periodo di prova

Dispositivi medici: è legittima la clausola del bando che prevede un periodo di prova?

periodo di provaDispositivi medici: è legittima la clausola del bando che prevede un periodo di prova?

Nei contratti di fornitura, in particolare quelli che hanno ad oggetto dispositivi medici, l’Amministrazione tende a subordinare il perfezionamento del contratto all’esito positivo di un periodo di prova.

Nell’ambito dei contratti pubblici tale meccanismo provoca non poche criticità, in particolare riguardo alla sua portata e alle conseguenze che può generare: se possa legittimare il recesso dal contratto o anche la revoca dell’aggiudicazione, e se costituisca una condizione di efficacia dell’aggiudicazione stessa o solo una condizione sospensiva del contratto.

Il tema è stato trattato anche da una recente sentenza della Corte d'Appello di Brescia.

Protagonista della vicenda è una società aggiudicataria di un appalto pubblico per la fornitura di alcuni dispositivi medici, destinate a diverse aziende sanitarie, per un valore complessivo di oltre 700.000 euro.

Il disciplinare di gara prevedeva un periodo di prova della durata di sei mesi, per consentire una valutazione più ampia e complessiva del rapporto, al termine della quale l’Amministrazione avrebbe deciso se confermare o meno la fornitura, in base all’esito del test. In caso di esito negativo del periodo di prova, l'Amministrazione si riservava il diritto di recedere dalla fornitura, comunicando la decisione all’appaltatore con un preavviso di 15 giorni e fornendo adeguata motivazione.

Durante la fase di prova, tuttavia, furono segnalate numerose problematiche nel funzionamento dei dispositivi da parte degli operatori sanitari, i quali avevano segnalato anche delle problematiche per i pazienti. Nonostante la società fornitrice avesse dichiarato la propria disponibilità a intervenire e risolvere i problemi, l’Amministrazione ritenne insoddisfacente l’esito del periodo di prova, revocando l’aggiudicazione e affidando la fornitura al secondo classificato.

In giudizio, la società aveva contestato l’operato dell’Amministrazione, sostenendo che la revoca dell’aggiudicazione fosse del tutto ingiustificata, illegittima e contraria ai principi di buona fede.

Secondo la società, i dispositivi, ampiamente diffusi sul mercato e in uso da parte di altri enti sanitari, non avevano i difetti lamentanti e non erano stati correttamente utilizzati dal personale sanitario. Inoltre, il periodo di prova era stato condotto su un numero limitato di dispositivi rispetto a quelli forniti, e quindi non poteva considerarsi rappresentativa. Infine, sottolineava che i dispositivi avevano ricevuto una valutazione positiva dalla commissione tecnica durante la gara di appalto. Secondo la società, peraltro, non poteva parlarsi di revoca dell’aggiudicazione, bensì di recesso unilaterale dal contratto da parte dell’Amministrazione.

A fronte di queste circostanze, la società fornitrice aveva avanzato anche una richiesta di risarcimento dei danni per le spese d’appalto sostenute, investimenti non ammortizzati e perdita di utile per la mancata esecuzione del contratto.

L'amministrazione costituita in giudizio aveva invece sostenuto che la revoca dell'aggiudicazione dell'appalto era legittima in quanto basata sull'esito negativo del periodo di prova, previsto dal disciplinare di gara. Durante questa fase di test, i dispositivi forniti dalla società erano stati oggetto di molteplici segnalazioni di malfunzionamento. I problemi erano stati immediatamente segnalati alla società fornitrice, che, sebbene avesse riconosciuto l'esistenza di un lotto difettoso, non era riuscita a risolvere le criticità rilevate. Pertanto, dopo una serie di comunicazioni e tentativi di risoluzione, l'esito del periodo di prova era stato ritenuto insoddisfacente, portando alla decisione di revocare l’aggiudicazione e affidare la fornitura alla seconda classificata.

