Amianto e coperture: gli incentivi per impianti fotovoltaici sui tetti.

Il processo di transizione ambientale, energetica in particolare, si potrebbe dire che è cominciato alcuni anni addietro, come dimostra la normativa specifica di settore che ha previsto delle forme di incentivi per coloro i quali avessero realizzato degli impianti energetici (fotovoltaici) in sostituzione di coperture contenenti eternit e/o amianto.

In precedenza ci siamo occupati delle problematiche attinenti all'aumento del costo dell'energia (qui il link ove è possibile consultare la news sul tema) che certamente influisce sul tema che stiamo affrontando.

Come è noto, il materiale eternit/amianto (a questo link è possibile consultare gli effetti dannosi per la salute) ha trovato un vasto impiego come isolante o coibente e, secondariamente, come materiale di rinforzo e supporto per altri manufatti sintetici (mezzi di protezione e tute resistenti al calore); attualmente l’impiego è proibito per legge, tuttavia la liberazione di fibre di amianto da elementi strutturali preesistenti, all'interno degli edifici, può avvenire per lento deterioramento di materiali che lo contengono oppure per danneggiamento diretto degli stessi da parte degli occupanti o per interventi di manutenzione.

La presenza di tali materiali rappresenta, pertanto, un problema di carattere ambientale serio.

A fronte del divieto di utilizzo imposto, nel corso degli anni il legislatore ha inteso promuovere un processo di smaltimento finalizzato all'eliminazione di tutte quelle opere contenenti amianto: per promuovere tale processo, il legislatore ha introdotto, tra l'altro, delle misure straordinarie di incentivazione della produzione di energia elettrica da impianti solari fotovoltaici ove installati in sostituzione di coperture in eternit o comunque contenenti amianto.

Tale sistema di incentivazione prevede un maggior contributo economico (premio) che il Gestore dei servizi energetici (GSE) riconosce rispetto alla componente incentivante della cd. "tariffa base": la maggiorazione è del 5%.

La normativa di settore si ricava dal D.M. 5 maggio 2011 e s.m.i.

Naturalmente, nel corso degli anni sono sorti numerosi contenziosi legati al sistema incentivante.

La vicenda che qui si esamina è riferita ad una controversia insorta tra una società agricola ed il GSE, il quale, all'esito del procedimento di verifica dell'impianto fotovoltaico realizzato dall'impresa, aveva constatato che l'intervento di installazione dei moduli fotovoltaici non aveva comportato la rimozione e lo smaltimento della totale superficie di eternit esistente, escludendo, dunque, il riconoscimento delle premialità previste dalla normativa.

Avverso il provvedimento di non riconoscimento delle maggiorazioni è insorta la Società, lamentando diversi profili critici, tra cui quello secondo il quale l'attribuzione del premio era da riconoscere in quanto l'intervento era realizzato all'interno di una "porzione omogenea di copertura" ovvero sulla porzione di un edificio autonomo rispetto al complesso immobiliare cui era ricompresa la copertura.

Prescindendo dagli aspetti specifici della questione, il Tar laziale ha accolto il ricorso proposto dall'operatore economico e, richiamando la normativa di settore, ha acclarato che "Come emerge dalle citate Regole applicative, l’attribuzione del premio in argomento presuppone la rimozione delle preesistenti coperture in eternit/amianto relativamente alla falda di tetto o porzione omogenea della copertura su cui si intende installare l’impianto fotovoltaico, condizione che la ricorrente, ad avviso del Collegio, ha rispettato. 7.3. Dalla planimetria catastale prodotta in giudizio ... risulta, infatti, con evidenza che l’edificio sul quale è stato realizzato l’impianto – che peraltro occupa integralmente la copertura dello stesso, come pure emerge dalle fotografie in atti - è distinto e separato rispetto agli altri edifici – pur limitrofi – sui quali permane invece la copertura preesistente, configurando in tal modo la “porzione omogenea” rilevante ai fini della maggiorazione per cui è causa".

Il Giudice amministrativo, dunque, facendo leva sullo stato dei luoghi, ha riconosciuto espressamente il rispetto della normativa da parte del soggetto interessato e, correlativamente, la portata applicativa del premio incentivante, attribuendo rilevanza proprio all'impianto energetico realizzato su un edificio in sostituzione della precedente copertura, in quanto nociva per l'ambiente e la salute dell'uomo.

A ben guardare, dunque, il processo di transizione energetica passa necessariamente anche attraverso queste particolari forme e modalità di incentivi premiali che consentono a coloro che eseguono opere di miglioramento ambientale (tramite rimozione e smaltimento di coperture in eternit/amianto con la sostituzione di pannelli solari) di conseguire un maggior introito (e risparmio di costi) dall'energia pulita e, conseguentemente, di promuovere una maggiore tutela dell'ambiente laddove si eliminano le sostanze dannose e pericolose per l'uomo.

(Tar Lazio Sez. Terza Ter, 22 maggio 2023, n. 8721)


ambiente

La tutela del bene ambientale: il caso della linea ferroviaria Verona - Brennero.

Ogni qualvolta si discute di opere strategiche per il Paese vengono in rilievo i procedimenti amministrativi che assumono delle matrici ambientali.

In più circostanze ci siamo occupati di come l'approvazione di progetti di interesse nazionale necessiti di iter che, per la loro complessità, necessitano di forme di raccordo, coordinamento e semplificazione tra i soggetti deputati all'approvazione al fine di consentirne la realizzazione.

Nella precedente news qui consultabile, ad esempio, ci siamo occupati del tema relativo al difficile bilanciamento che sussiste tra la tutela dell'ambiente e la promozione e valorizzazione delle iniziative imprenditoriali private: in quel caso, in particolare, si è osservato come alcuni fattori possono seriamente incidere sulle valutazioni autorizzative.

Il caso che oggi qui affrontiamo verte sul procedimento di approvazione di un progetto di interesse nazionale di potenziamento della rete ferroviaria italiana, opera finanziata con fondi PNRR, di elevato grado di complessità.

Ad adire il Giudice amministrativo, in questo caso, sono stati alcuni cittadini residenti in un ambito territoriale interessato dai lavori, i quali rivendicano la titolarità di un interesse legittimo ed un diritto alla salute, posizioni che sarebbero pregiudicate dalla realizzazione dell'opera.

Le problematiche su cui il Giudice amministrativo si sofferma si riferiscono a due distinti profili:

  • il primo, relativo alla tempestività della proposizione del ricorso;
  • il secondo, relativo alla natura, alle caratteristiche e alla finalità dell'iter autorizzativo di matrice ambientale, la valutazione d'impatto ambientale in particolare, così come disciplinata dall'art. 19 e ss., d.lgs. 152/2006 e s.m.i.

La valutazione d'impatto ambientale è configurata come una procedura amministrativa complessa e di supporto per l'autorità competente finalizzata ad individuare, descrivere e valutare gli impatti ambientali di un'opera, il cui progetto è sottoposto ad approvazione o autorizzazione.

