Stato legittimo ex art. 9-bis, co. 1-bis DPR 380/01: la Corte costituzionale stoppa le “varianti regionali”.
All’indomani dell’entrata in vigore del decreto semplificazioni 2020 e, con esso, della introduzione della nozione di stato legittimo (art. 9-bis, co. 1-bis, D.P.R. 380/01), alcune Regioni si sono “lanciate” in “variazioni sul tema”.
Tra le prime Regioni ad essersi mosse in tal senso vi era stato il Veneto: tuttavia, con la sentenza della Corte costituzionale 21.10.2022 n. 217, scaturita dall’impugnativa del Governo, è stata dichiarata incostituzionale la scelta di tale Regione di allargare le maglie della nozione di stato legittimo.
Ricordiamo che la norma statale – il citato art. 9-bis, co. 1-bis del D.P.R. 380/01 – articola la definizione di stato legittimo su tre regole fondamentali:
- esso è costituito dalla “catena” dei titoli abilitanti, o sananti, il fabbricato/unità immobiliare;
- solo per i fabbricati edificati in epoca per la quale non vigeva l’obbligo di titolo abilitativo, è ammessa la prova tramite altra documentazione probante (in primis, il catastale di primo impianto);
- tale documentazione “alternativa” può essere adoperata anche in caso di irreperibilità del titolo abilitativo, di cui però vi sia ragionevole prova della esistenza.
La giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di esaminare, più nel dettaglio, la disposizione.
I. La sentenza 217/2022 e l’illegittimità dello “stato legittimo” veneto.
Come detto, la Regione Veneto, con la L.R. 19/2021, aveva introdotto una versione allargata di “stato legittimo”: in particolare, con l’art. 93-bis della L.R. 61/1985, era stato previsto due regole “speciali”:
- per gli immobili ante 30.1.1977, oggetto di variazioni non essenziali, lo stato legittimo, nel caso in cui dette difformità siano state poste in essere da soggetti diversi dagli attuali proprietari, coincide con quanto risultante dal certificato di abilitabilità/agibilità, “fatta salva l’efficacia di eventuali interventi successivi attestati da validi titoli abilitativi“;
- per gli immobili ante 67 in aree esterne ai centri abitati o alle zone di espansione, la legittimità “è attestata dall’assetto dell’edificio realizzato entro quella data e adeguatamente documentato, non assumendo efficacia l’eventuale titolo abilitativo rilasciato anche in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati, di epoca precedente”.
La norma è stata prontamente portata dal Governo all’attenzione della Consulta la quale ha – in modo netto – dichiarato la incostituzionalità dello “stato legittimo veneto” .
Infatti, la deadline del 1977 è ritenuta dalla Corte irragionevole, poiché già anteriormente alla L. 10/77 la disciplina statale imponeva l’obbligo di titolo edilizio, comminando sanzioni per interventi senza abilitazione:
“(…) la legge urbanistica n. 1150 del 1942, sia nel suo testo originario sia in quello innovato dalla legge n. 765 del 1967 – prevedeva che il committente titolare della licenza, il direttore dei lavori (quest’ultimo a partire dalla disciplina introdotta nel 1967), nonché l’assuntore dei lavori fossero «responsabili di ogni inosservanza così delle norme generali di legge e di regolamento come delle modalità esecutive che siano fissate nella licenza di costruzione» (art. 31, terzo comma, della citata legge, che diviene comma 12 a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 765 del 1967). E a garanzia del rispetto di tale disciplina, il podestà, prima, e il sindaco, poi, avevano il compito di vigilare sull’attività edilizia e dovevano ordinare l’immediata sospensione dei lavori con riserva dei provvedimenti che risultassero necessari per la modifica delle costruzioni o per la rimessa in pristino (art. 32, secondo comma, della legge n. 1150 del 1942).”
In altri termini, il quadro normativo stratificatosi nel tempo – per come ricostruito dalla sentenza della Corte costituzionale – era tale sin da prima della L. 10/77 da rendere necessario il titolo edilizio per “variazioni non essenziali“, così da impedire di ritenere dette “varianti non dichiarate” come “automaticamente legittime” ove, appunto, ante 77.
Il secondo tema affrontato dalla norma veneta è un tentativo di riproporre la teoria dell’ ante 67 quale condizione legittimante “a priori” , ossia tale da sterilizzare la rilevanza di eventuali obblighi di titolo abilitativo previsti in strumenti urbanistici locali per aree diverse da quelle “urbane”.
L’art. 9-bis D.P.R. 380/01 è sul punto “vago”, non prendendo alcuna posizione espressa, esso si riferisce infatti a “gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio”.
E’ in tale indeterminatezza del Legislatore statale che il Legislatore veneto ha tentato di inserirsi sposando una tesi giurisprudenziale minore, secondo la quale per quanto riguarda gli interventi edilizi compiuti prima del 1967 (entrata in vigore della L. 765/1967), fosse da escludere radicalmente la stessa possibilità di contestare l’assenza di titolo edilizio per opere realizzate all’in fuori del “centro abitato”, pur laddove questo fosse prescritto dalla disciplina urbanistica comunale vigente al tempo dell’intervento.
Ma la giurisprudenza amministrativa prevalente è di diverso avviso (sia con riferimento all’ante 67 sia con riferimento all’ante 1942).
La Corte costituzionale risolve il punto così:
pure al di fuori dei centri abitati e delle zone di espansione, nonché prima della legge n. 1150 del 1942, la necessità di un titolo abilitativo edilizio veniva, a ben vedere, disposta anche da altre fonti.
