AGCM torna ad occuparsi di concessioni demaniali marittime
AGCM torna ad occuparsi di concessioni demaniali marittime.
L’AGCM torna ad occuparsi di concessioni demaniali marittime nel bollettino n. 39 del 7 ottobre, pubblicando un parere motivato su provvedimenti di proroghe e assegnazioni deliberati da un comune costiero.
Dopo l’emanazione del d.l. 131/2024 (c.d. "decreto Salva Infrazioni"), l'AGCM continua la sua attività di segnalazione e, in caso di mancato adeguamento, procede all’impugnazione dei provvedimenti comunali che risultano in contrasto con i principi di concorrenza europei.
Il caso specifico
Nel caso analizzato, il Comune aveva deliberato il rilascio di tre concessioni demaniali su tratti di costa locale, apportando modifiche alle precedenti delibere per avviare una procedura che, secondo quanto dichiarato, sarebbe stata trasparente e non discriminatoria, rispettando il Codice dei Contratti Pubblici e il Codice della Navigazione.
Tuttavia, l’AGCM ha riscontrato alcune criticità, sottolineando problematiche nella procedura selettiva e nei criteri di aggiudicazione, con possibili effetti restrittivi sulla concorrenza e sulle garanzie di trasparenza ed equità.
In particolare, le principali criticità rilevate dall’AGCM sono:
- Pubblicità limitata e durata insufficiente del bando: Il bando è stato pubblicato solo sull’albo pretorio online del Comune per 15 giorni (dall’11 al 26 giugno 2024), mentre i principi di trasparenza richiederebbero una durata minima di 30 giorni e una diffusione più ampia. Inoltre, manca un termine specifico per la conclusione della procedura, rendendo incerta la tempistica di assegnazione.
- Criteri di valutazione delle offerte: Al punteggio massimo di 10 punti per l’anzianità nella gestione di concessioni demaniali, il Comune ha affiancato un punteggio di 5 punti per esperienze analoghe al di fuori del demanio, favorendo così gli operatori già presenti nel mercato e penalizzando nuovi concorrenti, creando una barriera non giustificata che limita la concorrenza e contrasta con la libertà di stabilimento sancita dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
- Durata delle concessioni: Stabilite per due anni, prorogabili per un ulteriore anno, le concessioni, secondo l'AGCM, rischiano di costituire un ostacolo alla concorrenza se rinnovate senza una prospettiva di apertura a nuovi operatori.
- Ambiguità nella gestione delle altre concessioni: La gara si riferisce solo a tre concessioni, mentre non ci sono informazioni chiare sulle altre concessioni in essere nel territorio comunale. La mancanza di un piano complessivo per il litorale appare in contrasto con i principi di trasparenza e apertura del mercato.
In seguito al parere motivato dell'AGCM, il Comune ha confermato la legittimità dei suoi provvedimenti.
Di conseguenza, l'AGCM ha deliberato l'impugnazione degli atti.
È interessante notare che, leggendo il parere emesso dall’AGCM, reso a luglio 2024, emergono indicazioni coerenti con il decreto Salva Infrazioni.
Ad esempio, in merito alla pubblicità e al termine di durata del bando, il decreto Salva infrazioni stabilisce che i bandi di gara per le concessioni demaniali devono essere pubblicati sul sito istituzionale dell’ente concedente, e sull’albo pretorio on line del comune ove è situato il bene demaniale oggetto di affidamento in concessione, per almeno trenta giorni, nonché per le concessioni demaniali di interesse regionale o nazionale, nel Bollettino ufficiale regionale e nella GURI, e per le concessioni di durata superiore a dieci anni o di interesse transfrontaliero, nella GUUE.
In attesa dunque della conversione in legge del d.l. 131/2024, le indicazioni dell'AGCM risultano ancora attuali, ribadendo l’importanza di criteri di trasparenza, imparzialità e accesso al mercato per evitare discriminazioni e barriere concorrenziali nel settore delle concessioni demaniali marittime.
