La giurisdizione del giudice amministrativo sugli atti esecutivi dell’accordo quadro multifornitore
La giurisdizione del giudice amministrativo sugli atti esecutivi dell’accordo quadro multifornitore
La sentenza emessa dal Consiglio di Stato, sez. III, 2 ottobre 2024, n. 7896 fornisce alcune importanti indicazioni in merito al riparto di giurisdizione nell’ambito di un accordo quadro multifornitore. In particolare, la sentenza ha affermato la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso in cui uno tra gli operatori aggiudicatari dell’accordo quadro contesti un ordine effettuato dalla Stazione appaltante nei confronti di un altro degli operatori aggiudicatari.
La vicenda
Un operatore economico, quinto classificato e aggiudicatario di un accordo quadro multifornitore, impugna il provvedimento con cui la Stazione appaltante ha esercitato la c.d. clausola di aggiornamento tecnologico prevista dalla lex specialis nei confronti di un altro operatore afferente al medesimo accordo quadro.
Secondo la prospettazione dell’operatore ricorrente, così facendo la Stazione appaltante ha in realtà effettuato un affidamento diretto: difatti, i prodotti acquistati non costituivano un vero e proprio aggiornamento tecnologico, bensì un “nuovo modello” di device.
Il giudice di prime cure non ha esaminato il merito della controversia, perché, preliminarmente, ha rilevato il proprio difetto di giurisdizione. Secondo il T.A.R. adito, infatti, non si configurava in capo alla ricorrente una posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo, essendo entrambe le parti in causa aggiudicatarie dell’accordo quadro. In altri termini, essendo già stato stipulato un contratto, si ricadrebbe nella giurisdizione del giudice ordinario.
In aggiunta, la domanda della ricorrente avrebbe prospettato, più plausibilmente, una posizione giuridica di diritto soggettivo, essendo la stessa correlata alla reclamata tutela per il danno alla propria immagine e al pregiudizio economico che (in via derivata e riflessa) potrebbe derivarle.
Per tali ragioni il T.A.R., con sentenza, ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione e l’operatore economico soccombente ha deciso di appellare tale pronuncia dinnanzi al Consiglio di Stato.
La decisione
Per il Consiglio di Stato l’appello è fondato.
Preliminarmente, i giudici di Palazzo Spada hanno spiegato che la posizione in cui versa la ricorrente non è sovrapponibile a quella di un operatore terzo che non abbia preso parte alla procedura e che intenda denunciare un affidamento diretto in spregio alle regole dell’evidenza pubblica. Laddove, infatti, come nel caso di specie, la ricorrente contesti la corretta applicazione della lex specialis nell’ambito di un accordo quadro del quale essa stessa è aggiudicataria, la posizione giuridica fatta valere è diversa.
In secondo luogo, il Consiglio di Stato ha chiarito che, in linea teorica, l’accordo quadro realizza un pactum de modo contrahendi ossia un contratto “normativo” dal quale non scaturiscono effetti reali o obbligatori, ma la cui efficacia consiste nel “vincolare” la successiva manifestazione di volontà contrattuale delle stesse parti. Nel caso di specie, l’accordo quadro vincolava le Aziende sanitarie ad individuare l’ulteriore operatore per la fornitura dando debitamente conto della sussistenza delle condizioni abilitanti precisate nel disciplinare.
In base a ciò, il giudice di appello ha affermato che, nel caso di specie, non si verifica una situazione paritetica e che la ricorrente resta titolare di un interesse legittimo (indubbiamente più qualificato e differenziato rispetto al semplice operatore economico non aggiudicatario) alla individuazione come fornitore e alla conseguente stipula del contratto esecutivo. Non vi sono quindi diritti soggettivi.
Ne discende che, quando un operatore afferente all’accordo quadro contesta il rispetto della lex specialis come nel caso di specie, esso vanta un interesse legittimo e la giurisdizione resta affidata al giudice amministrativo.
Questa conclusione sarebbe peraltro suffragata anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale “la controversia relativa all'aggiudicazione di un appalto di pubblico servizio rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche qualora l’affidamento del servizio non consegua ad una procedura di evidenza pubblica, ma sia atto esecutivo di un accordo quadro, poiché l'aggiudicatario - scelto con la procedura di evidenza pubblica che ha portato alla stipulazione del suddetto accordo - ottiene gli appalti in virtù di affidamenti diretti la cui illegittimità, per contrarietà alle norme dell'accordo quadro su cui sono basati, può essere fatta valere, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e), c.p.a. (che ha replicato l'art. 244 del d.lgs. n. 163 del 2006), esclusivamente dinanzi al giudice amministrativo” (Cass. civ., sez. un., 30 novembre 2022, n. 35335).
