La tutela del patrimonio paesaggistico-culturale non prevale automaticamente sulla tutela ambientale e sull’interesse ad utilizzare energie rinnovabili: la storica sentenza del Consiglio di Stato
Con una recente sentenza, il Consiglio di Stato si è interrogato sul corretto bilanciamento tra la tutela del patrimonio paesaggistico-culturale e la tutela ambientale, con particolare riguardo all’utilizzo di energie rinnovabili.
La motivazione dei giudici è degna di nota perché precisa che la tutela del patrimonio paesaggistico e culturale non può dirsi automaticamente prevalente su altri interessi di rango costituzionale, in particolare sulla tutela dell’ambiente e sull’interesse ad una transizione energetica ed ecologica verso fonti di energia rinnovabile.
IL FATTO
Una impresa aveva presentato alla Regione Molise due istanze di autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 d.lgs. 387/2003 per la realizzazione di due pale eoliche.
Con riferimento al progetto della prima pala eolica, in sede di conferenza di servizi, la Soprintendenza per i beni Architettonici e paesaggistici regionale aveva espresso parere negativo alla relativa realizzazione dell’impianto, “a causa di interferenze visive della stessa con la presenza di beni culturali” quali un castello, il centro storico del paese, due boschi e talune croci votive situate nei pressi dell’area di intervento.
Ciononostante, in conferenza di servizi, la Regione, avendo rilevato che le prescrizioni impartite dalla Soprintendenza avrebbero compromesso la fattibilità tecnica ed economica dell’opera (in quanto la pala, se ridotta di altezza come richiesto dalla Soprintendenza, sarebbe risultata improduttiva per assenza di vento), aveva rilasciato l’autorizzazione unica in favore dell’impresa.
Qualche tempo dopo il rilascio della predetta autorizzazione, la Soprintendenza aveva comunicato l’avvio del procedimento di dichiarazione di interesse culturale (ex art. 13 del d.lgs. 42/2004) di un sistema di croci votive e viarie site lungo il crinale di confine fra le due località in cui sarebbero sorte le pale eoliche. Con decreto della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Molise veniva così dichiarato l’interesse culturale ai sensi dell’art. 10, commi 1 e 3, lett. a), e 13 del d.lgs. 42/2004, con conseguente assoggettamento a tutela indiretta delle aree limitrofe ai manufatti culturali.
Analoga situazione si era verificata nel procedimento di autorizzazione unica per la seconda pala eolica.
Dapprima, la Soprintendenza regionale aveva rilevato l’interferenza “visiva” dell’impianto e suggeriva una “riduzione significativa dell’altezza complessiva dell’impianto ovvero l’adozione di una tipologia ad asse verticale della pala”. Successivamente la Regione aveva rilasciato l’autorizzazione unica richiesta dalla società sulla base di un variante progettuale resasi necessaria per superare le criticità espresse Soprintendenza.
Sul dissenso espresso dalla Soprintendenza si era pronunciata anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri che, nell’approvare definitivamente l’intervento, aveva rappresentato come “dalla comparazione degli interessi coinvolti nel procedimento in esame, individuati nella tutela paesaggistica, da riferirsi ad area contermine e nello sviluppo della produzione di energia da fonte rinnovabile, nella valenza imprenditoriale ed economica dell’opera in argomento, di considerare prevalente l’interesse all’incremento delle fonti di energia rinnovabili e alla realizzazione dell’opera di che trattasi, condividendo le posizioni favorevoli all’impianto eolico in questione espresse dagli Enti coinvolti in conferenza di servizi e facendo proprie le relative motivazioni”.
Anche in tale seconda circostanza, la dichiarazione di interesse culturale del sistema delle croci votive decisa dalla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici finiva per inibire la realizzazione dell’impianto.
L’impresa richiedente aveva così impugnato i decreti della Direzione regionale che aveva dichiarato di interesse culturale le croci votive.
In sede di primo grado, il TAR Molise aveva accolto i ricorsi rilevando come i decreti con cui erano stati apposti i vincoli indiretti si sarebbero limitati ad affermare una rilevanza storico-artistica dei manufatti in questione senza esplicitare né gli elementi dai quali desumerne il valore culturale, né l’effettiva e qualificata rilevanza che i manufatti avrebbero concretamente assunto nella comunità di riferimento.
LA MOTIVAZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO
Avverso la sentenza del TAR Molise ha proposto appello il Ministero della Cultura, sostenendo che i decreti impugnati sarebbero assistiti da adeguata e congrua motivazione. Secondo il Ministero, peraltro, le valutazioni sottese alle dichiarazioni di interesse culturale sarebbero connotate da forte discrezionalità tecnica e, come tali, insindacabili dal giudice.
Avverso la sentenza hanno altresì promosso appello incidentale anche il Comune e la società ricorrente in primo grado, lamentando, in buona sostanza, l’incongruenza e l’irragionevolezza dell’apposizione del vincolo indiretto rispetto a dei manufatti visibili a pochi metri di distanza, considerando che la visione non sarebbe inficiata dall’eventuale realizzazione di altri manufatti a centinaia di metri di distanza.