Il Tribunale di primo grado aveva rigettato la domanda dell’attrice, sostenendo che il periodo di prova previsto nel contratto di appalto serviva a consentire una valutazione globale della fornitura, assicurando alla stazione appaltante la possibilità di recedere nel caso in cui i dispositivi non avessero risposto adeguatamente alle esigenze pratiche. Secondo il Tribunale, il periodo di prova non implicava il sorgere di diritti e obblighi tipici della fase esecutiva del contratto, bensì introduceva una fase preliminare di verifica della funzionalità e dell'idoneità del prodotto.

Inoltre, il Tribunale aveva affermato che il diritto di recesso poteva essere esercitato durante il periodo di prova senza l'obbligo di attendere la sua conclusione, a patto che la motivazione fosse adeguata. In questo caso, il recesso era stato motivato dalle numerose segnalazioni di malfunzionamenti dei dispositivi forniti dall’attrice, confermate sia dalla documentazione che dalle testimonianze raccolte, che rendevano i dispositivi non conformi agli standard richiesti per l'uso in contesti ospedalieri.

Infine, il Tribunale aveva negato il risarcimento richiesto dall'attrice, sulla base del fatto che il recesso era stato motivato da un esito negativo del periodo di prova, e non da un inadempimento contrattuale o da difetti occulti del prodotto.

La Corte d'Appello di Brescia ha confermato la decisione del Tribunale di primo grado, ritenendo legittimo il recesso esercitato dall'azienda sanitaria durante il periodo di prova.

La Corte ha evidenziato che il periodo di prova era stato stabilito per consentire una valutazione complessiva della funzionalità del prodotto rispetto alle esigenze sanitarie, e non per verificare eventuali difetti tecnici. La decisione di recesso, quindi, non richiedeva un riscontro specifico di vizi o difetti del dispositivo, ma solo la valutazione se esso fosse idoneo alle finalità richieste.

La ratio del periodo di prova, spiega il Collegio, è strettamente collegata alla necessità di tutela dell'interesse collettivo. In particolare, la Corte ha osservato che il periodo di prova è uno strumento previsto nella disciplina dei contratti pubblici per garantire che la pubblica amministrazione possa valutare l'idoneità dei beni o servizi forniti rispetto agli obiettivi e agli standard richiesti, con l'obiettivo di raggiungere risultati qualitativi elevati e di evitare un uso inefficiente delle risorse pubbliche.

Nel caso specifico, il periodo di prova di sei mesi era stato inserito per verificare se i dispositivi sanitari forniti dall'appaltatore fossero funzionali e rispondessero agli standard necessari per garantire il diritto alla salute degli utenti in un contesto pratico.

La Corte ha poi sottolineato che il periodo di prova attribuisce all'Amministrazione una maggiore discrezionalità nella valutazione dell'idoneità del prodotto, poiché essa ha l'onere di assicurare che i dispositivi forniti siano adeguati e rispondano ai requisiti di funzionalità necessari per l'uso ospedaliero. Non si tratta, quindi, di rilevare difetti specifici, che avrebbe dovuto condurre ad una risoluzione del contratto, ma di operare un giudizio ampio e discrezionale sull’idoneità complessiva del prodotto rispetto all'uso previsto.

La decisione in commento solleva interrogativi sulla legittimità dell’uso del periodo di prova nei contratti pubblici, soprattutto considerando che, nella fase di gara, l’Amministrazione ha già svolto una valutazione preliminare dei prodotti offerti dai concorrenti.

Durante la fase dell’evidenza pubblica, infatti, l’Amministrazione è tenuta a valutare in modo approfondito le proposte tecniche dei partecipanti, attraverso una commissione giudicatrice composta da esperti, assicurandosi che i prodotti siano conformi alle specifiche tecniche e ai requisiti qualitativi stabiliti nel bando. Questa valutazione preliminare non si limita ai soli documenti e certificazioni, ma spesso include un esame della campionatura per verificare concretamente le caratteristiche e la funzionalità dei dispositivi offerti.

