Il “caso Milano”: la demoricostruzione post L. 120/2020 alla prova della giustizia penale.

Demoricostruzione MilanoCome riportano le “cronache giudiziarie”, è in atto a Milano una “maxi inchiesta” su diversi cantieri nei quali – questa la tesi della Procura della Repubblica – sarebbe stato illegittimamente adoperato lo strumento della SCIA per interventi che sotto le mentite spoglie della ristrutturazione edilizia tramite demolizione e ricostruzione, (assentibile con SCIA, appunto), sarebbero in realtà consistite in ipotesi di nuova costruzione.

Inoltre, altro importante tema sollevato dalla Magistratura penale, vi è anche la questione dell’ipotizzata violazione dell’art. 41-quinquies della L. 1150/1942 (la legge urbanistica fondamentale) in punto di obbligo di strumento attuativo per edifici di altezza superiore ai 25 metri.

In questo contributo vogliamo concentrarci sul primo aspetto, per “denunciare” quella che è, a nostro avviso, una lettura dell’art. 3, co. 1, lett. d) TUEd obiettivamente (ormai) priva di contatti con la realtà normativa.

 

I. La demolizione e ricostruzione post Decreto Semplificazioni 2020.

A far data dall’entrata in vigore del D.L. 76/2020 (16.7.2020), poi convertito dalla L. 120 dell’11.9.2020 , l’art. 3, co. 1 lett. d) D.P.R. 380/2001 dispone che tra gli interventi di ristrutturazione edilizia (come tali soggetti al regime della SCIA “semplice” ex art. 22 del medesimo TUEd) rientrano anche quelli di

demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana.

Come avevamo osservato in alcuni precedenti contributi, la novella del 2020 si segnalava per aver modificato in radice la sostanza della demo-ricostruzione, facendovi rientrare anche gli interventi comunemente denominati (anche in alcune legislazioni regionali) di “sostituzione edilizia”.

Ed infatti, se prima il legislatore imponeva in sede di ri-edificazione il limite della volumetria preesistente, oggi (dal 2020) la norma ammette anche incrementi di volumetria (senza l’individuazione a priori di “limiti quantitativi”) purché posti in essere in base a norme (di legge o di piano urbanistico) con finalità di rigenerazione urbana (concetto, questo, effettivamente suscettibile di interpretazioni potenzialmente non univoche, come segnalammo a margine della Circolare interpretativa MIT – PA ).

Inoltre, e a monte, il richiamo del legislatore alla ricostruzione con diversità di (i)sagoma; (ii) prospetti; (iii) sedime e (iv) caratteristiche planovolumetriche e tipologiche pareva poter costituire – una volta tanto con una norma chiara – il superamento della tesi che la demoricostruzione in tanto possa essere ricondotta alla ristrutturazione edilizia in quanto si mantenga un rapporto con il precedente fabbricato.

Detto brutalmente: come può teorizzarsi la necessità che il nuovo fabbricato abbia un “nesso” con quello demolito se il Legislatore ammette la riedificazione di fabbricati con caratteristiche completamente differenti oltre che con volumetrie maggiori (in caso di interventi di “rigenerazione urbana”)?

E non a caso, a valle delle modifiche all’art. 3, co. 1, lett. d) D.P.R. 380/2001 avemmo anche modo di evidenziare la possibilità  – confortati anche da alcune prassi amministrative locali -di interventi di demoricostruzione con accorpamenti o “frazionamenti” .

 

II. La demoricostruzione nella prospettiva “penalistica”

Nonostante ciò la magistratura penale – a partire da alcune decisioni, anche recenti, della Cassazione – adotta un approccio nel quale il criterio è, citando uno dei decreti di sequestro preventivo adottati a Milano, reperibile sul sito ItaliaIus) quello per cui

la ristrutturazione, per definizione, non può mai prescindere dalla finalità di recupero del singolo immobile che ne costituisce l’oggetto” e ciò in una prospettiva nella quale occorrerebbe restare aderenti alla “finalità di conservazione del patrimonio edilizio esistente“.

In tale ottica, addirittura, prosegue il Decreto del GIP sussisterebbe una intrinseca necessità che la struttura ricostruita “non possa prescindere dal conservare traccia dell’immobile preesistente“.

In tal senso tra le varie decisioni della Cassazione penale merita di essere ricordata la (nota) sentenza della sez. III del 18.1.2023, n. 91669 dove viene presa in esame proprio la disciplina post L. 120/2020 (dalle quale, infatti, prende le mosse l’interpretazione che ha ispirato la Procura della Repubblica nelle varie indagini aperte a Milano): tale decisione, infatti, nel ricostruire il contesto normativo vigente ribadisce che “con riguardo alla ristrutturazione non vi è spazio per nessun intervento che lasci scomparire ogni traccia del preesistente“.

 

III. L’erroneità della “tesi penalistica” .

A nostro avviso, già la mera ricostruzione dell’istituto della demolizione e ricostruzione pare in modo abbastanza chiaro deporre nel senso della erroneità – o, meglio, inattualità – della tesi propugnata dalla magistratura penale.

Infatti, come visto supra § I, il Legislatore del 2020 (D.L. 76/2020 conv. in L. 120/2020) ha di fatto – sia pur senza introdurre espressamente il nomen iuris – introdotto nell’ordinamento la categoria della sostituzione edilizia, ascrivendola, anziché alla nuova costruzione (come si riteneva in precedenza), alla ristrutturazione edilizia.