Anzitutto, per gli immobili realizzati in comuni ricadenti in zone sismiche, l’obbligo era sancito a livello di fonte primaria dal regio decreto-legge 25 marzo 1935, n. 640 (Nuovo testo delle norme tecniche di edilizia con speciali prescrizioni per le località colpite dai terremoti) e dal regio decreto-legge 22 novembre 1937, n. 2105 (Norme tecniche di edilizia con speciali prescrizioni per le località colpite dai terremoti), il cui Allegato comprendeva alcune province della Regione Veneto.
Inoltre, l’obbligo di previa autorizzazione alla costruzione poteva essere disposto dal regolamento edilizio comunale, emanato in esecuzione della potestà regolamentare attribuita ai comuni nella materia edilizia dai testi unici della legge comunale e provinciale susseguitisi nel tempo: regio decreto 10 febbraio 1889, n. 5921 (Che approva il testo unico della legge comunale e provinciale), regio decreto 21 maggio 1908, n. 269 (Che approva l’annesso testo unico della legge comunale e provinciale), regio decreto 4 febbraio 1915, n. 148 (È approvato l’annesso nuovo testo unico della legge comunale e provinciale).
Se ne desume, dunque, che, prima della data indicata nel comma 2 della disposizione regionale impugnata, vi erano comuni nei quali era obbligatorio munirsi di un titolo abilitativo edilizio, sia sulla base di fonti primarie riferite a territori sismici, sia sulla base di fonti non primarie, che però attingevano la loro legittimazione dalla fonte primaria attributiva del potere regolamentare.
Dunque, le due disposizioni recate dall’art. 93-bis della L.R. Veneto 61/85 – considerata la portata di principio fondamentale dell’ordinamento della nozione statale di stato legittimo, di cui appunto all’art. 9-bis, co 1-bis, D.P.R. 380/01 – vengono dichiarate incostituzionali.
II. La analoga questione pendente sulla L.R. Piemonte 7/2022
Di analogo segno il tentativo della Regione Piemonte che ha di recente modificato la L.R. 16/2018, disponendo all’art. 2, co. 1, lett. d), che:
per immobili realizzati in un’epoca nella quale la legge non imponeva, per l’attività edilizia nella porzione di territorio interessata, l’acquisizione di titolo abilitativo edilizio, ancorché in presenza di disposizioni locali diverse, lo stato legittimo è desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti di archivio o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo dell’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi abilitanti interventi parziali.
La disposizione, che adotta la medesima impostazione della legge del Veneto (appena dichiarata incostituzionale), è stata impugnata dal Governo (delibera del C.d.M. del 28.7.2022), per le medesime ragioni ed argomenti che, come visto, hanno condotto la Corte costituzionale ha dichiarate illegittimo il co. 2 dell’art. 93-bis della L.R. Veneto 61/1985.
Scontato quindi l’esito di incostituzionalità anche di tale disposizione regionale.
III. Lo stato legittimo in Emilia-Romagna
In questo esame (a campione e non esaustivo) della legislazione regionale circa lo stato legittimo si segnala la soluzione della Regione Emilia Romagna.
Qui il Legislatore è intervenuto con l’art. 10-bis, L.R. 15/2013 (introdotto ex L.R. nn. 14/2020 e 5/2021).
“lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione, integrato dagli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali, dai titoli edilizi in sanatoria, rilasciati anche a seguito di istanza di condono edilizio, dalle tolleranze costruttive di cui all’ articolo 19 bis della legge regionale n. 23 del 2004 nonché dalla regolarizzazione delle difformità che consegue al pagamento delle sanzioni pecuniarie, ai sensi dell’ articolo 21, comma 01, della medesima legge regionale n. 23 del 2004”
Apparentemente la norma in esame sembrerebbe in linea con l’art. 9-bis nazionale.
Tuttavia, ad un più attento esame, si scopre che tramite il rinvio alle “tolleranze” di cui all’art. 19-bis L.R. 23/2004, la Regione Emilia Romagna è riuscita (per ora senza incidenti di costituzionalità) a far passare quell’allargamento delle maglie non riuscito altrove.
Infatti, il co. 1-ter dell’art. 19-bis di tale legge prevede che:
Nell’osservanza del principio di certezza delle posizioni giuridiche e di tutela dell’affidamento dei privati, costituiscono altresì tolleranze costruttive le parziali difformità, realizzate nel passato durante i lavori per l’esecuzione di un titolo abilitativo, cui sia seguita, previo sopralluogo o ispezione da parte di funzionari incaricati, la certificazione di conformità edilizia e di agibilità nelle forme previste dalla legge nonché le parziali difformità rispetto al titolo abilitativo legittimamente rilasciato, che l’amministrazione comunale abbia espressamente accertato nell’ambito di un procedimento edilizio e che non abbia contestato come abuso edilizio o che non abbia considerato rilevanti ai fini dell’agibilità dell’immobile. È fatta salva la possibilità di assumere i provvedimenti di cui all’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990, nei limiti e condizioni ivi previste
Ebbene, la norma sulle “tolleranze” a cui rinvia la disposizione sullo “stato legittimo emiliano-romagnolo” è chiara nel dare piena rilevanza ad una condizione (il legittimo affidamento derivante da attestazioni di agibilità o altre forme di controllo) che la giurisprudenza amministrativa, invece, ritiene da tempo del tutto irrilevante.
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In conclusione, ancora una volta l’assetto concorrente Stato – Regioni in materia di governo del territorio finisce per generare un quadro caotico che finisce per vanificare anche norme, come quella sulle semplificazioni, votate ad un tentativo di “semplificazione”.
Sullo sfondo restano ineludibili e ormai non più differibili esigenze di complessiva revisione della disciplina urbanistica, auspicabilmente, appunto, nel quadro di un riassetto più “ordinato” dei rapporti tra legislazione statale e regionale.