In altri termini, trattasi di un procedimento di valutazione ex ante degli effetti prodotti sull'ambiente da determinati interventi progettuali, il cui obiettivo è proteggere la salute umana, migliorare la qualità della vita, provvedere al mantenimento delle specie, conservare la capacità di riproduzione dell'ecosistema, promuovere uno sviluppo economico sostenibile. Essa mira a stabilire, e conseguentemente governare in termini di soluzioni più idonee al perseguimento di ridetti obiettivi di salvaguardia, gli effetti sull'ambiente di determinate progettualità. Tali effetti, comunemente sussumibili nel concetto di "impatto ambientale", si identificano nella alterazione qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa, positiva e negativa che viene a prodursi sull'ambiente, laddove quest'ultimo a sua volta è identificato in un ampio contenitore, costituito dal sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici, in conseguenza dell'attuazione sul territorio di piani o programmi o di progetti nelle diverse fasi della loro realizzazione, gestione e dismissione, nonché di eventuali malfunzionamenti.

Soffermandosi sul secondo aspetto, i ricorrenti assumono che l'iter procedimentale sia affetto da carenze procedimentali (afferenti alla fase partecipativa) tali da inficiarne l'esito.

Il Giudice amministrativo, a fronte delle molteplici censure sollevate, ha tuttavia respinto il ricorso, concludendo con un pensiero alquanto significativo sull'importanza del tema trattato e del bene oggetto di tutela.

In ordine logico, il TAR si sofferma sulla impugnabilità del giudizio positivo di valutazione ambientale, il quale rappresenta un atto autonomamente impugnabile, sia nell'ipotesi in cui esso si concluda con esito negativo, sia che il medesimo abbia un epilogo positivo. Il Giudice amministrativo precisa che, in caso di epilogo positivo, occorre valutare "l'esistenza, in capo a terzi soggetti, di un interesse (contrario) al giudizio favorevolmente espresso dalla pubblica amministrazione; in sostanza, gli atti conclusivi delle procedure di valutazione di impatto ambientale, pur inserendosi all'interno di un più ampio procedimento di realizzazione di un'opera o di un intervento, sono immediatamente impugnabili dai soggetti interessati alla protezione dei valori ambientali, siano essi associazioni di tutela ambientale ovvero cittadini".

Soffermandosi sulla perimetrazione del controllo giudiziale sugli atti amministrativi recanti la valutazione di impatto ambientale in quanto espressivi di ampia discrezionalità amministrativa, il Giudice laziale perviene all'osservazione secondo la quale "il sindacato del giudice amministrativo in materia è necessariamente limitato alla manifesta illogicità ed incongruità, al travisamento dei fatti o a macroscopici difetti di istruttoria (come nei casi in cui l'istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato …) o quando l'atto sia privo di idonea motivazione ... Ma anche anche a prescindere dai prospettati profili di inammissibilità delle doglianze rivolte avverso la VIA in ragione della sua mancata tempestiva impugnazione, emerge l’infondatezza della censura atteso che non risulta comprovata da parte dei ricorrenti alcuna effettiva pretermissione delle garanzie partecipative afferenti alla predetta fase".

Appare evidente che la logica sottesa alla decisione amministrativa riflette quello che è il ruolo che assume il Giudice amministrativo nelle scelte quotidiane complesse: il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali è decisamente ristretto e deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto, non potendosi applicare criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa da parte di coloro che obiettano semplicemente la realizzazione dell'intervento.

Appare interessante l'inciso conclusivo espresso dal Giudice che rende evidente come l'ambiente (ergo il bene ambientale) sia trasversale: "L'opera ... appare armonizzarsi con il valore recato dal bene ambientale anche in ragione della sua funzionalità con l'implementazione della mobilità sostenibile e dalla sua inclusione nelle politiche del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza".

(Tar Lazio Sez. III, 13 maggio 2023, n. 8219)


Il difficile bilanciamento tra tutela dell’ambiente e iniziativa economica. Il "caso Ovindoli" tra protezione della fauna e sviluppo sostenibile.

Negli ultimi anni è parsa evidente l'attenzione che rivolge il Giudice amministrativo verso la tutela ambientale, la quale, come noto, costituisce un bene costituzionalmente protetto.

In precedenza ci siamo occupati di una vicenda che ha posto l'attenzione sul diritto ad un ambiente salubre, il quale rappresenta sempre più un fattore che condiziona le scelte quotidiane, comprese le iniziative di carattere economico (a questo link è possibile consultare il testo integrale della news).

Il caso sommariamente analogo che qui si affronta riguarda l'ampliamento di un impianto sciistico all'interno di comune abruzzese, realizzazione che soggiace ad un provvedimento autorizzativo complesso.

Avverso la decisione di primo grado del Giudice amministrativo, quest'ultimo adito con esito positivo da alcune associazioni ambientaliste che censuravano le risultanze istruttorie culminate nel rilascio del titolo autorizzativo, il comune interessato all'iniziativa ha interposto appello deducendo una serie di motivi, accomunati dalla correttezza logica e giuridica del provvedimento autorizzativo dell'impianto ricadente all'interno di area protetta.

Sotto il profilo ambientale, gli aspetti e gli argomenti della decisione del Supremo Consesso amministrativo (di riforma della pronuncia di primo grado) sono molteplici poiché riguardano singoli fattori che entrano in gioco allorquando si realizza (anche in termini di ampliamento) un'opera complessa, come quella di un impianto sciistico, che assolve, certamente, a delle finalità turistiche, ma anche di promozione sociale e di sviluppo economico.

L'argomento chiave è che lo sviluppo dell'iniziativa deve necessariamente considerare le incidenze sullo stato di conservazione dell'habitat preesistente nella zona.

Il primo profilo meritevole di attenzione è l'interesse alla decisione da parte delle associazioni ambientaliste, anch'esse parte della vicenda, in relazione alle quali il Consiglio di Stato, richiamando la normativa istitutiva del Ministero dell'ambiente e delle norme in materia di danno ambientale (l. 8 luglio 1986, n. 349 e s.m.i.), ha chiaramente confermato l'indirizzo interpretativo secondo il quale le associazioni ambientaliste sono legittimate in relazione all'impugnazione di atti amministrativi "che si considerino lesivi dei valori ambientali, paesistici, storici o artistici di un'area determinata" (Cons. St. Sez. IV, 6 marzo 2023, n. 2279).

A ben guardare, proprio la legge 349/1986 ha cristallizzato, all'art. 18, le esigenze di tutela dei soggetti portatori di interessi collettivi, introducendo ex lege la possibilità per le associazioni ambientaliste di intervenire nei giudizi di danno ambientale ovvero di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti legittimi.

Uno dei passaggi motivazionali più significativi è quello relativo al contenuto dello studio di impatto ambientale (ricompreso nella progettazione propedeutica all'autorizzazione) concernente le misure di mitigazione previste per la tutela della fauna, specificatamente della "Vipera ursinii", quale animale tutelato dalla direttiva Habitat 92/43/CEE., oggetto di specifica censura da parte dei soggetti ricorrenti di primo grado.

Tale argomento conduce ad un ragionamento alquanto complesso della tutela ambientale.