AGCM, Bollettino 7.10.2024, n. 39
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by Sara Turzo
Appalti pubblici: natura e funzione della garanzia definitiva
Appalti pubblici: natura e funzione della garanzia definitiva
L’inadempimento contrattuale dell’appaltatore non giustifica l’automatica escussione della polizza definitiva.
Non è raro che, dopo aver risolto un contratto per inadempimento dell’appaltatore, la stazione appaltante tenti di incamerare immediatamente la cauzione definitiva.
Tuttavia, anche in presenza di una legittima risoluzione del contratto, l'escussione della polizza è ritenuta illegittima se la stazione appaltante non riesce a dimostrare di aver subito un danno effettivo.
In tal senso, due recenti pronunce di merito - una della Corte d'Appello di Milano e l'altra del Tribunale di Roma – pur avendo riconosciuto la legittimità della risoluzione contrattuale in danno all’appaltatore, hanno evidenziato l’illegittimità dell’escussione della polizza in quanto, in entrambi i casi, la stazione appaltante non aveva fornito prova concreta dell'esistenza e dell'entità del danno derivante dall’inadempimento.
È stato chiarito, infatti, che la polizza fideiussoria non opera come una clausola penale, che prevede una liquidazione forfettaria del danno, ma come strumento di risarcimento che interviene solo per coprire danni effettivi. Pertanto, la stazione appaltante è obbligata a dimostrare la reale entità del pregiudizio subito.
È compito del beneficiario della garanzia specificare la natura dei danni che intende risarcire attraverso la polizza, affinché si possa verificare se tali danni rientrano nella copertura garantita.
In mancanza di questa allegazione, la richiesta risulta generica e indeterminata e, quindi, non accoglibile. L'escussione della polizza senza una prova adeguata dei danni costituirebbe un abuso del diritto e sarebbe in contrasto con la finalità stessa della garanzia.
La funzione della cauzione definitiva, fornita dall’appaltatore a tutela della stazione appaltante, è quella di risarcire i danni effettivamente subiti.
Per rendere operativa la polizza fideiussoria, è dunque necessario che tali danni siano dimostrati sia nella loro esistenza sia nella loro entità. Senza questa prova, la cauzione perderebbe la sua ragion d’essere e il suo scopo.
In questo senso, la cauzione definitiva viene assimilata a un pegno, da cui differisce solo perché garantisce un credito futuro e ipotetico, mentre il pegno assicura un credito già attuale e determinato.
La finalità della cauzione è quindi quella di garantire l'adempimento delle obbligazioni contrattuali e di assicurare alla stazione appaltante la possibilità di recuperare rapidamente il credito vantato a titolo di risarcimento per l'inadempimento dell'appaltatore.
Per poter legittimamente escutere la polizza fideiussoria, la stazione appaltante deve fornire una prova dettagliata del danno subito, indicando con precisione le singole voci che lo compongono.
La Corte d'Appello di Milano ha inoltre chiarito che la presenza di una clausola "a prima richiesta" nella polizza non altera la natura della garanzia.
Sebbene tale clausola consenta alla stazione appaltante di chiedere il pagamento mediante una semplice richiesta scritta, ciò non la esonera dall'obbligo di provare il danno e il relativo importo.
In conclusione, l'inadempimento dell'appaltatore, da solo, non è sufficiente per giustificare l'escussione della polizza definitiva.
È necessaria una prova concreta dell’esistenza e dell’entità del danno subito dalla stazione appaltante.
Corte d’appello di Milano, 5 giugno 2024, n. 1656
Tribunale di Roma, Sez. II, 17 giugno 2024, n. 10268
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by Sara Turzo
Quali sono i principi che regolano l’istituto della riserva?
Quali sono i principi che regolano l’istituto della riserva?
Una recente sentenza del Tribunale di Civitavecchia offre un'importante opportunità per esaminare i principi fondamentali che regolano l’istituto della riserva negli appalti pubblici.
