Fatture Commerciali: sono sufficienti per provare il corrispettivo dovuto all’appaltatore?
Fatture Commerciali: sono sufficienti per provare il corrispettivo dovuto all’appaltatore?
Fatture Commerciali: sono sufficienti per provare il corrispettivo dovuto all’appaltatore? Le fatture commerciali emesse non costituiscono un elemento sufficiente per ritenere provato il quantum del corrispettivo di lavori eseguiti in un appalto.
È il principio giurisprudenziale che è ormai consolidato in materia in ossequio al correlato onere della prova che governa tutti i rapporti contrattuali ed i discendenti obblighi posti a carico delle parti.
I fatti: il contenzioso sui lavori eseguiti.
A seguito dell’espletamento del procedimento di accertamento tecnico preventivo conclusosi senza alcun accordo conciliativo tra le parti, tra più imprese scaturiva una lite innanzi al Giudice ordinario nell’ambito della quale la Committente, previo accertamento di asseriti difetti costruttivi e progettuali e conseguente inadempimento delle imprese esecutrici di lavori di realizzazione di un fabbricato da destinare a civile abitazione (appalto privato), chiedeva al Tribunale adito la condanna delle imprese esecutrici e la risoluzione del contratto, nonché il risarcimento di tutti i danni subiti.
Le singole imprese esecutrici, in qualità di convenute, si opponevano alle richieste e, al contempo, una di esse, chiedeva la condanna al pagamento di somme quale residuo dovuto per la realizzazione di alcune opere specifiche (realizzazione opere di sistemazione del piazzale esterno).
A seguito dei primi due gradi di giudizio, nei quali la Committente veniva condannata al pagamento di somme, la controversia giungeva innanzi al Giudice della Cassazione che, con un’articolata motivazione, accoglieva alcuni motivi di ricorso, pronunciando alcuni principi di fondamentale importanza nel settore dei rapporti commerciali e, incidentalmente, negli appalti di lavori.
La decisione della Corte.
La Corte muove dal principio secondo cui “In tema di contratto di appalto, l’appaltatore che chieda il pagamento del proprio compenso ha l’onere di dimostrare la congruità della somma pretesa, con riferimento alla natura, all’entità e alla consistenza delle opere realizzate, non costituendo idonee prove dell’ammontare del credito le fatture emesse dal medesimo appaltatore, poiché si tratta di documenti fiscali provenienti dalla parte stessa, né la contabilità redatta dal direttore dei lavori o dallo stesso appaltatore, a meno che non risulti che essa sia stata portata a conoscenza del committente e che questi l’abbia accettata senza riserve”.
A ragion della Cassazione, infatti, il richiamo delle sole fatture commerciali emesse dall’impresa esecutrice non avrebbe potuto costituire elemento sufficiente per ritenere provato il quantum del corrispettivo preteso.
E ciò perché, precisa la Corte, “la fattura commerciale, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale ed alla funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto, si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione, indirizzata all’altra parte, di fatti concernenti un rapporto già costituito, sicché, quando tale rapporto sia contestato (quantomeno in ordine alla quantificazione della pretesa), non può costituire valido elemento di prova delle prestazioni eseguite ma, al più, un mero indizio”.
Un ulteriore elemento ha consentito di giungere a tale decisione.
Infatti, nel giudizio, non è stata addotta alcuna argomentazione sulla specifica accettazione delle fatture e sul loro inserimento nelle scritture contabili della Committente, rilevante peraltro ai soli fini della dimostrazione dell’esistenza del contratto (an) da cui traeva origine l’obbligazione rivendicata.
Pertanto, si ricava che “l’appaltatore che chieda il pagamento del proprio compenso ha l’onere di dimostrare la congruità della somma, con riferimento alla natura, all’entità e alla consistenza delle opere, non costituendo idonee prove dell’ammontare del credito le fatture emesse dal medesimo appaltatore, poiché si tratta di documenti fiscali provenienti dalla parte stessa”.
Analoga conclusione vale per il consuntivo riportante le voci delle opere eseguite ove redatto dal solo appaltatore.
Non costituisce, infatti, idonea prova del credito dell’appaltatore (quantum) la contabilità redatta dal direttore dei lavori (o dallo stesso appaltatore), a meno che non risulti che essa sia stata portata a conoscenza del Committente e che questi l’abbia accettata senza riserve, pur senza aver manifestato la sua accettazione con formule sacramentali, oppure che il direttore dei lavori, per conto del Committente, abbia redatto la relativa contabilità come rappresentante del suo cliente e non come soggetto legato a costui da un contratto di prestazione d’opera professionale, che gli fa assumere la rappresentanza del committente limitatamente alla materia tecnica.
Tutti questi elementi conducono a ritenere che ogni qualvolta oggetto della controversia sia una pretesa di carattere economico connessa a lavori eseguiti nell’ambito di un appalto (privato nel caso di specie, ma non si esclude l’estensione all’ipotesi di un appalto pubblico, seppur con alcune limitazioni), colui che agisce in giudizio è tenuto a provare le caratteristiche intrinseche delle prestazioni effettivamente eseguite, senza limitarsi alle fatture commerciali che, come evidenziato, assumono caratteristiche e finalità diverse dalla dimostrazione effettiva dei lavori svolti.
Cass. Civ., Sez. II, 23 maggio 2024, n. 14399