Per giungere alla decisione, infatti, il Consiglio di Stato non si è limitato ad operare un richiamo normativo del bene faunistico, bensì ha rivolto un vero e proprio "ammonimento" verso gli interessati, affermando che "Laddove si parta dal presupposto che qualsiasi attività che presenti controindicazioni rispetto alla significativa permanenza della vipera oggetto di tutela debba essere vietata, sarebbe necessario vietare anche il pascolo di animali indicato nello studio come fonte di pericolo, la presenza di escursionisti", osservando puntualmente che "è necessario contemperare le esigenze di carattere ambientali con altri interessi parimenti meritevoli di tutela".

Muovendo da tali presupposti, che certamente ripropongono la problematica propria del diritto dell'ambiente ovvero la tutela di interessi di pari valore, il Giudice d'appello ha richiamato lo storico pronunciamento reso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 85 del 2013 che ha affermato che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri.

Tale argomento conduce ad un ragionamento alquanto complesso della tutela ambientale.

Secondo tale pronuncia, la tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro, giacché se così non fosse, si verificherebbe "l'illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona".

Nella vicenda esaminata si è conclusivamente evidenziato che "il bene di rilievo costituzionale da contemperare con la tutela dell’ambiente era il diritto all’esercizio di un’attività di impresa cui era connesso il diritto al lavoro dei dipendenti. Il caso in esame presenta lo stesso apparente contrasto tra le esigenze di sviluppo economico di una comunità e il rischio di compromettere l’ambiente che va ridotto al minimo, ma che non può diventare un ostacolo insormontabile salvo che l’intervento da autorizzare presenti delle caratteristiche assolutamente incompatibili con la tutela ambientale".

Secondo il Giudice amministrativo, lo sviluppo economico rappresenta certamente un interesse meritevole di tutela che, in relazione alla tutela dell'ambiente, non deve necessariamente porsi in termini ostativi, bensì in termini di integrazione, potendo l'esercizio di attività d'impresa sempre e comunque garantire una tutela effettiva delle componenti ambientali, a volte anche in misura maggiore rispetto a quelle preesistenti.

La sentenza rappresenta una ulteriore evoluzione della giurisprudenza amministrativa, degno di nota: infatti, se fino ad oggi (specie in tema di autorizzazioni di impianti da fonti energetiche rinnovabili c.d. FER) le decisioni si erano spesso occupate di bilanciare i valori costituzionali  tra loro “affini” del paesaggio e dell’ambiente (in un certo senso, e come rilevato da alcune decisioni, “facce della stessa medaglia” nella prospettiva del c.d. sviluppo sostenibile), in questo caso peculiare il Consiglio di Stato ha applicato lo stesso metodo ed approccio avuto riguardo al rapporto tra i valori ambientali/paesaggistici e la tutela dello sviluppo economico in senso stretto. E ciò, peraltro, con una sentenza anche “coraggiosa”, nella parte in cui non solo viene declinato il principio di non prevalenza a priori (ossia implicante sempre e comunque la c.d. opzione zero) della tutela ambientale rispetto allo sviluppo economico, ma il medesimo principio viene applicato “in concreto” dal Giudice Amministrativo che, sulla base delle risultanza procedimentali, conferma la correttezza del provvedimento autorizzatorio (in luogo, ad esempio, di soluzioni processuali spesso adoperate dai giudici amministrativi, consistenti nel rinviare alla P.A. per un nuovo esame e motivazione).

Peraltro, in una prospettiva più ampia, occorre ricordare anche che il tema della verifica degli impatti “economici” in sede di valutazione ambientale, trova una sua conferma anche nella disciplina della VAS recata dal d.lgs. 152/2006. Infatti, l’art. 4, co. 3, del Codice dell’Ambiente dispone che “La valutazione ambientale di piani, programmi e progetti ha la finalità di assicurare che l'attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, e quindi nel rispetto della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un'equa distribuzione dei vantaggi connessi all'attività economica”.

Principio, quello ricordato, che ha trovato ad esempio applicazione in TAR Toscana, 23 marzo 2017, n. 1387, laddove è stato evidenziata la illegittimità di parere di VAS in quanto “quest’ultima si sarebbe limitata alla valutazione degli aspetti ambientali, senza prendere in considerazione le ricadute socio economiche delle scelte di pianificazione E’ necessario, pertanto, che detta valutazione presupponga lo svolgimento di un’analisi di fattibilità economica, comportando lo svolgimento di una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all'utilità socio - economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla cosiddetta opzione - zero, vagliando quindi tutte le possibili interrelazioni che la scelta urbanistica può arrecare alla salute umana, al paesaggio, all'ambiente in genere, al traffico ed anche all'economia di tutto il territorio coinvolto (…). ”

In conclusione, tornando alla recente sentenza del Consiglio di Stato, si può ritenere di essere al cospetto di una motivazione condivisile e, certamente, in linea con gli attuali orientamenti prevalenti in tema di “sviluppo sostenibile”, ferma restando la necessità di un vaglio “caso per caso”.

(Cons. St. Sez. IV, 6 marzo 2023, n. 2279)


Diniego di autorizzazione al subappalto: il potere autoritativo della P.A.

L'istituto del subappalto ha da sempre rappresentato un valido strumento di cooperazione tra le imprese che operano nell'ambito di un appalto pubblico, sia esso di lavori, servizi o forniture.

Il subappalto, attualmente disciplinato dall'art. 105, d.lgs. 50/2016 e s.m.i., risponde, infatti, all'esigenza di consentire ad un operatore economico affidatario di un contratto pubblico di avvalersi, durante la fase esecutiva delle prestazioni, di un operatore economico terzo e formalmente "estraneo" alla partecipazione a gara, al quale sono affidate l'esecuzione di una parte delle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto.

La finalità del subappalto è sempre stata individuata nell'esigenza di favorire le PMI all'interno delle pubbliche commesse,: il legislatore ha previsto numerose garanzie nei loro confronti attraverso una tutela "rafforzata", visto il ruolo fondamentale che svolgono nel panorama economico globale.

Solo per citarne una, si pensi alla possibilità che la Stazione appaltante provveda al pagamento diretto delle prestazioni svolte dal subappaltatore.

In questa precedente news ci siamo soffermati sull'ipotesi specifica del cd. "subappalto necessario", figura affine al subappalto che potremmo definire tradizionale che presenta caratteristiche autonome (qui il link per un approfondimento ed una consultazione integrale).

Seppur sono numerosi i profili della disciplina che ancora oggi appaiono incerti, uno degli aspetti più importanti dell'istituto è l'iter autorizzativo finalizzato a consentire l'ingresso del subappaltatore all'interno dell'appalto così da consentire, in autonomia, lo svolgimento delle prestazioni contrattuali affidate allo stesso dal contraente principale.