La vicenda trae origine dalla richiesta di risarcimento danni avanzata dalla società appaltatrice nei confronti della stazione appaltante, sulla base delle riserve iscritte durante l’esecuzione del contratto.
Secondo la prospettazione della società aggiudicatrice il tempo per l’ultimazione dei lavori stimato in 300 giorni si era protratto per oltre 1000 giorni per causa imputabile alla stazione appaltante che non aveva provveduto a pagare tempestivamente i SAL 1,2 e 3 per cui la società si era vista costretta a sospendere i lavori per quasi tre anni.
Il ritardo nell’ultimazione dei lavori era dunque imputabile alla stazione appaltante, per cui la società chiedeva il risarcimento dei danni a titolo di spese generali, mancato utile, protrazione vincolo attrezzature, spese per il personale fisso di cantiere, prolungato vincolo delle garanzie.
Si costituiva in giudizio la stazione appaltante, eccependo la tardività, l’improcedibilità e l’inammissibilità delle riserve iscritte dalla società, nonché l’infondatezza della pretesa nel merito.
Il Tribunale di Civitavecchia, alla luce dei principi che di seguito verranno illustrati, ha riconosciuto la tempestività delle riserve e la legittimità della sospensione dei lavori, ritenendo parzialmente fondata la pretesa della società.
In particolare, il Tribunale ha riconosciuto all’impresa l'importo dovuto per le spese generali improduttive causate dall'anomalo andamento dei lavori, mentre, le ulteriori voci di danno, come ad esempio il danno giornaliero per mancato utile, non sono state accolte, poiché prive di adeguata allegazione e prova.
Così descritta brevemente la questione sottoposta al Tribunale di Civitavecchia, passiamo ora ad esaminare i principi richiamati nella sentenza che regolano l’istituto della riserva.
Il Tribunale di Civitavecchia, richiamando l’art. 31, comma 3 del DM 145/2000, ratione temporis applicabile, recante la disciplina delle riserve, ha chiarito che il principio ispiratore della norma è che l’esecuzione dell’opera non può essere messa a rischio da situazione di conflittualità, con la conseguenza della posticipazione del contenzioso alla fase successiva alla ultimazione dei lavori.
Infatti, il citato articolo, al pari di quanto previsto, oggi, dall’art. 115 del d.lgs. 36/2023, prevede che l’appaltatore di lavori pubblici ha l’obbligo di uniformarsi agli ordini di servizio del direttore dei lavori, senza poter sospendere o ritardare il regolare sviluppi dei lavori.
L’istituto della riserva è stato pertanto ideato per consentire all’appaltatore di esplicitare la volontà di richiedere maggiori somme a fronte della realizzazione dell’opera.
In tal senso, la riserva può avere ad oggetto sia i maggiori corrispettivi rispetto a quelli determinati nella contabilità dei lavori, sia le pretese risarcitorie derivanti da comportamenti illeciti dell’amministrazione committente.
È stato poi precisato che l’iscrizione di riserva è soggetta ad una serie di oneri:
1) l’onere della domanda scritta: nel senso che deve essere formulata per iscritto nei documenti contabili e non può mai essere avanzata con mera richiesta verbale;
2) l’onere della proposizione;
3) l’onere della esplicazione.
L’appaltatore ha infatti l’onere della firma “con riserva” per avanzare ulteriori richieste economiche, con la conseguenza che un comportamento omissivo equivale ad accettazione.
Sicché, l’appaltatore è tenuto a segnalare il fatto oneroso o dannoso non appena ne ha avuto la percezione.
Tuttavia, qualora l’esplicazione e la quantificazione non siano possibili al momento della formulazione della riserva, l’appaltatore ha l’onere di provvedervi, a pena di decadenza, entro il termine di quindici giorni.
