodotto naturalmente esistente in natura (ossia il “lattice”) – non coincidente con una produzione industriale specifica e determinata – il richiamo al principio di equivalenza non può consentire di distorcere l’oggetto dell’appalto, al punto da permettere ai partecipanti di offrire un bene radicalmente differente (insomma, un “aliud pro alio”), finendo così per rendere sostanzialmente indeterminato l’oggetto dell’appalto medesimo.
Neppure può sostenersi che in tali casi spetterebbe alla Commissione, nell’esercizio della propria discrezionalità tecnica, valutare comunque in concreto l’equivalenza del prodotto, giacché il ruolo della Commissione non può spingersi sino al punto di modificare sostanzialmente l’oggetto della gara.