A tal proposito, l’autorizzazione al subappalto è disciplinata dall’art. 105, comma 7, Codice dei contratti pubblici, il quale stabilisce che: “L'affidatario deposita il contratto di subappalto presso la stazione appaltante almeno venti giorni prima della data di effettivo inizio dell'esecuzione delle relative prestazioni. Al momento del deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante l'affidatario trasmette altresì la dichiarazione del subappaltatore attestante l'assenza dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80 e il possesso dei requisiti speciali di cui agli articoli 83 e 84. La stazione appaltante verifica la dichiarazione di cui al secondo periodo del presente comma tramite la Banca dati nazionale di cui all'articolo 81. Il contratto di subappalto, corredato della documentazione tecnica, amministrativa e grafica direttamente derivata dagli atti del contratto affidato, indica puntualmente l'ambito operativo del subappalto sia in termini prestazionali che economici”.

A ben guardare, dunque, il legislatore, oltre ad aver individuato precisamente la scansione procedimentale e gli obblighi gravanti sul contraente principale e sul subappaltatore finalizzati a conseguire l'autorizzazione, ha specificatamente circoscritto l'ambito di operatività dell'Amministrazione, la quale, in linea teorica, è tenuta prioritariamente ad effettuare alcune verifiche.

In particolare, in caso di richiesta di autorizzazione al subappalto, la verifica della stazione appaltante va condotta con riferimento al possesso dei requisiti in capo al subappaltatore concernenti, sia l'art. 80 (requisiti generali), sia gli artt. 83 e 84 (requisiti speciali) del Codice dei contratti pubblici.

Orbene, recentemente la giurisprudenza amministrativa si è interrogata sui poteri di cui dispone l'Amministrazione nell'ambito del sub procedimento di autorizzazione al subappalto allorquando, come osservato, la stessa sia tenuta a verificare la sussistenza dei requisiti anche in capo al subappaltatore.

La carenza dei requisiti in capo al subappaltatore implica, infatti, l'adozione di un diniego di autorizzazione al subappalto.

Nel caso che qui si affronta, il diniego di subappalto dell'Amministrazione era fondato sulla presunta sussistenza di un grave illecito professionale in capo al legale rappresentante della società subappaltatrice risalente ad oltre tre anni prima della richiesta di subappalto.

In Giudice amministrativo, accertata la propria giurisdizione e l'illegittimità del diniego opposto, si è soffermato su due profili meritevoli di essere richiamati:

  • il primo, attinente ai presupposti che integrano il grave illecito professionale. Ove l'illecito sia risalente nel tempo e ben oltre il triennio precedente alla presentazione dell'istanza di autorizzazione al subappalto, non ricorre l'ipotesi di esclusione automatica, in quanto i fatti non sono idonei ad integrare il grave illecito professionale, in applicazione del principio di ragionevolezza e dei principi di cui all'art. 57, par. 7, direttiva 24/2014 UE;
  • il secondo, relativo ai poteri di cui dispone l'Amministrazione. L’autorizzazione al subappalto ed il relativo diniego, pur intervenendo nella fase esecutiva dell’appalto, richiedono comunque che "l’amministrazione committente accerti la loro coerenza col perseguimento del pubblico interesse al rispetto dei criteri fissati dalla procedura di gara ... È chiaro dunque che, anche in questa fase, l’amministrazione esercita poteri autoritativi, espressione di discrezionalità valutativa, la cui delibazione di legittimità rientra nel terreno proprio del giudice amministrativo, posto che la posizione soggettiva del privato è tipica d’interesse legittimo ...".

La motivazione della pronuncia appare lineare e certamente condivisibile: l'operatore economico che si è visto rifiutare l'autorizzazione al subappalto in assenza di giusta motivazione potrà rivolgersi al Giudice amministrativo domandando di pronunciarsi sulla legittimità del diniego opposto.

Nel procedimento di verifica, stando a quanto sancito dal Giudice nella pronuncia qui richiamata, l'amministrazione esplica un potere di tipo autoritativo che è espressione di una discrezionalità che, in quanto tale, soggiace ai limiti pubblicistici dell'evidenza pubblica.

Naturalmente, ad agire in giudizio dovrà essere l'affidatario dell'appalto ovvero colui che abbia avanzato la richiesta di subappalto e che si è visto opporre il diniego.

(TAR Campania, Sez. I, 21 marzo 2023, n. 1764)


La tutela delle acque destinate al consumo umano: verso una nuova primavera.

Il 21 marzo è noto per essere il primo giorno di primavera, anche se quest'anno l'equinozio (ovvero quel momento della rivoluzione terrestre intorno al sole in cui quest'ultimo si trova allo zenit dell'equatore fonte Wikpedia.it) cadrà con un giorno d'anticipo, come gli anni pregressi.

Per i più attenti osservatori, il 21 marzo 2023 rappresenterà non solo il primo giorno di primavera, ma una data importante per quella che si preannuncia la rinascita della disciplina della tutela delle acque destinate al consumo umano.

La tematica della disciplina delle acque, in generale, negli ultimi anni ha assunto un ruolo fondamentale all'interno della questione ambientale, intesa in senso trasversale, non solo a causa dei cambiamenti climatici (e dello scioglimento dei ghiacciai) che provocano impatti pregiudizievoli sulle attività umane, ma anche in termini di riconoscimento di un diritto, quello universale a fruire di acqua potabile pulita e di servizi igienici - sanitari, che per molti potrebbe apparire una problematica inesistente.

Non a caso è nata, nel 2012, un'iniziativa a livello europeo denominata "Right2water" con l'obiettivo principale di esortare la Commissione europea a proporre una normativa che sancisse il diritto umano universale all'acqua potabile e ai servizi annessi, come ampiamente riconosciuto dalle Nazioni Unite.

Il Parlamento europeo ed il Consiglio, sulla scia di tale iniziativa, hanno adottato la direttiva 2020/2184 del 16 dicembre 2020, concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano, individuando alcune aree suscettibili di idonea tutela ovvero quella dello scarso ricorso ad un approccio basato sul rischio e la mancanza di specifiche informazioni verso i consumatori finali.

In attuazione degli obblighi sovranazionali, il 6 marzo 2023 è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 55 il decreto legislativo 23 febbraio 2023, n. 18, rubricato "Attuazione della direttiva (UE) 2020/2184 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2020, concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano" che entrerà in vigore il 21 marzo 2023.

Gli obiettivi del decreto sono la protezione della salute umana dagli effetti negativi derivanti dalla contaminazione delle acque destinate al consumo umano, assicurando che le acque siano salubri e pulite, nonché il miglioramento dell'accesso alle acque destinate al consumo umano.

Tra le principali novità si segnalano:

  • la previsione di obblighi generali per la promozione e la tutela delle acque destinate al consuma umano, le quali devono essere "salubri e pulite";
  • l'introduzione di criteri atti a garantire la salubrità e la pulizia delle acque, specie per i gestori del sistema di distribuzione;
  • la previsione di controlli e obblighi per l'approccio alla sicurezza dell'acqua basato sul rischio;
  • l'introduzione di requisiti minimi per i materiali che entrano a contatto con le acque destinate al consumo umano;
  • un sistema di controlli, interni ed esterni;
  • la ridefinizione del ruolo degli enti sub-statali per garantire e migliorare l'accesso universale alle acque destinate al consumo umano;
  • gli obblighi informativi nei confronti dei cittadini;
  • l'istituzione di organismi di sorveglianza;
  • l'introduzione di un sistema sanzionatorio.