Sotto tale profilo, si segnala che nel d.lgs. 36/2023 non si rinviene l’indicazione del termine entro il quale le riserve devono essere esplicitate.
Tuttavia, in applicazione dell’art. 1, comma 2, lett. t) dell’Allegato II.14, secondo cui il direttore dei lavori nella gestione delle contestazioni su aspetti tecnici e le riserve, debba attenersi “alla relativa disciplina prevista dalla stazione appaltante e riportata nel capitolato d’appalto”, le stazioni appaltanti potrebbero inserire nei capitolati l’indicazione di un termine per esplicitare le riserve.
Si potrebbe così ritenere che anche nella vigenza del nuovo Codice le stazioni appaltanti conservino la facoltà di indicare nel capitolato speciale o comunque nel contratto il termine, generalmente di 15 giorni, entro cui l’appaltatore deve esplicitare le riserve. (Per un approfondimento sul tema, clicca qui)
Da ultimo, il Tribunale di Civitavecchia ha rammentato che le riserve devono essere iscritte tempestivamente e che l’onere della prova di aver iscritto tempestivamente apposite riserve incombe sull’appaltatore.
Tuttavia, tale onere diviene concretamente attuale solo nel caso in cui la controparte abbia eccepito la decadenza dalla riserva.
Tribunale di Civitavecchia, 11.3.2024, n. 474.
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by Sara Turzo
Tassa di soggiorno: ok dal Consiglio di Stato per classificazione ISTAT
Tassa di soggiorno: ok dal Consiglio di Stato per classificazione ISTAT di cui all’art. 182 della L. 17 luglio 2020, n. 77.
Con una recente sentenza del Consiglio di Stato ha ritenuto ammissibile l’utilizzo della classificazione ISTAT di cui all’art. 182 della L. 17 luglio 2020, n. 77 per l’aggiornamento dei comuni turistici o di città d’arte assoggettabili all’imposta di soggiorno.
Torniamo ad occuparci di tassa di soggiorno. In un precedente articolo abbiamo parlato della responsabilità erariale sul gestore della struttura ricettiva per mancato versamento nelle casse comunali dell’imposta di soggiorno. Con il presente contributo analizzeremo invece i criteri che possono essere utilizzati dagli enti regionali competenti per l’aggiornamento dell’elenco dei comuni turistici e delle città d’arte, ai fini dell’applicazione della tassa di soggiorno.
Ma procediamo con ordine.
Un ente regionale, con delibera di giunta, approvava l’aggiornamento dell’elenco dei comuni turistici e delle città d’arte ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, inerente l’istituzione della tassa di soggiorno.
Per l’aggiornamento di tale elenco, venivano utilizzati i criteri della categoria turistica prevalente e della densità turistica, secondo la classificazione compiuta dall’ISTAT per le finalità di cui all’art. 182 della L. 17 luglio 2020, n. 77.
In particolare, l’ISTAT, sulla base delle informazioni disponibili, aveva classificato i comuni italiani secondo due criteri:
La “categoria turistica prevalente”, cioè la vocazione turistica potenziale del comune individuata prevalentemente sulla base di criteri geografici (vicinanza al mare, altitudine, ecc.) e antropici (grandi Comuni urbani).
La “densità turistica”, espressa da un set consistente di indicatori statistici definiti per misurare la dotazione di infrastrutture ricettive, la presenza di flussi turistici e l’incidenza a livello locale di attività produttive e livelli occupazionali in settori di attività economica tourism oriented, cioè riferiti in modo specifico al settore turistico e/o culturale. Tutti gli indicatori statistici sono stati sottoposti a procedure di sintesi per favorirne la lettura e l’analisi, e descritti in termini di quintili.
Secondo la ricostruzione effettuata dall’ISTAT, nell’ambito della categoria turistica prevalente venivano ricompresi, oltre ai comuni a spiccata rilevanza turistica in relazione alle caratteristiche di natura geografica o antropica per la presenza di laghi, mare, montagne, beni culturali, terme o grandi città, anche i “comuni dotati di esercizi ricettivi e/o con flussi turistici, ma che non presentano alcuna delle caratteristiche corrispondenti alle categorie precedenti”.
