Inibizione della SCIA oltre il termine di 18 mesi: serve un “falso” e non basta un “errore”
Come sappiamo, l’inibizione della SCIA oltre il termine di 18 mesi (così come l’annullamento del PdC) richiede un presupposto preciso: serve, infatti, un “falso” (o, più precisamente, la “falsa rappresentazione dei fatti”).
Così, infatti, dispone l’art. 21 nonies L. n. 241/90:
“i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.”
In passato ci siamo occupati di verificare in quali casi, secondo la giurisprudenza, occorra, per superare il termine di 18 mesi, una sentenza passata in giudicato.
Oggi, invece, viene all’attenzione – grazie allo spunto offerto da TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 1.6.2020, n. 980 – un aspetto ancora più “fondamentale”.
In particolare, la domanda (solo apparentemente “banale”) è: cosa intende la norma laddove si riferisce a “false rappresentazioni dei fatti“?
Come ben noto ai tecnici e agli operatori del settore edilizio, infatti, una SCIA (così, come peraltro, un PdC, per il quale valgono i medesimi principi ai fini della legittimità dell’annullamento) è accompagnata da varie dichiarazioni ed asseverazioni.
Alcune di queste sicuramente hanno ad oggetto fatti “materiali”, per i quali è sempre applicabile un criterio “vero/falso” (ad es. “il fabbricato non è soggetto a vincoli ex d.lgs. n. 42/2004” o “la distanza dalla parete finestrata antistante è di XX metri”). Si tratta, in altri termini, di aspetti “oggettivamente” verificabili e riscontrabili, la cui non veritiera attestazione nella SCIA (o nella richiesta di PdC).
In questi casi, infatti, sarà sufficiente, al fine di poter giustificare l’intervento “oltre i 18 mesi”, accertare la presenza di un dato (oggetivo) non rispondente al vero (ossia, falso).
Laddove, invece, si ricada in ipotesi di “errori” ricadenti su aspetti “non oggettivi” è più problematico parlare di “falsità”. In presenza, ad esempio, di valutazioni circa la conformità a talune (spesso non chiarissime, come noto …) norme pianificatorie o regolamentari, talvolta, se è possibile che le stesse risultino “errate”, non è detto che si possa – automaticamente – qualificarle come “false”. Falsità che, peraltro, secondo parte della giurisprudenza andrebbe in qualche misura agganciata anche ad un elemento psicologico, quale il dolo o la colpa grave.
In questa logica è assai interessante la sentenza del TAR Lombardia n. 980/2020.
In questo caso, a fronte dell’ “annullamento” di una SCIA oltre i 18 mesi, il TAR ha escluso l’invocabilità del co. 2-bis art. 21-nonies L. n. 241/90 in una fattispecie in cui la “non conformità” dell’intervento alla disciplina edilizia di riferimento discendeva non da un profilo oggettivo ma da una interpretazione (in ipotesi: inesatta) delle norme applicabili.
Ecco che, a tal proposito, il TAR osserva che:
“non vi è stata alcuna falsa rappresentazione in senso proprio, correlata al dolo o alla colpa grave della parte istante (cfr. Consiglio di Stato, VI, 4 febbraio 2019, n. 849; V, 27 giugno 2018, n. 3940; T.A.R. Campania, Salerno, II, 13 maggio 2020, n. 494; T.A.R. Puglia, Lecce, I, 25 marzo 2020, n. 398; T.A.R. Campania, Napoli, II, 11 febbraio 2020, n. 672). D’altra parte, seppure si fosse in presenza di un errore interpretativo compiuto dalla parte in relazione alla disciplina urbanistico-edilizia applicabile alla fattispecie, lo stesso non darebbe luogo ad alcuna falsa rappresentazione tale da giustificare l’attivazione da parte del Comune dei poteri di autotutela oltre il termine di cui all’art. 21 nonies (cfr. Consiglio di Stato, VI, 31 agosto 2016, n. 3762).”
Peraltro, è anche il caso di osservare, al fine di delimitare la portata del principio enucleato dalla sentenza del TAR Lombardia, come occorra, al fine di valutare la sua applicabilità, svolgere una valutazione caso per caso, giacché non tutte le norme urbanistico-edilizie sono suscettibili (in buona fede e con la diligenza professionale richiesta ai tecnici che asseverano le istanze) di interpretazioni “opinabili” (si pensi, ad esempio, ad una norma che chiaramente, per una data area del territorio, vieti talune destinazioni ovvero prescriva determinati limiti di altezza/distanza).