Caro materiali: strategie contrattuali per far fronte all’aumento dei costi negli appalti privati
L’emergenza sanitaria degli ultimi anni nonché l’attuale grave crisi ucraina hanno inciso fortemente sull’aumento dei costi delle materie prime, dei carburanti e dell’energia e ciò naturalmente anche in relazione agli appalti privati (caro materiali).
Il problema è oramai sotto l’occhio di tutti: tanto degli operatori, quanto del legislatore.
Invero, tra la conclusione di un contratto avvenuta per ipotesi nel 2019 e la sua esecuzione (ancora in atto nel 2022) è verosimile che si registrino eventi (sopravvenienze contrattuali come ad esempio l’eccessivo aumento dei costi delle materie prime) che hanno mutato il contesto storico giuridico ed economico in cui il negozio si è formato e che, perciò, incidono sul negozio stesso.
In via generale, le sopravvenienze possono essere classificate in tre categorie:
- Sopravvenienze che rendono impossibile l’esecuzione del contratto: esse incidono in modo oggettivo e assoluto sulla possibilità di eseguire una o entrambe le prestazioni;
- Sopravvenienze che riguardano prestazioni ancora possibili, ma ciò che viene minato è l’equilibrio contrattuale tra le parti;
- Sopravvenienze che non consentono l’attuazione del programma negoziale.
In questi casi, la domanda è: quale delle parti deve sostenere il costo della sopravvenienza e quale rimedio può essere esperito al fine di tutelare l’interesse dalle parti che senza dubbio è quello di mantenere in vita il contratto e, con particolare riferimento all’appalto, eseguire le opere?
Le soluzioni paiono meno semplici da individuare e ciò specie nell’ambito dei contratti privati.
Il legislatore, infatti, ha agito principalmente introducendo dei meccanismi di ausilio straordinario per gli appalti pubblici. Per gli appalti privati le soluzioni devono essere ricercate in norme e principi già presenti nel nostro ordinamento.
I rimedi esperibili
La questione può essere risolta osservando i rimedi giudiziali e negoziali a disposizione.
Il rimedio giudiziale
In caso di contratti ad esecuzione continuata o perioda, come di certo è l’appalto privato, dove l’esecuzione della prestazione non si sia ancora esaurita e questa sia divenuta eccessivamente onerosa (caro materiali) e l’onerosità dipenda da avvenimenti straordinari ed imprevedibili, potrebbe trovare applicazione la risoluzione per eccessiva onerosità della prestazione ai sensi dell’art 1467 c.c.
Tuttavia, come è facile immaginare, tale istituto porta allo scioglimento del vincolo contrattuale.
Se però le parti hanno ancora interesse a mantenere in vita il contratto, la parte contro la quale è domandata la risoluzione ex art. 1467 c.c. può evitarla offrendo di modificare unilateralmente le condizione del contratto: il terzo comma dell’dell’art. 1467 c.c. statuisce infatti che la parte contro cui è stata avanzata la domanda di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta può evitarla offrendo di modificare le condizioni contrattuali e, dunque, di riequilibrare il contratto.
Il rimedio negoziale
Un ulteriore rimedio che permette alle parti di conservare il contratto alla presenza di sopravvenienze (come il caro materiali) è rinvenibile nella clausola generale della buona fede.
La buona fede, infatti, impone alle parti di comportarsi con lealtà e correttezza non solo nella fase delle trattative e della stipula del contratto, ma anche – e forse soprattutto – nella fase di esecuzione. Il dovere di buona fede contrattuale permette di colmare le carenze normative: la legge, infatti, non può prevedere tutti gli abusi che le parti possono commettere l’uno in danno dell’altra. Il principio di correttezza e buona fede permette così di identificare altri divieti e obblighi, realizzando la chiusura del sistema legislativo.
L’art. 1375 c.c. impone alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede. Essa, quindi, deve intendersi non solo come clausola generale destinata a regolare la fase dell’esecuzione del contratto ma anche come fonte di integrazione del contratto di ulteriori obblighi comportamentali non specificamente disposti dalla disciplina generale dettata in una determinata fattispecie negoziale.
In particolare, la buona fede nell’esecuzione del contratto impone l’obbligo delle parti di informare l’altra circa il verificarsi di circostanze sopravvenute che la controparte non conosce. In tal senso, dunque, se la prestazione di una parte sta per divenire temporaneamente o definitivamente impossibile, questa è tenuta ad informare l’altra al fine di porre in essere gli opportuni rimedi per conseguire comunque la prestazione, ovvero per procurarsi la stessa altrove.
Allo stesso modo, la buona fede nell’esecuzione implica il dovere di ciascuna parte di realizzare l’interesse dell’altro o di evitare di recarle danno, anche con l’adempimento di obblighi non previsti dalla legge o dal contratto. In tale contesto sorge anche l’obbligo di prestarsi alla rinegoziazione del contratto qualora, nel corso dell’esecuzione, sopravvengano mutamenti della base contrattuale.
La stessa giurisprudenza ha poi ritenuto che i principi civilistici della buona fede necessitano di essere letti ed interpretati alla luce dell’art. 2 Cost., per cui “la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del “neminem laedere”, trovando in tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico” (Cass. civ., Sez. III, 12.12.2019, n. 32478).
In assenza di una specifica norma codicistica che disciplini la rinegoziazione dei contratti, l’obbligo di rinegoziazione del contratto viene individuato nella clausola generale della buona fede: il contratto sopravvive (principio di conservazione del contratto) ma adeguato e rinegoziato. Un tema che, come è facile immaginare, è divenuto particolarmente centrale nella realtà attuale del mercato.