L’ISTAT, infatti, qualificava come comuni non turistici solo quelli “dove non sono presenti strutture ricettive e/o dove i flussi turistici risultano assenti”.
Tale classificazione veniva fatta propria dall’ente regionale, il quale, pur rilevando che la stessa fosse stata disposta per finalità diverse, la riteneva pienamente rispondente agli obiettivi di individuazione dei comuni turistici, di cui all’art. 4 del d.lgs. 23/2011.
La delibera veniva impugnata innanzi al TAR Lombardia, il quale rilevando la legittimità dell’operato dell’ente regionale, rigettava il ricorso.
La sentenza del TAR Lombardia veniva quindi impugnata innanzi al Consiglio di Stato.
L’appellante deduceva l’erroneità della sentenza perché la classificazione operata da ISTAT e fatta propria dall’ente regionale per l’aggiornamento dell’elenco dei comuni turistici, contrasterebbe con la ratio della disposizione di cui all’art. 4 della L. 23/2011.
Più specificatamente, per l’appellante non è condivisibile la decisione dell’ente regionale e ritenuta legittima dal giudice di primo grado di inserire tra i comuni assoggettabili all’imposta di soggiorno anche quelli classificati come “comuni turistici non appartenenti ad alcuna categoria specifica” atteso che gli elenchi dei comuni turistici e delle città d’arte richiamati dall’art. 4 della L. 23/2011 possono contemplare solo città o località dove la vocazione turistica è già riconosciuta e consolidata.
Ne consegue, dunque, che a parere dell’appellante in tale elenco non dovrebbe essere inserite quelle realtà urbane che non sono né località turistiche né città d’arte.
La tesi dell’appellante non è stata accolta dai giudici di Palazzo Spada, i quali, dato atto che l’individuazione delle località turistiche ai fini dell’istituzione dell’imposta di soggiorno è rimessa all’esclusiva valutazione delle Regioni, hanno rilevato che “ai fini dell’applicazione dell’imposta di soggiorno (e non di turismo, e significativa, in tal senso è la definizione), la classificazione dei comuni operata dall’ISTAT e recepita dalla regione [OMISSIS] è in linea con le caratteristiche regionali, e in particolare con il sistema produttivo che contraddistingue il territorio [OMISSIS], in cui il turismo, in senso evolutivo, è costituito pure dal movimento di persone per motivi di lavoro, anche in occasione delle numerose e rilevanti manifestazioni fieristiche che vi si svolgono, nonché dal movimento di pazienti per motivi sanitari e di medici anche per eventi congressuali”
In conclusione, la classificazione dei comuni operata dall’ISTAT, sulla base dell’art. 182 L. 77/2020 ben può essere utilizzata dalle regioni per aggiornare l’elenco dei comuni turistici o città d’arte assoggettabili all’imposta di soggiorno.
Del resto, l’ISTAT è un’amministrazione con specifica competenza tecnica che persegue fini generali che, come evidenziato anche nella delibera de qua, è pervenuta ad una “selezione omogenea, completa e ben organizzata dei comuni turistici e che, ove presi in considerazione anche da altre regioni, diverrebbero punto di riferimento comune e condiviso”.
Cons. St., Sez. V, 28 febbraio 2024, n. 1955
by Sara Turzo
Il Consiglio di Stato torna sulle proroghe delle concessioni balneari: facciamo chiarezza
Il Consiglio di Stato torna ad esprimersi sulle proroghe delle concessioni balneari.
Con le sentenze nn. 4479, 4480 e 4481 del 20 maggio, il Consiglio di Stato torna sulle proroghe delle concessioni alla luce delle novità normative. Le pronunce appaiono mettere definitivamente un punto alla questione alla luce delle novità normative che sono seguite alle pronunce gemelle dell’Adunanza Plenaria nn. 17 e 18 del 2021 e forniscono allo stesso tempo interessanti spunti per la preparazione delle gare.