Potrebbe apparire alquanto superfluo che nel 2023 si discuta su una questione, quella della disciplina dell'acqua, che per molti è inesistente; se osservassimo la problematica da un'altra prospettiva, invece, ci renderemo conto che l'Italia è fortemente in ritardo nell'attuazione degli obblighi che derivano dalla normativa sovranazionale, non a caso l'attuazione della direttiva UE 2020/2184 è avvenuta con un ritardo di almeno tre anni nonostante la peculiarità della materia che, sotto molti aspetti, rappresenta il fulcro vitale dell'esistenza umana e un mezzo di tutela della salute umana.

Con questo approccio si potrebbe dunque affermare che la scelta operata dal legislatore circa l'entrata in vigore del decreto legislativo il 21 marzo 2023 non è casuale, bensì rappresenta un gesto "nobile" verso una nuova primavera di tutela del bene fondamentale dell'acqua.


Incremento premiale del quinto SOA: istruzioni per l'uso.

Ogni qualvolta si è in presenza di un contrasto giurisprudenziale circa l'interpretazione di una previsione normativa di carattere amministrativo, le cui controversie sono devolute alla giurisdizione del Giudice amministrativo, il Consiglio di Stato si riunisce in seduta plenaria al fine di dar attuazione alla cd. "funzione nomofilattica".

Si potrebbe dire, dunque, che ogni qualvolta che l'Adunanza plenaria si esprima su una questione controversia, si attribuisce certezza e stabilità ad un determinato concetto giuridico che, in precedenza, risultava oggetto di interpretazioni contrastanti.

Nel caso che qui si esamina, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta a dirimere un contrasto giurisprudenziale riguardante il beneficio dell'incremento del quinto delle qualificazioni dei lavori pubblici.

La questione è stata affrontata più volte dal Giudice amministrativo; basti pensare che in questa precedente news abbiamo esaminato un caso sottoposto al Tar delle Marche riguardante la modalità applicativa e di calcolo del beneficio in caso di partecipazione di un operatore economico mediante raggruppamento temporaneo.

Il tema della modalità di calcolo nell'ipotesi in cui la partecipazione a gara avviene tramite identità plurisoggettiva è al centro anche del caso esaminato dall'Adunanza plenaria, a dimostrazione della complessità della questione.

Il caso qui esaminato, prescindendo dalla singolarità della lite insorta, verte dunque sulle modalità applicative dell'istituto dell'incremento premiale del quinto nei raggruppamenti.

Si consideri che l'istituto del quinto trae origine dall’art. 61, comma 2, d.P.R. n. 207/2010 e s.m.i., il quale prevede che "la qualificazione in una categoria abilita l’impresa a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto;  nel caso di imprese raggruppate o consorziate la medesima disposizione si applica con riferimento a ciascuna impresa  raggruppata o consorziata, a condizione che essa sia qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara; nel caso di imprese raggruppate o consorziate la disposizione non si applica alla mandataria ai fini del conseguimento del requisito minimo di cui all’articolo 92, comma 2".

La previsione, tuttora vigente, nel cristallizzare un lungo percorso normativo e giurisprudenziale, ha inteso individuare nella stessa disposizione le due distinte regole, relative, la prima, all’impresa singola e, la seconda, al raggruppamento di imprese.

Si è costantemente osservato che la funzione della prima regola – secondo cui la qualificazione in una categoria abilita l’impresa a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto – è quella di evitare che l’apertura al mercato degli appalti comunitari alle piccole e medie imprese possa attuarsi con pregiudizio delle condizioni basilari di affidabilità tecnica e finanziaria di ciascuna struttura aziendale e si traduce nell’apposizione di un limite alle capacità e dimensioni della singola impresa.

Viceversa, la funzione della seconda regola – secondo cui, in caso di imprese raggruppate o consorziate, il beneficio dell’aumento del quinto si applica a condizione che l’impresa si qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara – è quella di garantire l’amministrazione che la pur necessaria suddivisione dei compiti, congeniale allo strumento del raggruppamento di imprese, non comprometta la complessiva efficienza ed adeguatezza della più vasta aggregazione imprenditoriale aggiudicataria dell’appalto, la quale deve offrire, nel sistema di qualifica affidato all’iscrizione all’albo costruttori, una classifica totale almeno pari a quella dell’importo dei lavori affidati.

La problematica che qui si affronta attiene all'applicazione dell'istituto ai raggruppamenti di imprese di tipo misto.

Il quesito posto al Supremo Consesso amministrativo, infatti, viene formulato nei seguenti termini: "... lo stesso art. 61, comma 2, nella parte in cui prevede, quale condizione per l’attribuzione, ai fini della qualificazione per la categoria di lavori richiesta dalla documentazione di gara, del beneficio  dell’incremento del quinto, che ciascuna delle imprese concorrenti in forma di raggruppamento temporaneo, il presupposto della sussistenza, per ciascuna delle imprese aggregate, di una qualificazione «per una classifica pari ad almeno un quinto dell'importo dei lavori a base di gara», si interpreti, nella specifica ipotesi di partecipazione come raggruppamento c.d. misto, nel senso che tale importo a base di gara debba, in ogni caso, essere riferito al valore complessivo del contratto ovvero debba riferirsi ai singoli importi della categoria prevalente e delle altre categorie scorporabili della gara ..." (Cons. St. Ad. Plen., 13 gennaio 2023, n. 2).

Per poter comprendere l'attualità della problematica ed il principio espresso dall'Adunanza plenaria, occorre muovere dal presupposto logico secondo il quale il beneficio del quinto pone delle problematiche di carattere operativo in quanto è un istituto che indebolisce le garanzie di affidabilità e professionalità collegate alla griglia delle attestazioni SOA, perché permette di eseguire lavori oltre la qualificazione posseduta.

Nel risolvere il contrasto giurisprudenziale, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che con riferimento all’interpretazione dell’art. 61, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, debba rispondersi che, in caso di raggruppamento c.d. misto, tale importo a base di gara debba riferirsi ai singoli importi della categoria prevalente e delle altre categorie scorporabili della gara.

Nel ricostruire il percorso evolutivo che ha caratterizzato la partecipazione a gara mediante raggruppamenti temporanei, l'Adunanza plenaria ha chiarito che il raggruppamento cd. “misto”  consiste "... in una forma di associazione verticale al cui interno sono presenti – in ragione della eterogeneità dei lavori oggetto dell’affidamento, in cui vengono in rilievo una pluralità di diverse categorie di lavorazioni oltre alla prevalente – sub-raggruppamenti orizzontali (art. 48, comma 6, ad finem del d. lgs. n. 50 del 2016)" (Cons. St. Ad. Plen., 2/2023).

Secondo il ragionamento operato dall'Adunanza plenaria, gli orientamenti oggi esistenti non possono essere condivisi nella misura in cui muovono dal presupposto – non previsto da alcuna disposizione di legge - secondo cui, al cospetto di un raggruppamento misto, bisognerebbe aver riguardo alla base d’asta comprensiva di tutti i lavori, anche appartenenti a categorie eterogenee, al fine di determinare se l’impresa appartenente al sub-raggruppamento orizzontale possa ritenersi qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei “lavori a base d’asta” e porre al denominatore il complesso di tutti i lavori posti a base d’asta.