Con sentenza del 23 settembre 2022 n. 8167, il Consiglio di Stato ha accolto entrambi gli appelli.
LA DISCREZIONALITÀ TECNICA DELL’INTERESSE CULTURALE
Con riferimento all’appello principale promosso dal Ministero, il Collegio ha in primo luogo precisato che “a differenza delle scelte politico-amministrative (cd. «discrezionalità amministrativa») – dove il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ragionevole ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme – le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (cd. «discrezionalità tecnica») vanno vagliate al lume del diverso e più severo parametro di attendibilità tecnico-scientifica”.
Di conseguenza, nei casi in cui il riferimento normativo che attribuisce il potere di decidere all’amministrazione non contiene il riferimento alle regole di giudizio che devono guidare la decisione da assumere, “il giudice non «deduce» ma «valuta» se la decisione pubblica rientri o meno nella (ristretta) gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto”. Di conseguenza, il soggetto che mette in discussione la decisione dell’amministrazione deve contestarne l’attendibilità tecnico-scientifica.
Nei casi in cui l’attendibilità delle decisioni assunte sia incerta e vi siano posizioni divergenti, tutte plausibili, “il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato”.
Tale assunto, secondo il Collegio, non vale ad accordare all’amministrazione un “privilegio di insindacabilità” delle decisioni, ma rispecchia la volontà del legislatore di non disciplinare i conflitti di interessi che possono sorgere rispetto a certe posizioni e, dunque, la volontà del legislatore di disciplinare solo i modi e i procedimenti di soluzione di tali conflitti.
In virtù di tale ragionamento, dunque, l’appello proposto dal Ministero è stato ritenuto fondato.
Secondo il Consiglio, la dichiarazione di interesse culturale, pur dovendosi basare su di una solida e documentata motivazione, deve tenere conto delle considerazioni che si impongono caso per caso, ben potendo la situazione concreta richiedere la maggiore (o minore) considerazione di alcuni criteri a discapito di altri.
Nel caso di specie, il Consiglio ha rilevato che gli indicatori da utilizzare per effettuare la ricostruzione dell’interesse storico/culturale oggetto di tutela ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 42/2004 – di cui alla nota ministeriale n. 5085 del 3 marzo 2009 – devono ritenersi esemplificativi e non certo tassativi o cumulativi. Di conseguenza, mancando nel caso di specie alcuni degli elementi probatori richiesti dalla nota ministeriale n. 5085/2009 (e, in particolare, una folta bibliografia), era onere del Ministero condurre uno studio autonomo del bene culturale in questione.
Nella motivazione dei decreti impugnati, emergevano in modo chiaro le ragioni in base alle quali il sistema delle croci votive caratterizza storicamente l’ampio paesaggio naturale e agrario circostante.
Pertanto, conclude il Collegio, non è ravvisabile nel caso di specie alcun difetto di motivazione in merito all’interesse culturale del sistema di croci votive, non essendo stati addotti dalle controparti sufficienti elementi storici ed antropologici contrastanti con la decisione dell’Amministrazione.
LA TUTELA INDIRETTA DELL’INTERESSE CULTURALE
Anche l’appello incidentale promosso dal Comune e dalla società interessata alla costruzione dell’impianto è stato accolto dal Collegio, il quale ha ritenuto che i decreti con cui è stato dichiarato di interesse culturale il sistema di croci votive viarie risultavano carenti di motivazione rispetto all’assoggettamento a vincolo indiretto dell’area contermine al manufatto di interesse culturale.
I decreti impugnati infatti, imponevano: il divieto di trasformare, sia temporaneamente che permanentemente, l’aspetto esteriore dei luoghi ricompresi nell’ambito del vincolo indiretto; il divieto, nei medesimi luoghi, di apertura di cave, posa in opera di condotte per impianti industriali e civili, realizzazione di palificazioni; l’obbligo di mantenimento dell’uso agricolo attuale del suolo per i medesimi luoghi oggetto di vincolo indiretto.
Tali limitazioni erano state motivate dall’Amministrazione in ragione “dell’esigenza di evitare che siano alterate le condizioni di contesto ambientale e di decoro, nonché di prospettiva e visuale, delle croci votive e viarie sottoposte a tutela, oltre che di scongiurare rischi all’integrità di ciascuno dei manufatti”.
Per il Collegio giudicante una simile motivazione risulta inadeguata.
Secondo i giudici, infatti, le prescrizioni di tutela indiretta previste dall’art. 45 del d.lgs. 42/2004 hanno la funzione di completare la visione e la fruizione del bene principale gravato dal vincolo “diretto”. La norma, infatti, permette di imporre delle misure dirette a scongiurare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, che ne sia danneggiata la prospettiva, la luce o che ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro, permettendo così di vincolare anche l’area circostante.
Tuttavia, tali vincoli, “integrando un limite apposto al diritto di proprietà sulla base di apprezzamenti rimessi all’autorità amministrativa competente” devono essere adeguatamente valutati avuto riguardo a tutti gli interessi coinvolti. Segnatamente, in ragione del fatto che non risulta accordata una prevalenza assoluta alla tutela del patrimonio paesaggistico e culturale sugli altri interessi aventi comunque rango costituzionale.