I giudici di Palazzo Spada si sono definitivamente pronunciati sul rinvio disposto dalle Sezioni Unite che, con la sentenza n. 32559 del 23 novembre 2023, hanno annullato una delle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria (la n. 18/2021).
Ricapitolando, brevemente, l’Adunanza Plenaria con le note sentenze gemelle nn. 17 e 18 del 2021 ha statuito l’illegittimità delle proroghe automatiche e la cessazione delle concessioni illegittimamente prorogate al 31 dicembre 2023, con obbligo per le amministrazioni di indire procedure selettive per il loro affidamento.
Avverso la sentenza n. 18/2021, alcune associazioni di categorie, estromesse dal giudizio, hanno promosso ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost e 362 c.p.c., lamentando plurimi vizi della decisione impugnata.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nel condividere le tesi fatte proprie dagli enti estromessi, hanno ritenuto configurabile un diniego o rifiuto di giurisdizione da parte della menzionata pronuncia dell’Adunanza plenaria.
Per tali ragioni, la Corte ha annullato la sentenza n. 18/2021, rilevando che “spetterà al Consiglio di Stato pronunciarsi nuovamente, anche alla luce delle sopravvenienze normative, avendo il Parlamento e il Governo esercitato, successivamente alla sentenza impugnata, i poteri loro spettanti”.
Per un maggiore approfondimento sul tema, scarica il nostro paper gratuito Concessioni demaniali: La questione delle proroghe legittime, primi bandi dei comuni e le pronunce del TAR Bari
La questione, dunque, giunta nuovamente all’attenzione del Consiglio di Stato, sembra essersi definitivamente chiusa con le pronunce in commento.
La sezione Settima del Consiglio di Stato, nel rigettare le richieste di rimessione della causa all’Adunanza plenaria, alla Corte costituzionale e alla Corte di Giustizia UE formulate, ritiene espressamente che spetta a lei decidere.
Osserva, infatti, il Collegio che non ci sono più contrasti tra sezioni che giustificano la necessità di tornare in Plenaria, né tantomeno si ravvisano presupposti per sollevare una questione di legittimità costituzionale e/o per disporre un rinvio alla Corte di Giustizia.
Nel ribadire che tutte le proroghe delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative sono illegittime e devono essere disapplicate dalle amministrazioni ad ogni livello, anche comunale e che la risorsa è certamente scarsa, i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che:
- Deve essere disapplicato anche l’art. 10-quater, comma 2, del d.l. n. 198 del 2023 laddove ha previsto che il Tavolo tecnico definisce i criteri tecnici per la sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile, tenendo conto anche della “rilevanza economica transfrontaliera”. Tale elemento non è rilevante ai fini della valutazione della scarsità e quindi non può essere preso in considerazione in quanto non è un presupposto per l’applicazione dell’art. 12 della Dir. 2006/123/CE ma semmai, laddove non si applichi l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE, del solo art. 49 del T.F.U.E.
- Si può ritenere compatibile con il diritto dell’Unione la sola proroga “tecnica” – funzionale allo svolgimento della gara – prevista dall’art. 3, commi 1 e 3, della l. n. 118 del 2022 nella sua originaria formulazione, che consente alle autorità amministrative competenti di prolungare la durata della concessione, con atto motivato, per il tempo strettamente necessario alla conclusione della procedura competitiva e, comunque, non oltre il termine del 31 dicembre 2024. Al riguardo, il Collegio precisa che tale proroga è compatibile con i principi europei solo quando le autorità amministrative comunali hanno già indetto la procedura selettiva o comunque hanno deliberato di indirla in tempi brevissimi, emanando atti di indirizzo in tal senso e avviando senza indugio l’iter per la predisposizione dei bandi.