Il principio così espresso dall'Adunanza plenaria si pone nei seguenti termini "la disposizione dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, laddove prevede, per il raggruppamento c.d. orizzontale, che l’incremento premiale del quinto si applica con riferimento a ciascuna impresa raggruppata o consorziata, a condizione che essa sia qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara, si applica anche, per il raggruppamento c.d. misto, alle imprese del singolo sub-raggruppamento orizzontale per l’importo dei lavori della categoria prevalente o della categoria scorporata a base di gara".

Si tratta, certamente, di una pronuncia che finalmente chiarisce che nei raggruppamenti di tipo misto l'incremento del quinto (e la relativa base di calcolo) soggiace a delle regole ben precise che muovono dai singoli importi della categoria prevalente ovvero da quella scorporata; certamente, una pronuncia che non fa che valorizzare la ratio dell'istituto che ben si coniuga con la finalità pro-concorrenziale della partecipazione a gara delle piccole e medie imprese.

(Cons. St. Ad. Plen., 13 gennaio 2023, n. 2)


Il diritto dei singoli all'ambiente salubre: le prospettive di tutela (negate).

Il diritto ad un ambiente salubre rappresenta sempre più un fattore che condiziona le scelte quotidiane su più livelli; non a caso la materia ambientale si pone al centro dell'attenzione dinanzi, sia alle corti di giustizia degli Stati membri, sia alla Corte europea dei diritti dell'uomo.

Si è costantemente affermato che la trasformazione dell'ambiente assume un ruolo decisivo nel modello di sviluppo economico, specie nei processi di globalizzazione.

In tal contesto, il diritto dell'ambiente deve tener conto del diritto internazionale e dei profili del diritto interno poiché l'ambiente, nella sua accezione classica, da luogo a competenze trasversali.

Dinanzi al giudice amministrativo, in particolare, la tutela dell'ambiente ha ricevuto un'attenzione specifica, specie allorquando l'interesse ambientale diviene motivo per agire in giudizio avverso i pregiudizi dovuti alle attività e alle iniziative economiche, come abbiamo precedentemente illustrato in questa news sul tema molto frequente dell'abbandono dei rifiuti. (qui il link).

Qualche giorno fa, sul portale della giustizia amministrativa, è stato pubblicato un autorevole contributo dal titolo eloquente: "Il diritto a respirare aria pulita non supera l'esame dinanzi alla Corte di giustizia dell'Unione europea".

Prescindendo dal ruolo chiave che negli ultimi anni ha assunto la Corte di giustizia nel processo di attuazione di una forma di cooperazione giudiziaria diretta a garantire l'interpretazione uniforme delle norme all'interno del territorio dell'Unione, comprese quelle attinenti al diritto dell'ambiente, il contributo pubblicato si sofferma su un tema sempre più attuale poiché relativo ad una vicenda relativa alla risarcibilità dei danni derivanti dalla violazione del diritto dell'Unione.

Il contributo appare di rilievo laddove, grazie alla problematica ambientale, si affrontano in chiave ricostruttiva le tappe più significative del percorso giurisprudenziale che hanno condotto a delineare i tratti essenziali delle condizioni minime per l'ottenimento del ristoro ove si ravvisino profili di responsabilità a carico dello Stato.

La sentenza esaminata nel contributo in commento è resa dalla Corte di Giustizia (Grande Sezione) in data 22 dicembre 2022 C-61/21 ed affronta un caso di responsabilità dello stato per l'inquinamento dell'aria, all'esito del quale la Corte ha sancito il principio per il quale le direttive europee che stabiliscono norme per la qualità dell'aria ambiente non sono, in quanto tali, preordinate a conferire ai singoli diritti la cui violazione possa dare loro diritto a un risarcimento.

La direttiva in questione è la 2008/50/CE, la quale, secondo la prospettazione della parte ricorrente, era da interpretare nel senso che essa attribuisce ai singoli, in caso di violazione sufficientemente qualificata da parte di uno Stato membro, degli obblighi che derivano da tale atto, un diritto ad ottenere dal medesimo Stato il risarcimento dei danni causati alla loro salute che presentano un nesso di causalità diretto e certo con il deterioramento della qualità dell'aria.

La Corte adita, tuttavia, con condivide l'impianto interpretativo.

Come condivisibilmente osservato dall'autore del contributo, "la questione non rappresenta una novità assoluta. Essa si pone nel solco di una serie di <<liti strategiche>> davanti agli organi giurisdizionali di vari Paesi europei, nelle quali lo Stato è stato chiamato quale responsabile della tutela dell'ambiente, spesso nella prospettiva di pervenire i cambiamenti climatici. In sostanza queste pronunce hanno finito per ribadire l'obbligo dello Stato di adottare le misure necessarie a ridurre il livello di inquinamento, ancorandolo perlopiù al rispetto dei valori-limite fissati per l'emissione di sostanze nocive nelle direttive dell'Unione Europea".

Da tale presupposto si ricava, confrontando le disposizioni normative, che lo Stato è tenuto innanzitutto a rimuovere le cause dell'accertata lesione attraverso misure generali o individuali; solo secondariamente ed eventualmente, qualora l'accertamento della violazione non sia ritenuto sufficiente, al pagamento di un ristoro equitativamente determinato.

Tale compensazione, prosegue l'autore del contributo, "svolge un ruolo integrativo e sussidiario"; il principio che si ricava dalla pronuncia è il seguente: "la disciplina europea applicabile non è preordinata a conferire diritti ai singoli in relazione ai quali possa riconoscersi un risarcimento a carico dello Stato membro, a titolo di responsabilità per i danni causati da violazioni del diritto dell'Unione ad esso imputabili".

La sentenza ed il principio sopra richiamati consentono di svolgere alcune riflessioni relative al diritto interno.

La prima, che certamente permangono dubbi sulla reale portata del diritto all'ambiente, configurabile "d'incerta definizione", anche in termini di posizione giuridica soggettiva.

La seconda, che per i danni causati ai singoli il ruolo chiave è svolto da ciascuno Stato membro, nei confronti dei quali i soggetti interessati possono ottenere, eventualmente dinanzi alle Autorità giudiziarie competenti, l'adozione delle misure richieste dalle direttive europee, compresa la predisposizione di piani di tutela particolari.

(Adamo, Il diritto a respirare aria pulita non supera l’esame dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea)


La potestà legislativa in materia ambientale.

Recentemente l'art. 208 del Testo unico dell'ambiente, relativo al procedimento per il rilascio di provvedimenti autorizzativi per l'esercizio di attività nel settore ambientale, dei rifiuti in particolare, ha subito una battuta d'arresto non indifferente a causa di una pronuncia della Corte Costituzionale, cui la giurisprudenza amministrativa si è dovuta adeguare.

La complessità dell'argomento è stata oggetto di una precedente news consultabile a questo link.