In questa fase, dunque, l'Amministrazione ha già avuto l'opportunità di verificare direttamente l'idoneità del dispositivo alla sua destinazione d’uso. L’introduzione di un periodo di prova successivo, dunque, non dovrebbe trasformarsi in un nuovo esame dell’idoneità tecnica. Al contrario, tale fase dovrebbe essere limitata alla rilevazione di eventuali criticità operative specifiche, senza rimettere in discussione la conformità tecnica già accertata.

Il rischio, infatti, è quello di compromettere il legittimo affidamento del fornitore che, all’esito della gara, confida nella stabilità della valutazione espressa e investe risorse e tempo per adempiere agli obblighi contrattuali. Consentire all’Amministrazione di rivedere la valutazione tecnica attraverso un periodo di prova, con possibilità di recesso per ragioni già verificate, può configurarsi come una violazione del principio di tutela dell’affidamento.

Corte d’appello Brescia, Sez. II, 29.7.2024, n. 792

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accesso e inoppugnabilità

Accesso e inoppugnabilità dell’aggiudicazione: quale regime nel nuovo codice dei contratti pubblici?

inoppugnabilità dell’aggiudicazioneAccesso e inoppugnabilità dell’aggiudicazione: quale regime nel nuovo codice dei contratti pubblici?

La sentenza del TAR Campania, Salerno, sez. II, 25 settembre 2024, n. 1721 fornisce alcune precisazioni sui termini per impugnare l’aggiudicazione nel nuovo codice, alla luce delle novità relative alla disciplina sulla trasparenza e l’accesso agli atti.

La vicenda

Un operatore economico, ha partecipato a una gara per l’affidamento dei lavori di manutenzione straordinaria. Al termine della procedura, l’operatore riceve la comunicazione di rito dalla stazione appaltante: l’offerta di un’altra impresa è stata preferita alla sua, pertanto, l’operatore è risultato secondo classificato.

In base a quanto previsto dall’art. 36, d.lgs. 36/2023, nella comunicazione dell’aggiudicazione la stazione appaltante inserisce anche il link per accedere alla pagina della piattaforma dove sono accessibili gli atti della procedura. Sennonché, in quella sede manca l’offerta dell’impresa aggiudicataria. Pertanto, sette giorni dopo aver ricevuto la comunicazione dell’aggiudicazione, l’operatore secondo classificato formula un’istanza di accesso per poter controllare anche l’offerta presentata dall’impresa aggiudicataria.

La risposta della stazione appaltante si fa attendere per quasi un mese e, soltanto una volta trascorsi ventotto giorni dall’istanza di accesso, l’amministrazione consegna l’offerta dell’aggiudicatario al secondo classificato. A questo punto, però, sembrerebbero spirati i termini per impugnare l’aggiudicazione.

L’operatore economico decide però comunque di ricorrere al T.A.R. per chiedere l’annullamento dell’aggiudicazione e la declaratoria di inefficacia del contratto

La decisione

Il T.A.R. rigetta il ricorso ma, per farlo, esamina preliminarmente il tema della tempestività del ricorso, sviluppando alcune considerazioni di interesse per il nuovo codice.

Il Tribunale constata innanzitutto che, in base all’art. 120 c.p.a., il termine per impugnare decorre, per il ricorso principale ed i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 90 del d.lgs. 36/2023 oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, ai sensi dell’art. 36, commi 1 e 2, del codice. Alla luce di ciò, la decorrenza del termine per ricorrere funziona diversamente, a seconda che il dies a quo coincida con la comunicazione ex art. 90 oppure con l’esibizione degli atti ai sensi dell’art. 36 del codice.

 

 

Chiariti questi punti, il Tribunale richiama la giurisprudenza formatasi sotto al vecchio codice, i cui esiti principali sono sfociati nell’Adunanza Plenaria 12/2020. In base a tale indirizzo, la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la dilazione temporale solamente quando la conoscenza dei documenti richiesti sia necessaria per formulare i motivi di ricorso, mentre quando tale conoscenza non sia necessaria il ricorso deve essere notificato nel termine ordinario di trenta giorni.