Nei contratti di lunga durata, infatti, come ad esempio i contratti di appalto, possono verificarsi mutamenti profondi di fatto differenti dalle situazioni di fatto sussistenti nel momento della conclusione del contratto. Nel mercato attuale, le fluttuazioni dei prezzi dei materiali e delle risorse impiegate nei contratti determina un forte squilibrio economico del contratto che, spesso, determina l’impossibilità di concludere la prestazione.
A fronte della volontà delle parti di proseguire il contratto, pur essendosi verificati eventi tali da modificare sensibilmente le situazioni di fatto sulla base delle quali i contraenti avevano determinato il contenuto contrattuale, si rende necessario riequilibrare il contratto e, dunque rinegoziare le clausole alla luce delle mutate situazioni.
Spesso, tuttavia, i contratti privati – che specie nel settore degli appalti privati sono frutto di un mero copia incolla – non contemplano delle clausole di rinegoziazione. Nonostante ciò, il rifiuto di rinegoziare può essere valutato come una generale violazione del dovere di buona fede previsto dall’art. 1375 c.c. e, dunque, di eseguire il contratto in buona fede.
In altre parole, la rinegoziazione potrebbe inquadrarsi come un obbligo contrattuale delle parti, le quali sono tenute quantomeno ad avviare delle trattative finalizzate alla rinegoziazione del contratto.
Esistono tuttavia dei rimedi che possono prevenire la necessità di dover rinegoziare il contratto in corso di esecuzione e che soccorrono all’inadeguatezza degli strumenti codicistici. Il nostro ordinamento infatti non presenta istituti tesi alla sopravvivenza del contratto ma, in prima battuta, in caso di eccessiva onerosità sopravvenuta, fa riferimento alla risoluzione cui solo eventualmente può seguire una riconduzione ad equità.
La fase della negoziazione del contratto, prima della sua stipula, diviene fondamentale per poter inserire clausole volte a prevenire le sopravvenienze e, in termini più generali, a prevenire possibili squilibri contrattuali.
La regola di adeguamento del contratto mediante clausole ispirate anche ai principi Unidroit
Infatti, nella prassi commerciale e nei regolamenti internazionali si è affermato l’utilizzo di diverse clausole contrattuali volte a fronteggiare situazioni patologiche afflittive dei rapporti contrattuali. Si tratta di strumenti che tendono a fornire un modello uniforme a fronte delle differenti discipline statali. La scelta di simili soluzioni rende il ruolo dell’autonomia delle parti ancor più preminente.
Tra queste, ad esempio, vi sono le c.d. clausole hardship, inserite solitamente nei contratti commerciali di lunga durata, che permettono di prevedere un elenco di eventi idonei a configurare una causa di forza maggiore ossia circostanze non imputabili alle parti che comportano l’impossibilità di adempiere alle obbligazioni contrattuali (ad esempio guerra, terrorismo o decreto governativo), e al ricorre del quale scatta l’obbligo delle parti di avviare un tentativo di rinegoziazione del contratto. Tali clausole permettono così sia di ampliare, ma anche di ridurre il novero degli eventi rilevanti e che producono effetti significativi sul contratto rispetto alla disciplina generale.
Degne di nota sono anche le c.d. M.A.C. Clause (material adverse change, ossia clausola di “assenza effetti sfavorevoli”), che permettono all’acquirente di recedere dal contratto, ovvero di chiedere una revisione del prezzo nell’ipotesi in cui, successivamente alla sua stipula, si verifichi un evento imprevedibile avente un impatto negativo rilevante. Le clausole M.A.C. sono spesso utilizzate nei contratti per l’acquisizione di partecipazioni societarie e nei contratti di project financing, nei progetti di fusione o scissione societaria e di acquisto di ramo d’azienda.
In termini più generali, la prassi internazionale è solita introdurre nei contratti di durata, come quello d’appalto, un particolare strumento di gestione delle sopravvenienze e di soluzione delle controversie: il claim. Si tratta di clausole che permettono di configurare anticipatamente i rischi in sede di stipula del contratto, allocandoli in via convenzionale all’una o all’altra parte e prevedendo un meccanismo di gestione delle sopravvenienze. In tal modo, il claim spinge i contraenti a lavorare insieme per risolvere rapidamente le controversie che possono sorgere durante l’esecuzione, garantendo un risparmio di tempo e di costi, migliorando altresì le relazioni tra le parti del contratto.
Ad ogni modo, qualunque sia la tipologia di clausola, la scelta nella formulazione delle stesse è rimessa alle parti e alla propria strategia e volontà di limitare o ampliare l’operatività e la possibilità di attivarle.
L’autonomia privata che domina il contratto permette infatti di modulare le clausole del contratto in funzione degli interessi reciproci delle parti, senza chiudere il contratto in meccanismi (o meglio, formulari) asettici e standardizzati, poco inclini a soddisfare il reale interesse delle parti all’esecuzione.
Se strutturate bene, infatti, tali clausole possono rivelarsi dei validi alleati per garantire a tutti i contraenti la riuscita del contratto, prevenendo e, dunque, limitando il contenzioso in cui anche il vincitore, la cui vittoria spesso tarda ad arrivare, si trova a perdere tempo e denaro.
L’attuale aumento dei costi dei materiali, dei carburanti e dell’energia sta accendendo un faro su queste clausole di matrice internazionale, rendendo auspicabile il loro utilizzo anche nella contrattualistica italiana, spesso restia e poco incline al concetto di reale negoziazione nella stesura del contratto.