Si consideri che l’art. 208 del d.lgs. n. 152/2006 e s.m.i. dispone che “i soggetti che intendono realizzare e gestire nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, devono presentare apposita domanda alla regione competente per territorio, allegando il progetto definitivo dell’impianto e la documentazione tecnica prevista per la realizzazione del progetto stesso”.

La previsione normativa, dunque, attribuisce alle sole Regioni la competenza ad autorizzare la realizzazione di impianti di smaltimento rifiuti, ivi inclusi gli impianti di autodemolizione.

Nella prassi è accaduto che, all'indomani dell' entrata in vigore del Codice dell'ambiente, molte regioni abbiano delegato il rilascio dei titoli autorizzativi agli enti sub-statali, quali Province e, come la Regione Lazio, ai Comuni per le attività specifiche di approvazione dei progetti degli impianti per lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti provenienti dalla demolizione degli autoveicoli a motore e di smaltimento e recupero dei predetti rifiuti.

Con la sentenza n. 189/2021 pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 13 ottobre 2021, la Corte Costituzionale, nel dichiarare incostituzionale la normativa regionale (laziale, in particolare) che delegava ai Comuni la funzione amministrativa, ha, quindi, caducato con effetti erga omnes nonché retroattivamente - dal 29 aprile 2006, data di entrata in vigore del Codice dell’ambiente - la previsione normativa che assegna ai Comuni il potere di autorizzare l’attività di autodemolizione, degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti in particolare.

Orbene, la pronuncia della Corte (consultabile integralmente a questo link) appare rilevante in quanto la Corte, ritenendo fondata la questione di legittimità costituzionale prospettata, ha chiarito che "La potestà legislativa esclusiva nelle materie indicate nell’art.  117, secondo comma, Cost. comporta la legittimazione del solo legislatore nazionale a definire l’organizzazione delle  corrispondenti funzioni amministrative anche attraverso l’allocazione di competenze presso enti diversi dai Comuni – ai quali  devono ritenersi generalmente attribuite secondo il criterio espresso dall’art. 118, primo comma, Cost. – tutte le volte in cui l’esigenza di esercizio unitario della funzione trascenda tale ambito territoriale di governo. Il principio di legalità, quale canone fondante dello Stato di diritto, impone che le funzioni amministrative siano organizzate e regolate mediante un atto legislativo, la cui adozione non può che spettare all’ente – Stato o Regione, «secondo le rispettive competenze» (art. 118, secondo comma, Cost.) – che ha inteso dislocare la funzione amministrativa in deroga al criterio generale che ne predilige l’assegnazione al livello comunale".

Orbene, sulla base di tali premesse, il Giudice amministrativo laziale, interrogandosi sulla portata della pronuncia costituzionale intervenuta in materia, ha specificato che " Se, dunque, in linea generale, la legittimità di un provvedimento va verificata con riferimento alla normativa vigente alla data della sua emanazione, tuttavia, quando nel corso del giudizio sopraggiunga una sentenza di incostituzionalità della norma sulla cui base il provvedimento impugnato è stato adottato, lo stesso deve essere annullato, costituendo il sopravvenuto accertamento della incostituzionalità della norma profilo invalidante l’atto stesso".

In ragion delle deduzioni svolte, il Tar, dovendosi esprimere sulla richiesta risarcitoria avanzata dal ricorrente, ha concluso nei seguenti termini: "... sono riscontrabili i presupposti affinché questo Collegio accerti l’illegittimità del provvedimento gravato (sulla base della sentenza della Corte Costituzionale n. 189/2021), di autorizzazione provvisoria allo svolgimento dell’attività di autodemolizione, atteso che la presente controversia era ancora pendente alla data di pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale e la questione di costituzionalità è rilevante nel caso de quo in quanto finisce per investire la norma di legge regionale su cui poggia il provvedimento stesso ...".

Prescindendo dal contenuto proprio della pronuncia qui in commento, non può negarsi l'importanza della sentenza della Corte che giunge a ridefinire l'ambito dei procedimenti amministrativi ambientali in un contesto in cui le competenze dovrebbero essere allocate al soggetto pubblico immediatamente "prossimo" al cittadino/imprenditore, in luogo di quello regionale che, viceversa, potrebbe apparire "disattendo" agli aspetti ambientali intangibili della comunità locale.

(Tar Lazio Sez. II stralcio, 17 gennaio 2023, n. 850)


Gli appalti socialmente responsabili: le indicazioni operative di ANAC.

Gli appalti socialmente responsabili sono un tema più che attuale.

In materia di pari opportunità tra uomo e donna il legislatore nazionale, con il decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, ha voluto riunire e coordinare in un unico testo normativo le disposizioni vigenti per la prevenzione e rimozione di ogni forma di discriminazione fondata sul sesso.

L'impianto normativo ha assunto le vesti di un vero e proprio codice denominato "Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246".

Si è trattato di un importante traguardo verso il godimento e l'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile e in ogni campo con l'obiettivo di superare e rimuovere qualsivoglia forma di discriminazione.

A distanza di qualche anno, con la legge 5 novembre 2021, n. 162, sono state apportate modifiche al codice, specie per ciò che concerne la certificazione della parità di genere, prevista a decorrere dal 1 gennaio 2022 secondo un regime differenziato del numero degli occupati in aziende pubbliche e private. indispensabile "al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale e parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità".

Orbene, le previsioni normative non potevano produrre effetti nel settore degli appalti pubblici.

Per tale ragione, l'Autorità Nazionale Anticorruzione, nell’esercizio delle attività istituzionali di competenza, ha ritenuto opportuno fornire indicazioni interpretative e suggerimenti specifici alle stazioni appaltanti per l’attuazione dell'obbligo da ultimo introdotto.

Ciò al fine di favorire la corretta ed uniforme applicazione della norma, con particolare riferimento al rispetto dei principi di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza e proporzionalità, conclamati dal legislatore.

L'Autorità ha osservato che la disposizione in esame costituisce attuazione della normativa comunitaria e nazionale sugli appalti socialmente responsabili che mira al conseguimento di impatti sociali positivi nei contratti pubblici, promuovendo opportunità di lavoro, il miglioramento del livello di competenze e la riqualificazione della forza lavoro, condizioni di lavoro dignitose, l’inclusione sociale, la parità di genere e la non discriminazione, l’accessibilità, il commercio etico, nonché un più ampio rispetto degli standard sociali.

L’articolo 5 della legge 162/2021 stabilisce che "Compatibilmente con il diritto dell'Unione europea e con i principi di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza e proporzionalità, le amministrazioni aggiudicatrici indicano nei bandi di gara, negli avvisi o negli inviti relativi a procedure per l'acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere i criteri premiali che intendono applicare alla valutazione dell'offerta in relazione al possesso da parte delle aziende private, alla data del 31 dicembre dell'anno precedente a quello di riferimento, della certificazione della parità di genere".

La previsione si inserisce, dunque, anche all'interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza, essendo previsto un esplicito rafforzamento del sistema di certificazione della parità di genere mediante l'introduzione di alcuni correttivi al codice dei contratti pubblici.