Da un punto di vista operativo, il Consiglio di Stato ha recentemente precisato che “a fronte di una tempestiva istanza d’accesso, formulata entro 15 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione, il termine per proporre ricorso (il cui dies a quo coincide con la data di comunicazione del provvedimento d’aggiudicazione ex art. 120, comma 5, c.p.a.), viene incrementato nella misura di 15 giorni, così pervenendo a un’estensione complessiva pari a 45 giorni” (Cons. Stato, Sez. V, 27.3.2024, n. 2882,)

Su queste premesse, il Tribunale ritiene che il ricorso proposto dalla seconda classificata sia tempestivo, dal momento che, da un lato, l’offerta dell’aggiudicataria è stata esibita in ritardo dalla stazione appaltante e, dall’altro lato, “la conoscenza degli atti ulteriori e diversi, richiesti con l’istanza di accesso, era necessaria ai fini della prospettazione dei motivi di ricorso”.

 

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avvalimento di garanzia

Avvalimento di garanzia: qual è il riferimento normativo nel d.lgs. 36/2023?

Avvalimento di garanzia: qual è il riferimento normativo nel d.lgs. 36/2023?

Con una recente sentenza, il TAR Liguria Sez. I, 25 giugno 2024, n. 462, accende un focus sul tema dell’avvalimento di garanzia e sulla sua validità dell’istituto all’interno dell’attuale codice dei contratti pubblici.

Come noto, l’art. 104 d.lgs. 36/2023 non contiene più la distinzione tra avvalimento di garanzia e avvalimento operativo, generando dubbi sul riferimento normativo corretto per considerare ammissibile l’avvalimento di garanzia.

La sentenza in commento sul punto offre dei chiarimenti molto importanti.

Partiamo dal caso.

Una società seconda classificata ha impugnato l’aggiudicazione di un appalto pubblico per la fornitura di materiali in carta a enti sanitari, lamentando:

  • Il difetto del requisito “tecnico” del fatturato specifico richiesto;
  • La nullità del contratto di avvalimento, privo dell’indicazione delle risorse messe a disposizione e del requisito del corrispettivo.

I Giudici hanno tuttavia ritenuto infondate le predette eccezioni.

In primis, i giudici hanno ricordato che, sulla scorta della giurisprudenza elaborata sotto la vigenza del precedente Codice dei contratti pubblici d.lgs. 50/2016, è possibile distinguere due tipologie di avvalimento:

  • quello “tecnico-operativo” finalizzato a mettere a disposizione i requisiti tecnico-organizzativi, per il quale è necessaria l’indicazione specifica delle dotazioni tecniche, strumentali e delle risorse umane prestate;
  • quello “di garanzia” finalizzato a mettere a disposizione la capacità economico-finanziaria dell’impresa ausiliaria, senza necessità di messa a disposizione (e, quindi, di specifica indicazione) delle risorse tecniche, strumentali ed umane, in quanto logicamente configurabili al solo avvalimento operativo.

Rispetto al precedente art. 89 del d.lgs. 50/2016, l’attuale art. 104 del d.lgs. 36/2023 presenta una definizione più limitata di avvalimento, escludendo la tipologia “di garanzia”. Infatti, l’art. 104, comma 1, definisce l’avvalimento come “il contratto con il quale una o più imprese ausiliarie si obbligano a mettere a disposizione di un operatore economico che concorre in una procedura di gara dotazioni tecniche e risorse umane e strumentali per tutta la durata dell’appalto”. Questa definizione sembra riferirsi solo all’avvalimento operativo.

La definizione fornita, dunque, sembra riferirsi al solo avvalimento operativo e non all’avvalimento di garanzia.

Di qui la domanda: è ancora ammissibile l’avvalimento di garanzia nel d.lgs. 36/2023?

Secondo il collegio, in effetti, l’avvalimento di garanzia non è più contemplato nel d.lgs. 36/2023. Tuttavia, l’espunzione dell’avvalimento di garanzia dall’art.  104 del nuovo Codice non ne comporta l’inapplicabilità, atteso che la Direttiva appalti n. 2014/24/UE (di cui anche il D.lgs. n. 36/2023 è attuativo) prevede lo strumento equipollente del contratto di “affidamento”.