Cons. Stato, Sez. III, 2 ottobre 2024, n. 7896
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Contratti di fornitura: l’appaltatore subentrante non è tenuto alla clausola sociale di “riassorbimento”
Appalto di forniture: è legittima l’esclusione per mancata dichiarazione della clausola occupazionale?
La sentenza emessa dal TAR Campania, Napoli, sez. I, 5 settembre 2024, n. 4825 esamina la questione relativa alla mancata presentazione, da parte di un operatore economico, della dichiarazione recante l’impegno a garantire la stabilità occupazionale del personale impiegato nell’ambito di un appalto di forniture. Cosa accade se il disciplinare di gara prevede tale obbligo in modo chiaro e inequivoco?
La vicenda
Un operatore economico, secondo classificato, ha impugnato l’aggiudicazione di un appalto di fornitura di prodotti chimici per il trattamento delle acque reflue e potabili nei confronti di un altro operatore, chiedendone l’annullamento.
Nel ricorso, l’impresa ha sostenuto che il disciplinare di gara prevedeva, con una clausola chiara e vincolante, che i partecipanti dovessero fornire una dichiarazione formale in cui si impegnavano a garantire la stabilità occupazionale del personale impiegato. Secondo la ricorrente, questa richiesta avrebbe rappresentato una scelta precisa dell'ente appaltante volta a proteggere il personale dell’appaltatore uscente, ossia la stessa ricorrente.
La ricorrente ha sostenuto che la mancata presentazione della dichiarazione da parte dell’aggiudicataria ne avrebbe dovuto comportare l’esclusione dalla gara. Inoltre, ha sottolineato che la mancanza di tale dichiarazione non sarebbe potuta essere sanata tramite soccorso istruttorio, trattandosi di un elemento costitutivo dell'offerta.
La stazione appaltante e la controinteressata si sono costituite in giudizio, chiedendo il rigetto del ricorso presentato dalla società ricorrente.
La decisione
Per il TAR, il ricorso è infondato.
L’appalto in questione riguarda la fornitura di beni e, pertanto, l’utilizzo della manodopera è marginale; a conferma di ciò, il disciplinare di gara indicava che i costi della manodopera fossero pari a zero. L’art. 57 del d.lgs. n. 36/2023 prevede l’obbligo delle clausole sociali solo per gli appalti di lavori e servizi, esclusi quelli di natura intellettuale e per i contratti di concessione. Di conseguenza, la c.d. clausola sociale, che prevede il riassorbimento del personale dell’appaltatore uscente, non è applicabile in questo caso, che riguarda un appalto di fornitura. Per corroborare la propria motivazione, il TAR ha richiamato le linee guida ANAC, approvate con la delibera n. 114 del 13 febbraio 2019, le quali confermano che tali clausole non si applicano ai contratti di fornitura.
Peraltro, la stazione appaltante non ha mai chiesto all’aggiudicatario di assumere, in tutto o in parte, il personale del precedente fornitore. Si tratta di una circostanza nota anche alla stessa ricorrente, la quale opera quale fornitore uscente nel medesimo appalto e non ha mai riassorbito il personale del precedente appaltatore.
Per concludere, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, la clausola sociale in un appalto non impone l’integrale assunzione del personale precedente, ma deve comunque garantire la libertà economica degli operatori. Questa flessibilità mira a bilanciare la tutela del lavoro con la libertà d’impresa, evitando fenomeni di dumping sociale (TAR Lazio, Roma, Sez. IV, 3 giugno 2024, n. 11261). La disposizione del disciplinare richiamata dalla ricorrente, pertanto, non può essere interpretata in modo da imporre un obbligo di stabilizzazione dei lavoratori precedentemente impiegati dal precedente operatore; tutt’al più, da tale previsione discende l’obbligo di conformarsi ai restanti obblighi imposti dall’art. 57, D. Lgs. 36/2023.
TAR Campania, Sez. I, 5 settembre 2024, n. 4825
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Normativa statale e regionale in materia di rinnovabili: come comporre l’eventuale contrasto?
Normativa statale e regionale in materia di rinnovabili: come comporre l’eventuale contrasto?
Lo Stato prevede un regime autorizzatorio semplificato in relazione ad alcune tipologie di impianti FER. Qual è la sorte della normativa regionale previgente? Prevale la legge sopravvenuta dello Stato o resiste quella antecedente della Regione?