In particolare:
a) all’articolo 93, comma 7, si prevede che il possesso della certificazione della parità di genere è tra le condizioni per  l’ottenimento della riduzione del 30 per cento dell’importo della garanzia provvisoria, nei contratti di servizi e forniture;
b) all’articolo 95, comma 13, è prevista l'adozione di politiche tese al raggiungimento della parità di genere di cui all'articolo 46-bis del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 tra le circostanze che consentono l’attribuzione di un maggior punteggio in sede di valutazione dell’offerta.
Sulla base di tali previsioni, l'Autorità Nazionale Anticorruzione ha osservato che "le stazioni appaltanti dovranno indicare negli avvisi e nei bandi di gara i criteri premiali che intendono applicare con riferimento all’adozione di politiche tese al raggiungimento della parità di genere, nonché le modalità di dimostrazione del requisito. Detti criteri devono essere individuati nel rispetto dei principi comunitari di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza e proporzionalità. Un valido strumento di riferimento per le stazioni appaltanti è rappresentato dalla «Guida considerazione degli aspetti sociali negli appalti pubblici (seconda edizione)» elaborata dalla Commissione europea (2021/C 237/01). Tale documento fornisce esempi di strategie organizzative e di criteri di aggiudicazione sociale utilizzabili al fine di stimolare il mercato a fornire risultati socialmente più responsabili".

L'argomento della parità di genere è uno dei più controversi, non a caso ne abbiamo discusso in precedenza (a questo link è possibile consultare una precedente news sul tema).

Quanto agli aspetti propri amministrativi, ciò che ci si aspetta dalla previsione normativa è certamente di conseguire, in tempi rapidi, un'uguaglianza di genere sostanziale, non solo in termini occupazionali, ma anche (e soprattutto) negli organi delle società pubbliche; se il legislatore ha inteso introdurre strumenti di attuazione della parità di genere, ciò che è mancata è stata una previsione sanzionatoria che, nel breve periodo, avrebbe certamente condotto a risultati eccellenti nell'ambito dell'inclusione lavorativa.

(Comunicato del Presidente ANAC 30.11.2022)


proroga tecnica

La proroga tecnica: l'eccezionalità dell'istituto.

proroga tecnica

Non vi sono dubbi: le regole poste a presidio della concorrenza nell'affidamento degli appalti pubblici non ammettono alcuna limitazione, anche nell'ipotesi in cui si verifichi una dilatazione della tempistica per la predisposizione dei documenti di gara che determini l'utilizzo dell'istituto della proroga tecnica.

Come ben si sa, l'istituto della proroga tecnica dei contratti pubblici assume un carattere eccezionale e di temporaneità, essendo uno strumento finalizzato ad assicurare lo svolgimento di una prestazione in favore dell'Amministrazione committente ammissibile nelle more dell'espletamento di una nuova procedura di gara.

Sull'argomento delle proroghe tecniche ci siamo già soffermati in una precedente news con la quale è stata analizzata una pronuncia dell'Autorità Nazionale Anticorruzione (qui il link per una consultazione integrale).

La ragione della prosecuzione della prestazione da parte del medesimo contraente è da rinvenire nella necessità che sia assicurato lo svolgimento del servizio fino all'individuazione del nuovo contraente a valle della procedura selettiva; deve trattarsi, dunque, di un contratto di durata.

Tuttavia, il reiterato utilizzo dell'istituto si traduce in una vera e propria fattispecie di affidamento senza procedura ad evidenza pubblica che potrebbe comportare la violazione dei principi generali di libera concorrenza e di par condicio posti a presidio dell'evidenza pubblica.

L'Autorità Nazionale Anticorruzione ha da sempre assunto un'interpretazione rigida dell'applicabilità della proroga tecnica, ritenendo legittimo l'utilizzo di tale strumento solo ed esclusivamente in casi eccezionali.

Certamente, ove la proroga tecnica sia utilizzata all'interno di una procedura selettiva la cui tempistica sia stata intenzionalmente dilatata, secondo l'Autorità, tale circostanza non risulta in linea con i principi di efficacia e tempestività di cui all'art. 30, Codice dei contratti pubblici, nonché con il principio di buon andamento sancito dall'art. 97 della Costituzione.

La questione qui in commento verte proprio su di una vicenda affrontata dall'Autorità insorta allorquando l'Amministrazione committente disponeva molteplici proroghe tecniche nei confronti di un raggruppamento di imprese aggiudicatario di servizi di raccolta e smaltimento rifiuti, giustificando tale proroga con la necessità di garantire l'esecuzione dei servizi in attesa dell'esperimento della nuova procedura di gara ovvero della definizione dei contenziosi pendenti.

A rigor del vero, l'Amministrazione indiceva le procedure (complesse, stante la natura del servizio oggetto dell'appalto e la normativa di settore eccessivamente stratificata) per l'individuazione del nuovo contraente; tuttavia, ad alcune di esse nessun operatore ne prendeva parte.

Nel richiamare la normativa di settore, specificatamente quella della proroga tecnica e dei relativi ambiti applicativi, l'Autorità ha acclarato che "la proroga tecnica abbia [ha] carattere eccezionale e di temporaneità, essendo uno strumento volto esclusivamente ad assicurare una data prestazione in favore della pubblica amministrazione, nel passaggio da un regime contrattuale ad un altro".

Nel motivare tale decisione, l'Autorità ha rilevato che "L’Autorità e la giurisprudenza hanno ... individuato alcune ristrettissime ipotesi nelle quali la proroga può ritenersi ammessa, in ragione del principio di continuità dell’azione amministrativa, restringendo però tale possibilità a casi limitati ed eccezionali nei quali, per ragioni obiettivamente non dipendenti dall’amministrazione, <<vi sia l’effettiva necessità di assicurare precariamente il servizio nelle more del reperimento, con le ordinarie procedure, di un nuovo contraente, in casi di oggettivi e insuperabili ritardi nella conclusione della nuova gara non imputabili alla Stazione Appaltante>>".

Trattasi di principi condivisibili e che, nondimeno, si pongono in linea con quelli generali consacrati nel Codice dei contratti pubblici.

Tuttavia, è ragionevole ritenere che l'approccio dell'Autorità sconti un'evidente interpretazione eccessivamente restrittiva: non può dubitarsi che nel caso qui affrontato, l'Autorità (per il tramite degli Organi giudiziari) abbia constatato una vera inefficacia organizzativa dell'Amministrazione, in particolare nella fase di redazione degli atti di gara, ma è altrettanto vero che il servizio di cui si discute (smaltimento dei rifiuti speciali) e la particolare veste giuridica assunta dall'Ente (Azienda sanitaria) avrebbe potuto comportare un più ampio margine interpretativo dell'applicabilità della proroga tecnica, specie allorquando vengono in rilievo principi ugualmente rilevanti a livello costituzionale (quello della tutela dell'ambiente e della salute), il cui confronto con i corrispondenti amministrativi non è mai di facile soluzione.

(Autorità Nazionale Anticorruzione, delibera n. 535 del 16.11.2022)