Infatti tale direttiva stabilisce:

- All’art. 58, comma 3, che le amministrazioni aggiudicatrici possono imporre requisiti di capacità economica e finanziaria agli operatori economici, richiedendo un fatturato minimo annuo generico e specifico nel settore dell'appalto.

- All’art. 63, che gli operatori economici possono affidarsi alle capacità di altri soggetti per soddisfare i criteri di capacità economica e finanziaria, con la possibilità che entrambi siano solidalmente responsabili dell’esecuzione del contratto.

Pertanto, l’avvalimento di garanzia per acquisire requisiti economico-finanziari non posseduti dall’operatore economico è ammesso.

Ritornando al caso di specie, il disciplinare di gara stabiliva che per conseguire i requisiti di capacità tecnica non fosse necessaria la messa a disposizione di risorse umane o strumentali, ma solo il possesso del fatturato specifico prodotto nel triennio precedente.

Il nodo da sciogliere, secondo i giudici, è se il fatturato specifico costituisce un requisito tecnico o economico-finanziario.

Ed infatti, se il fatturato specifico costituisce requisito tecnico, l’eventuale contratto di avvalimento avrebbe natura “operativa” e, quindi, richiederebbe l’effettiva messa a disposizione delle risorse umane, materiali e tecniche specificamente individuate. Diversamente, invece, se il fatturato venisse qualificato come requisito economico-finanziario, l’avvalimento avrebbe natura “di garanzia” e prescinderebbe dalla specificazione delle risorse umane e materiali messe a disposizione.

Secondo la giurisprudenza, tuttavia, il fatturato specificova qualificato come requisito di carattere economico-finanziario e non come risorsa tecnica, atteso che l'art. 83 comma 4 lett. a) del d.lgs. n. 50 del 2016, stabilisce che, ai fini della verifica del possesso dei requisiti di capacità economica e finanziaria, le stazioni appaltanti, nel bando di gara, possono richiedere “che gli operatori economici abbiano un fatturato minimo annuo, compreso un determinato fatturato minimo nel settore di attività oggetto dell'appalto” (Cons. St., 19.7.2018, n. 4396).

Di conseguenza, il contratto di avvalimento stipulato dalla controinteressata nel caso di specie andava correttamente ascritto alla species dell’avvalimento o affidamento di garanzia e non a quello operativo, con conseguente necessità di messa a disposizione del solo requisito del fatturato specifico mancante, senza indicazione delle risorse umane e strumentali.

In merito all’onerosità del contratto, invece, i giudici hanno precisato che è ben possibile che le parti optino per non prevedere un corrispettivo in favore dell'ausiliaria, ove il negozio sia sorretto da un interesse, direttamente o indirettamente patrimoniale, che abbia indotto l'ausiliaria ad assumere gli obblighi derivanti dal contratto e le connesse responsabilità. Ebbene nel caso di specie il contratto di “avvalimento” stipulato dalla controinteressata ha espressamente individuato tale utilità nella “occasione di incremento curricolare rilevante tale da compensare l’assenza di un corrispettivo”.

L’aspetto più rilevante della sentenza riguarda la precisazione sul riferimento normativo che legittima l’istituto dell’avvalimento di garanzia. Si tratta di una questione delicata che può condurre a criticità. Se il riferimento normativo dell’avvalimento di garanzia non è l’art. 104 del d.lgs. 36/2023, quali regole devono seguire gli operatori e le amministrazioni?

Le direttive UE non offrono delle regole pratiche aspetti per cui in assenza di indicazione appare preferibile in ogni caso utilizzare le indicazioni contenute nell’art. 104, d.lgs. 36/2023, evitando così conflitti interpretativi.

TAR Liguria Sez. I, 25 giugno 2024, n. 462

Leggi anche "Quali sono i principi che regolano l’istituto della riserva?"

