Preliminare di compravendita: la condizione sospensiva legata al rilascio del titolo edilizio

Preliminare di compravendita: la condizione sospensiva legata al rilascio del titolo edilizio.

La Suprema Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, è intervenuta nuovamente sul tema del contratto preliminare di compravendita sottoposto a condizione sospensiva. In questo specifico caso, la condizione stabilita consisteva nell’ottenimento dei titoli abilitativi necessari al cambio di destinazione d’uso dell’area compravenduta.

Riformando una sentenza della Corte d’appello di Torino, i giudici del Supremo consesso hanno affermato che, quando la condizione sospensiva del contratto preliminare si sostanzia nel rilascio  di un permesso di costruire o altra autorizzazione, essa si identifica come condizione “mista”, poiché il suo verificarsi dipende sia dalla volontà della P.A., sia dal comportamento del promissario acquirente. Una disamina più concreta della fattispecie ci aiuterà a capire la ratio della decisione.

  1. La vicenda

Le parti avevano stipulato un preliminare di compravendita per un bene immobile, che è stato sottoposto ad una condizione sospensiva: il mutamento della destinazione urbanistica dell’area, ritenuta condizione imprescindibile per il promissario acquirente. Contestualmente era stata stipulata anche una scrittura privata nella quale, proprio ai fini dell’avveramento della condizione, il promittente venditore dava mandato al promissario acquirente di terminare tutte le attività necessarie per l’ottenimento del titolo abilitativo.

Dato il mancato mutamento di destinazione urbanistica, il promittente venditore aveva citato in giudizio il promissario acquirente per ottenere sia il trasferimento dell’immobile ex art. 2932 c.c., sia per garantirsi l’accertamento della legittimità del recesso ex art. 1385 c.c. I giudici di prime cure hanno respinto la domanda del promittente venditrice; invece, la Corte d’appello ha ribaltato quanto statuito in primo grado.

Secondo i giudici di merito, era palese che non vi fosse stato il mutamento di destinazione urbanistica, e quindi l’avveramento della condizione; ma poiché questa condizione era strettamente collegata ad una prestazione dedotta in un apposito contratto di mandato, spettava al promissario acquirente provare l’adempimento di quest’ultimo. Dato che questa dimostrazione non è stata offerta, la condizione avrebbe dovuto considerarsi fittiziamente avverata ex art. 1359 del c.c.

  1. Diritto

Il promissario acquirente decide, quindi, di ricorrere in Cassazione sulla scorta di tre motivi: di questi, solo uno è stato accolto, consentendo alla Corte di cassazione di stabilire il principio di diritto di nostro interesse.

Secondo la Corte, dato che erano stati stipulati ben due negozi (un preliminare di compravendita e un contratto di mandato),  il secondo era funzionale all’avveramento della condizione sospensiva, e dunque alla conclusione del primo: questa fattispecie si può identificare come una “condizione sospensiva potestativa mista”.

Ad avviso della Corte, il fulcro della questione è strettamente legato all’applicazione dell’art. 1359 c.c., cioè se vi sia o meno l’avveramento fittizio della condizione, in questo caso il mutamento di destinazione dell’immobile. Due devono essere i requisiti necessari affinché si verifichi tale fictio iuris: l’esistenza di un vero controinteressato al verificarsi della condizione e la prova del dolo o della colpa del suo inadempimento. Nel nostro caso, il tribunale di primo grado ha dato per scontato che vi fosse una parte contraria al verificarsi della condizione (il promissario acquirente con il suo comportamento omissivo) e quindi ha respinto la domanda del promittente venditore, perché l’inottemperanza al negozio di mandato non è di per sé indice di un comportamento di dolo o colpa. La Corte d’appello, invece, ha ritenuto che vi fosse un effettivo controinteressato all’avveramento della condizione, ma che mancasse una prova effettiva dell’incolpevolezza dell’inadempimento.

Ad avviso della Corte di Cassazione, invece: “l’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede durante la pendenza della condizione è principio che riguarda anche il contratto sottoposto a condizione potestativa mista; in tale ipotesi, l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto essa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, che, invece, deve escludersi per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo in una condizione mista”.

In altri termini, sottoporre un contratto di compravendita ad una clausola condizionata mista, qual è quella relativa all’ottenimento di un’autorizzazione amministrativa, fa sì che la mancata concessione del titolo comporta di per sé la risoluzione del contratto; non può, dunque, rilevare la “finzione” prevista dall’art. 1359 c.c., proprio perché la natura mista della condizione (e quindi l’esistenza di un elemento potestativo in essa) esclude la sussistenza di un obbligo giuridico, il cui inadempimento solo può rilevare ai fini dell’art. 1359 c.c.

(Corte di Cassazione, Sez. II, n. 5976 del 6.3.2024)