È quanto ha stabilito il T.A.R. Umbria, sez. I, 14.6.2024, n. 473, il quale ha annullato un provvedimento di “irricevibilità” di una comunicazione di inizio lavori (CIL) presentata da un operatore intenzionato a installare un impianto fotovoltaico ai sensi dell’art. 22-bis, d.lgs. 199/2021.
La vicenda
Un operatore economico presenta al Comune una CIL per realizzare un impianto fotovoltaico da 18.960,48 kW in un’area industriale. Considerando la tipologia e localizzazione dell’opera, ritiene di poter procedere in base all’art. 22-bis del d.lgs. 199/2021, che classifica tali installazioni in aree industriali, artigianali e commerciali come manutenzione ordinaria, esentandole da permessi, salvo le valutazioni ambientali previste dal Codice dell’ambiente. La norma è stata introdotta dall’art. 47, co. 1, lett. b), del d.l. n. 13/2023.
Dal canto suo, però, il Comune non è d’accordo: in base ai regolamenti regionali previgenti (l’ultimo è del 2022) l’intervento in questione dovrebbe essere assoggettato ad autorizzazione unica, rilasciata ai sensi dell’art. 12, d.lgs. 387/2003. Si tratta, infatti, di un’opera di potenza superiore a 1000 kWe e, pertanto, il regime della CIL non è sufficiente.
Alla luce di ciò, il Comune notifica all’operatore economico un provvedimento nel quale viene dichiarata “irricevibile” la CIL presentata da quest’ultimo. Tale provvedimento viene così impugnato dinnanzi al T.A.R. dall’interessato, il quale denuncia, tra le altre cose, una violazione dei principi che regolano il riparto di potestà normativa tra Stato e regioni in materia.
Contrasto tra normativa statale e quella regionale: le coordinate nell’ambito degli impianti FER
Il T.A.R. ha accolto il ricorso presentato dall’operatore economico, facendo il punto su alcuni principi importanti in materia di fonti rinnovabili. Per fare ciò, il giudice ha percorso alcuni passaggi fondamentali.
In primo luogo, nel caso di specie erano incontestate le condizioni di fatto dell’impianto, circa la potenza, la localizzazione e, soprattutto, la vocazione d’uso del terreno dove avrebbe dovuto essere installato, ossia una zona industriale.
Preso atto di ciò, il T.A.R. ha rilevato un oggettivo contrasto tra le disposizioni in materia: da un lato, infatti, la legge dello Stato introdotta nel 2023 faceva ricadere tali tipologie di impianti nell’edilizia libera, assoggettandoli quindi al semplice regime della CIL; dall’altro lato, invece, la Regione aveva disposto nel 2022 che tali impianti fossero realizzabili soltanto previo rilascio di un’autorizzazione unica.
Per risolvere l’antinomia, il T.A.R. ha guardato all’art. 117 Cost., che disciplina il riparto della potestà normativa tra Stato e regioni. In particolare, le due disposizioni rilevanti nel caso di specie prevedevano un differente titolo edilizio per il medesimo intervento. Chiarito questo aspetto, il T.A.R. ha richiamato la giurisprudenza costituzionale stratificatasi in materia, precisando che “la definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente “governo del territorio”, vincolando così la legislazione regionale di dettaglio”.
Pertanto, la legge dello Stato che fissa un nuovo principio fondamentale, anche se sopravvenuta, abroga la legge regionale in contrasto con essa. Anche se non richiamato espressamente, in questo caso il T.A.R. ha chiarito che si applica il criterio della lex posterior.
Laddove lo Stato contempla un regime semplificato per il rilascio di un titolo edilizio, quindi, le regioni non possono prevedere procedure più gravose, pena la violazione dei “principi fondamentali” della materia. Ciò è coerente, peraltro, con la prassi del legislatore statale che conferisce la facoltà alle regioni di prevedere ulteriori semplificazioni in materia, innalzando, per esempio, le soglie per utilizzare la CIL o la procedura abilitativa semplificata. Non è legittimo, però, il contrario.
La pronuncia è importante perché chiarisce ancora una volta i principi che regolano il riparto di potestà normativa nell’ambito delle procedure per il rilascio dei titoli abilitativi per l’istallazione degli impianti FER. Si tratta di principi sempre più importanti, data anche la mole di interventi del legislatore, sempre più frequenti, volti ad accelerare il ricorso a tali tipi di tecnologie.
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