 


regime di esclusività

Responsabilità erariale del medico in regime di esclusività: il caso delle visite private

Responsabilità erariale del medico in regime di esclusività: il caso delle visite private

La sezione giurisdizionale d’Appello della Corte dei Conti siciliana ha affermato due importantissimi principi in materia di responsabilità erariale del medico.

Sussiste la responsabilità erariale del medico che, in regime di esclusività, esercita occultamente l’attività di libero professionista all’interno dell’Azienda ospedaliera, rendendo automaticamente sine titulo l’erogazione degli incentivi connessi al rapporto di lavoro.

A parere del Collegio, la stessa responsabilità si verifica anche quando il dirigente medico, autorizzato allo svolgimento di prestazioni intramoenia lo fa in violazione del principio di prevalenza della attività ordinaria su quella svolta in regime di A.L.P.I. (attività libero-professionale intramuraria) ed è quindi tenuto alla restituzione della dell’importo delle prestazioni svolte, in favore dell’Azienda sanitaria a cui appartiene.

La condotta contestata al medico

Dalle indagini svolte, risultava che il medico fosse solito svolgere attività di libero professionista, non solo durante l’orario di lavoro ma anche sfruttando le strutture dell’Azienda ospedaliera, di cui risultava essere dipendente in regime di esclusività.

Risultava, inoltre, che il medico organizzava personalmente la propria attività professionale, indicando ai pazienti di recarsi presso l'ospedale senza passare dalle casse preposte alla riscossione del corrispettivo delle prestazioni, affinché il pagamento fosse versato direttamente in contanti nelle sue mani. Tali circostanze sono state confermate dalle dichiarazioni rese dai pazienti visitati e dai tabulati telefonici delle utenze intestate al medico acquisiti nel corso dell’attività investigativa.

La posizione della Corte d’Appello

Nel caso di specie la Corte dei Conti ha rilevato che le condotte illecite del medico fossero sufficientemente provate insieme al nesso di causalità e ai danni contestati, ravvisando la sussistenza di una responsabilità a titolo di dolo.

La condotta tenuta dal medico, infatti, si poneva in palese contrasto con l’art. 15 - quinquies del d. lgs. 502/1992, che richiede “la totale disponibilità” del medico dirigente nell’esecuzione del suo incarico; al contrario, il medico aveva svolto la sua attività “in palese, consapevole e intenzionale spregio degli obblighi di servizio”.

A giudizio della Corte, la debole difesa del medico, incardinata sull’affermazione che quelle verificatesi erano soltanto sviste e negligenze scusabili, non è bastata a superare quanto già sostenuto e provato ampiamente in primo grado. Si sottolineava, a tal proposito, che gli adempimenti che avrebbe dovuto effettuare il medico erano “oltremodo chiari, risultando da un inequivocabile dettato normativo” che non presentava particolari difficoltà nella sua esecuzione.

Già nel giudizio di primo grado, infatti, secondo la Procura contabile, il professionista si era “volontariamente e reiteratamente sottratto agli obblighi di comunicazione nei confronti della propria azienda ospedaliera”, di fatto prendendo appuntamenti con i pazienti e indicando loro di pagare la prestazione in contanti e direttamente nelle sue mani.

Confermando la pronuncia del giudice di primo grado, la Corte dei Conti d’appello ha confermato la sussistenza di una responsabilità erariale, essendo riconoscibili tutti gli elementi strutturali utili a configurare il particolare tipo di responsabilità. Ed infatti è distinguibile il vincolo funzionale tra il soggetto che ha cagionato il danno e la PA, l’inosservanza degli obblighi di servizio e come provato dalla Procura  ci sono anche l’imputabilità a titolo di dolo, il pregiudizio economicamente valutabile nei confronti della PA e chiaramente il nesso di causalità tra il fatto e il danno causato all’erario.

Corte dei Conti, Sez. Appello Sicilia, n. 22_A_2024

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Accordo quadro: l’operatore economico può rifiutare la stipula del contratto attuativo non remunerativo?

Accordo quadro: l’operatore economico può rifiutare la stipula del contratto attuativo non remunerativo?