Conseguentemente, “la primarietà di valori come la tutela del patrimonio culturale o dell’ambiente implica che gli stessi non possono essere interamente sacrificati al cospetto di altri interessi (ancorché costituzionalmente tutelati) e che di essi si tenga necessariamente conto nei complessi processi decisionali pubblici, ma non ne legittima una concezione totalizzante come fossero posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto”.
Nel caso di specie, dunque, il Collegio ha ravvisato la violazione del principio di proporzionalità, ossia “il criterio alla stregua del quale mediare e comporre il potenziale conflitto tra i due valori costituzionali all’interno di un quadro argomentativo razionale”, e il principio di integrazione delle tutele, che “costituisce la direttiva di metodo”.
Quanto al principio di proporzionalità, questo appare violato secondo il Collegio “non nella componente della idoneità (al raggiungimento dell’obiettivo prefissato) o della necessarietà (ravvisabile quando non sia disponibile nessun altro mezzo egualmente efficace, ma meno incidente nella sfera giuridica del destinatario), bensì della proporzionalità in senso stretto”.
Una misura limitativa adottata dai pubblici poteri non può mai essere tale da gravare in maniera eccessiva sul titolare dell’interesse contrapposto, così da risultargli un peso intollerabile.
Dunque, precisano i giudici, paragonando l’obiettivo perseguito dalla Soprintendenza (la tutela delle croci votive) ed il mezzo utilizzato (lo svuotamento delle possibilità d’uso alternativo del territorio, specialmente ai fini della produzione di energia eolica) “appare evidente quanto sia sbilanciata la ponderazione effettuata”.
Ed infatti, “l’interesse pubblico alla tutela del patrimonio culturale non ha, nel caso concreto, il peso e l’urgenza per sacrificare interamente l’interesse ambientale indifferibile della transizione ecologica, la quale comporta la trasformazione del sistema produttivo in un modello più sostenibile che renda meno dannosi per l’ambiente la produzione di energia, la produzione industriale e, in generale, lo stile di vita delle persone”.
Ulteriormente, si legge in sentenza, la posizione “totalizzante” espressa dall’Amministrazione contrasta con l’indirizzo europeo e nazionale di cui al d.lgs. 387/2003 che riconosce agli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili importanza fondamentale, dichiarandoli opere di pubblico interesse proprio ai fini della tutela dell’ambiente. L’art. 12 comma 7, d.lgs. 387/2003 prescrive infatti che l’ubicazione degli impianti eolici nelle zone agricole deve tenere conto “delle disposizioni in materia di sostegno agricolo, con particolare riferimento alla valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, alla tutela della biodiversità, così come del patrimonio culturale e del paesaggio rurale”.
Allo stesso tempo, la posizione assunta dall’Amministrazione nei decreti impugnati viola il principio di integrazione delle tutele (riconosciuto ex art. 3-quater del Codice dell’ambiente e dall’art. 11 TFUE), in virtù del quale le esigenze di tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre pertinenti politiche pubbliche, in particolare al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile.
Tale principio si impone non solo nei rapporti tra ambiente e attività produttive, ma anche al fine di individuare un adeguato equilibrio tra ambiente e patrimonio culturale: l’esigenza di tutelare il patrimonio culturale deve integrarsi con la necessità di preservare l’ambiente.
Il principio di integrazione assume così una veste procedimentale, anche in forza dell’art. 12 comma 10 del d.lgs. 387/2003, secondo cui le linee guida ministeriali che dettano le regole in fase di rilascio di autorizzazione unica per gli impianti eolici sono volte ad individuare il corretto inserimento degli impianti eolici nel paesaggio. Il procedimento di rilascio dell’autorizzazione per tali impianti, dunque, rappresenta la sede in cui devono avvenire le operazioni di comparazione, bilanciamento e gestione dei diversi interessi confliggenti.
Di qui la conclusione del Collegio, secondo cui “le prescrizioni di tutela indiretta apposte dall’Amministrazione dei beni culturali costituiscono un metodo, non solo incongruo (in quanto operata al di fuori della delicata operazione di valutazione e comparazione degli interessi), ma anche surrettizio – in tal senso è ravvisabile lo sviamento della funzione – per disapplicare gli esiti della conferenza di servizi cui aveva preso parte la stessa Soprintendenza … a danno dei soggetti che avevano già conseguito le autorizzazioni uniche da parte della Regione per la realizzazione degli impianti eolici”.
In accoglimento dell’appello incidentale, i giudici hanno confermato l’annullamento dei decreti impugnati relativamente alle prescrizioni di tutela indiretta, specificando che in sede di riedizione del potere, l’Amministrazione dovrà ricercare “non già il totale sacrificio dell’uso produttivo di energia pulita delle aree contigue alle croci votive, secondo una logica meramente inibitoria, bensì una soluzione comparativa e dialettica fra le esigenze dello sviluppo sostenibile e quelle afferenti al paesaggio culturale”.