Il divieto di abbandono dei rifiuti ex art. 192 del Codice dell’ambiente ed il ripristino ambientale.

La questione dell’abbandono incontrollato di rifiuti e degli obblighi di ripristino ambientale che gravano sul responsabile costituiscono un tema sempre attuale alla luce del quadro particolarmente complesso della disciplina della gestione dei rifiuti e, in generale, di quella ambientale.

In questa precedente news, in tema ambientale, è stata affrontata la questione dei lavori di bonifica (intesa quale operazione complessa di ripristino ambientale), analizzando gli aspetti amministrativi della partecipazione ad una procedura ad evidenza pubblica.

Il caso che qui si esamina verte, in particolare, su di un’ordinanza di smaltimento di un deposito d rifiuti; la particolarità sta nel fatto che il destinatario di tale provvedimento amministrativo è la Curatrice fallimentare della società fallita, la quale impugna innanzi al Tribunale amministrativo prima, al Consiglio di di Stato poi, l’ordine di rimozione dei rifiuti asserendo l’insussistenza di un obbligo di rimozione.

La questione giunge innanzi all’Adunanza plenaria su richiesta del Consiglio di Stato al fine di chiarire se a seguito della dichiarazione di fallimento perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192, d.lgs. 152/2006, pur se il curatore fallimentare gestisce in proprio il patrimonio del bene della società fallita e ne ha disponibilità materiale.

Al di là del caso specifico e degli aspetti che abbracciano anche la disciplina fallimentare, degli obblighi giuridici cui era tenuta la società fallita in particolare,, il Giudice amministrativo opera una ricostruzione dell’istituto dell’abbandono dei rifiuti in guisa con i principi ambientali, prevenzione e responsabilità in particolare, di derivazione europea.

L’art. 192 del Codice dell’ambiente sancisce il divieto generale di abbandono dei rifiuti, anche nell’ipotesi di deposito incontrollato di materiali sul suolo e nel suolo; la violazione del divieto comporta, oltre all’applicazione delle sanzioni ivi previste, l’obbligo della rimozione all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi . La previsione legislativa prevede che il sindaco provvede con ordinanza alle operazioni necessarie, fissando il termine entro cui provvedere, decorso il quale si procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate.

Detta disposizione prevede una cd. esimente “interna”, dovendosi configurare una responsabilità nei casi in cui la violazione dell’obbligo sia imputabile a titolo di dolo o colpa.

In estrema sintesi, dunque, al generale divieto di abbandono e di deposito incontrollato la legge riconnette gli obblighi di rimozione, di avvio al recupero oppure smaltimento ed il ripristino dello stato dei luoghi.

Prescindendo dalla sfera soggettiva sul quale grava l’obbligo, la soluzione alla questione passa necessariamente dall’enunciazione del principio, di derivazione comunitaria, in forza del quale, per la salvaguardia dell’ambiente, i rifiuti devono essere rimossi quando è cessata l’attività che li ha originati.

Si tratta, in questo caso, di stabilire su quale soggetto grava l’obbligo di rimozione, nell’ipotesi in cui l’imprenditore sia fallito e la gestione del patrimonio sia sottoposta ad un curatore.

Orbene, il giudice amministrativo muove le considerazioni distinguendo tra il soggetto che ha prodotto materialmente i rifiuti, da colui che ne abbia materialmente acquisita la detenzione o la disponibilità giuridica, prescindendo dalla natura giuridica del titolo sottostante.

Muovendo dal principio “chi inquina paga”, che costituisce regola generale in materia ambientale, nonché dalla normativa comunitaria, si è solito affermare che i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti.

L’iter motivazionale appare appare complesso, ma al contempo, rispondente al nesso di causalità tra condotta e danno contestato: “… poiché l’abbandono di rifiuti e, più in generale, l’inquinamento, costituiscono ‘diseconomie esterne’ generate dall’attività di impresa (cd. “esternalità negative di produzione”), appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell’imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell’ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento. Seguendo invece la tesi contraria, i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il principio comunitario “chi inquina paga”,

Da tale assunto, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato giunge a fissare il principio secondo il quale sia logico ritenere che ricada sulla curatela fallimentare “l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152-2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare“.

(Cons. St. Ad. Plen. 26.1.2021, n. 3)