Le questioni giuridiche

A fronte di un accordo quadro validamente sottoscritto, l’aggiudicatario può rifiutare la stipula del contratto attuativo perché quest’ultimo non è più remunerativo? La mancata sottoscrizione del contratto attuativo configura un inadempimento contrattuale?

Questi i quesiti oggetto di due pronunce, una del TAR Liguria e l’altra resa in sede d’appello dal Consiglio di Stato, che si sono espresse sul punto facendo emergere due opposti orientamenti.

La vicenda

Nel caso sottoposto all’attenzione del TAR Liguria, l’accordo quadro aveva ad oggetto il servizio di trasporto scolastico per il triennio 2022-2024.

Quali sono state le ragioni che hanno indotto la Società ad agire in giudizio? Vediamole insieme.

Al termine di una gara durata molti mesi e in vista dell’imminente inizio dell’anno scolastico, la società ha chiesto al Comune il Piano di trasporto annuale. Il Comune ha inviato il Programma di esercizio per l’anno scolastico 2022/2023, chiedendo alla società di confermare l’avvio del servizio entro pochi giorni. Quest’ultima, a causa del breve preavviso e del ritardo nella conclusione della gara, ad essa non imputabile, ha chiesto di posticipare l’avvio del servizio.

In particolare, la Società ha presentato osservazioni al Piano di trasporto del Comune, evidenziando come le condizioni proposte fossero peggiorative rispetto all’offerta economica dell’Accordo quadro con la conseguente non remuneratività del contratto. A seguito di alcune interlocuzioni, quindi, l’operatore economico ha informato l’Amministrazione che non avrebbe sottoscritto il contratto a tali condizioni.

Il rifiuto è stato interpretato dal Comune come un inadempimento da parte dell’aggiudicataria; di conseguenza, l’Amministrazione ha adottato due determine: da un lato ha dichiarato l’impossibilità di aggiudicare il servizio alla società e, dall’altro lato, lo ha affidato al secondo classificato in gradutaoria.

Contratto attuativo non remunerativo: legittimo il rifiuto alla stipula?

La questione è stata portata dinnanzi al TAR Liguria che ha dovuto esprimersi sulla legittimità di tali determine. Secondo il TAR, non vi sarebbe stata alcuna forma di inadempimento da parte dell’impresa, perché quest’ultima non avrebbe potuto essere obbligata ad eseguire un servizio in perdita: secondo il TAR, “ai sensi del combinato degli artt. 2 Cost. e 1173 c.c., non è “esigibile” la prestazione che, come si è detto, si presenta non remunerativa”.

La tesi del TAR si è basata su un’argomentazione precisa: la natura non remunerativa del contratto non era dovuta né ad un errore della ricorrente, né a circostanze imprevedibili, ma era il risultato diretto delle azioni del Comune che aveva erroneamente calcolato la base d’asta parametrandola a un chilometraggio annuo di percorrenza del servizio sbagliato. Il repentino abbassamento dei chilometri effettivi aveva così abbattuto l’utile d’impresa rendendo l’offerta originaria insostenibile.

Sulla scorta di tali motivazioni, il TAR ha annullato anche l’aggiudicazione nei confronti della seconda in graduatoria.

Un operatore economico può sottrarsi all’esecuzione di un accordo quadro?

Il Comune soccombente ha dunque impugnato in appello la sentenza dinnanzi al Consiglio di Stato per diversi motivi; tra questi, ha sostenuto che l’originaria aggiudicataria fosse perfettamente a conoscenza delle regole della lex specialis e delle condizioni economiche dell’appalto, sicché l’assenza di un utile non poteva essere considerata una circostanza sopravvenuta, né tantomeno essere addebitata all’Amministrazione.

Il Consiglio di Stato ha ribadito il noto principio per cui l’importo complessivo indicato a base di gara negli accordi quadro costituisce una semplice stima e non fa nascere alcun obbligo per le Amministrazioni di stipulare i contratti attuativi per gli importi massimi, calcolati in base ai fabbisogni raccolti.