Al riguardo, lo ribadiamo, pretendere un (non meglio precisato e, quindi, indeterminato, il che è ancor più grave viste le ricadute penalistiche della questione) rapporto di “continuità” tra il demolito ed il ricostruito appare in lampante contrasto con la possibilità (che il legislatore non “confina” o limita in alcun modo) di variare pressoché ogni parametro edilizio:

  • sagoma
  • prospetti
  • sedime
  • caratteristiche planivolumetriche e tipologiche
  • volumetria (con incrementi collegati ad interventi qualificabili come “rigenerazione urbana”).

La “chiave di volta” della riconduzione della sostituzione edilizia all’interno della ristrutturazione edilizia ex art. 3, co. 1, lett. d) D.P.R. 380/01 risiede, in particolare, nella facoltà di ricostruire con “diverse”caratteristiche planivolumetriche e tipologiche“.

Appare quasi in re ipsa che un fabbricato che diverga oltre che per sagoma, sedime nonché volume (ove ne ricorra il presupposto speciale) anche dal punto di vista planivolumetrico e tipologico non sia vincolato in alcun modo al mantenimento di (non meglio specificate) tracce del preesistente.

D’altronde, se la ratio della normativa in questione è quella di consentire – tra l’altro – il recupero di immobili in via di dismissione, dismessi o degradati ad esempio perché collegati a destinazioni non più attuali, il requisito della “continuità” finirebbe di fatto per essere un ostacolo a quei processi di (radicale) conversione che la norma intende semplificare.

Ogni decisione – penale ovvero amministrativa – che volesse, invece, insistere nella tesi della necessaria “continuità” in sede di ristrutturazione edilizia demoricostruttiva dovrebbe chiarire (sia consentito: in modo assai più puntuale e rigoroso rispetto a Cass. 91669/2023):

a) quale sarebbe l’effetto innovativo (espressamente voluto dal Legislatore) delle modifiche del 2020 con l’introduzione della facoltà di variare “caratteristiche planivolumetriche e tipologiche” rispetto al regime ante 2020;

b) in che termini tale espressa facoltà di variazione sostanziale (innovazione) sia coordinabile con il supposto requisito della “continuità con il preesistente” ;

 

IV. La zona grigia: gli incrementi volumetrici per finalità di rigenerazione urbana.

Senza, ovviamente, voler entrare nel merito di alcuna delle indagini in essere a Milano o altrove, esiste senz’altro un aspetto che può determinare il “transito” di una demoricostruzione dalla ristrutturazione con sostituzione edilizia alla nuova costruzione vera e propria.

E questo – come abbiamo detto sopra – non pare attenere al mantenimento di “testimonianze” del preesistente fabbricato, ma al profilo dell’incremento volumetrico.

Al riguardo, infatti, il Legislatore del 2020 ha collegato la possibilità di ricostruzione con maggiore volumetria alla condizione che tali incrementi siano riconosciuti, dalla Legge o dalla strumentazione urbanistica, “per promuovere interventi di rigenerazione urbana“.

La questione è problematica sotto (almeno) due punti di vista.

La prima possiamo considerarla, sin dalla espressa presa di posizione della Circolare MIT – Ministero P.A.., come superata: in particolare, ancorché il Legislatore scriva “incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana“, l’interpretazione subito affermatasi è stata nel senso di ritenere la finalità in questione come condicio sine qua non per poter accedere, in ristrutturazione edilizia, alla facoltà di incremento volumetrico.

Il secondo aspetto concerne, invece, l’individuazione di quali siano gli incrementi volumetrici idonei a realizzare tali finalità. Infatti, è quasi ovvio osservare che, a contrario, laddove l’aumento di cubatura sia connesso ad una previsione (di legge o di “piano”) non riconducibile alla “rigenerazione urbana”, l’ampliamento determinerebbe lo slittamento nella categoria della nuova costruzione.

Così, a fronte di ipotesi che (abbastanza) chiaramente sono riconducibili alla “rigenerazione urbana” (a partire dalle varie normative regionali ad hoc) esiste una serie di incrementi volumetrici rispetto ai quali potrebbe senz’altro dubitarsi: si pensi ai “residui” di cubatura, a trasferimenti volumetrici non espressamente ricollegabili a finalità “rigenerative” e casi consimili di riconoscimento di “maggiorazioni volumetriche”.

La questione si sposta tutta sulla definizione di “interventi di rigenerazione urbana“, per la quale, come sappiamo difetta una nozione al livello statale. Il tema è stato affrontato dalla già richiamata Circolare interministeriale, nei seguenti termini:

“la deroga non è estesa a qualsiasi disposizione che consenta incrementi volumetrici (p.es. in funzione premiale o incentivante), ma vale soltanto per le ipotesi in cui questi siano strumentali a obiettivi di rigenerazione urbana, da intendersi – secondo l’accezione preferibile, nella perdurante assenza di una definizione normativa a carattere generale – come riferita a qualunque tipologia di interventi edilizi che, senza prevedere nuove edificazioni, siano intesi al recupero e alla riqualificazione di aree urbane e/o immobili in condizioni di dismissione o degrado

Infine, l’ultimo profilo che – per scelta del Legislatore del 2020 – resta indeterminato è quello dell’assenza di una soglia “limite” agli incrementi volumetrici superata la quale possa ritenersi che l’intervento ecceda la ristrutturazione edilizia “demoricostruttiva” per sconfinare nella nuova costruzione.

E’ chiaro come in assenza di una disposizione nazionale in tal senso – stante anche la valenza dell’art. 3 D.P.R. 380/01 quale norma che si impone tanto sulla legislazione regionale tanto sugli strumenti urbanistici locali – non pare possibile individuare un valore limite di incremento volumetrico.