Lo stesso ha, poi, chiarito che la lex specialis specificava che i chilometri annui indicati non erano in alcun modo garantiti e che le condizioni del servizio indicate nel Piano annuale di trasporto potevano essere modificate nel corso dell’anno: quindi, il prezzo e il chilometraggio complessivi erano soltanto indicativi e non potevano essere considerati vincolanti.

Per i giudici di Palazzo Spada, però, sarebbe stato dirimente un ulteriore aspetto: la lex specialis determinava anche il prezzo unitario a base d’asta (€/km), sicché gli operatori avrebbero dovuto calcolare gli utili attesi in base a tale parametro (questo sì) vincolante. Ne consegue che, per assurdo, se il concorrente avesse ritenuto di trovarsi nell’impossibilità di presentare un’offerta in ragione del solo dato stimato e comunque modificabile, come risulta espressamente dalla lex specialis, avrebbe dovuto impugnarla in quanto immediatamente escludente. Ciò non è accaduto e, quindi, l’aggiudicataria ha partecipato alla gara nella consapevolezza delle regole che la disciplinavano.

Chiarito questo, il Consiglio di Stato ha, poi, precisato un ulteriore punto fondamentale: la condotta dell’operatore non era soltanto in contrasto con la legge di gara, ma violava anche l’impegno assunto con il contratto quadro. In base alle normali regole civilistiche, infatti, quest’ultimo ha forza di legge fra le parti, non potendo essere sciolto se non per mutuo dissenso (nel caso di specie non intervenuto) e nei casi ammessi dalla legge (art. 1372 c.c.).

L’accordo quadro è infatti l’“accordo concluso tra una o più amministrazioni aggiudicatrici e uno o più operatori economici allo scopo di definire le clausole relative agli appalti da aggiudicare durante un dato periodo, in particolare per quanto riguarda i prezzi e, se del caso, le quantità previste” (art. 33 par. 1 comma 2 direttiva 2014/24/UE).

La nozione di accordo quadro è quindi riconducibile alla categoria civilistica di contratto normativo, in quanto detta le condizioni dei successivi contratti integrativi. Non solo. Attraverso l’accordo quadro l’operatore economico, o gli operatori economici, si obbligano stipulare il contratto con le Amministrazioni indicate nell’accordo quadro, se queste decideranno di stipularlo. Il comportamento della ricorrente, pertanto, costituisce un inadempimento che non trova alcuna giustificazione neanche sul piano civilistico.

Diversamente da quanto sostenuto dal giudice di prime cure, quindi, le determine del Comune erano legittime e, dopo la decisione del Consiglio di Stato, hanno riacquistato piena validità ed efficacia.

 

TAR Liguria, Sez. I, 11.7.2023, n. 708

Cons. St., Sez. V, 23.1.2024, n. 741

 

 


Concessioni demaniali: le novità normative e giurisprudenziali nel paper di Legal Team

Concessioni demaniali. Le novità introdotte dalla Legge n. 166/2024 di conversione del decreto Salva infrazioni (d.l. n. 131/2024)

Negli ultimi tempi, il tema delle concessioni balneari ha subito sviluppi significativi, caratterizzati da due direzioni opposte: da un lato, la pubblicazione dei primi bandi di gara per l’assegnazione delle concessioni delle spiagge con le indicazioni fornite dalla Legge concorrenza e dalla giurisprudenza; dall’altro, l’approvazione del decreto Salva infrazioni (d.l. n. 131/2024), convertito con modifiche nella L. n. 166/2024, che introduce importanti novità alla L. n.118/2022 (c.d. Legge Concorrenza 2021).

Le modifiche puntano a disciplinare con maggiore chiarezza la proroga delle concessioni esistenti e a evitare procedure di infrazione da parte dell’Unione Europea, confermando il dibattito acceso tra operatori del settore e istituzioni.

Paper, a cura di Rosamaria Berloco, Pietro Falcicchio e Giampaolo Austa, con la collaborazione di Sara Turzo e Marica De Angelis.

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