- Una concessione è legittima solo se l’atto di proroga e il titolo concessorio originario sono stati assunti sulla base di procedure selettive trasparenti e comparative. In tal senso, si è di recente pronunciato anche il TAR Bari, con la sentenza n. 566 dello scorso 6 maggio, che ha ritenuto legittima l’estensione del titolo concessorio fino al 31.12.2033 perché conseguito all’esito della procedura comparativa di cui all’art. 37 cod. nav. e art. 18 del relativo regolamento (Guarda il video di approfondimento sulla sentenza del TAR Bari cliccando qui).
- Stante la necessità non più procrastinabile di procedere alle gare, è possibile sopperire al vuoto normativo mediante le previsioni delle leggi regionali e, soprattutto, i principi e i criteri della delega di cui all’art. 4, comma 2 della l. n. 118 del 2022, anche se non sono stati ancora adottati i decreti che ne precisano il contenuto (ne abbiamo parlato anche in questo video).
Cons. St., Sez. VII, 20.5.2024, n. 4479
Cons. St., Sez. VII, 20.5.2024, n. 4480
Cons. St., Sez. VII, 20.5.2024, n. 4481
Contratto di appalto e contratto d’opera: quale differenza?
Contratto di appalto e contratto d’opera tra privati. Che differenza c’è?
Distinguere le due tipologie contrattuali non è facile, posto che entrambi hanno in comune l’obbligazione verso il committente di compiere, a fronte di corrispettivo, un’opera o un servizio senza vincolo di subordinazione e con assunzione del rischio da parte di chi li esegue.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la principale differenza tra le due tipologie di contratto, si basa sul criterio della struttura e dimensione dell’impresa a cui sono commissionate le opere.
Come noto, il contratto d’opera è quello che coinvolge la piccola impresa desumibile dall’art. 2083 c.c., che svolge la propria attività con la prevalenza del lavoro personale o dei componenti della famiglia, pur se con qualche collaboratore, ma in cui l’organizzazione non è tale da consentire il perseguimento delle iniziative di impresa, facendo a meno dell’attività esecutiva dell’imprenditore artigiano.
Il contratto di appalto, invece, prevede un’organizzazione di media o grande impresa.
Tuttavia, la stessa giurisprudenza ha evidenziato come classificazione dell’imprenditore, sebbene costituisca un indice significativo della natura del rapporto contrattuale, non rappresenta un elemento decisivo ai fini di tale qualificazione, poiché il contratto di appalto non è necessariamente incompatibile con la natura artigianale dell’impresa, né con il fatto che il lavoro sia eseguito da personale in prevalenza appartenente al nucleo familiare dell’imprenditore, allorché detta esecuzione sia comunque supportata da un’organizzazione dei mezzi di una certa importanza.
Nel fare applicazione di tale principio, il Tribunale di Pavia ha qualificato come appalto un contratto intercorso con un’impresa artigianale che per l’esecuzione dei lavori pattuiti aveva fatto ricorso a mezzi e professionalità estranee al suo nucleo familiare.
Contratto di appalto e contratto d’opera: il caso specifico
Il titolare di un’impresa individuale assumendo di non aver ricevuto il saldo dei lavori effettuati presso l’immobile del committente chiedeva ed otteneva decreto ingiuntivo nei confronti di quest’ultimo.
A seguito della notifica del decreto ingiuntivo, il committente presentava tempestiva opposizione, con la quale:
- chiedeva la revoca del decreto ingiuntivo, da un lato riconoscendo giuridicamente rilevante solo il preventivo concordato e già corrisposto quale prezzo totale dell’appalto, dall’altro deducendo di non aver commissionato opere extra contrattuali;
- proponeva domanda riconvenzionale, eccependo l’inadempimento dell’appaltatore nonché chiedendo condanna della controparte al pagamento di una somma di denaro per la sistemazione dei vizi e dei difetti del lavoro eseguito a titolo di risarcimento dei danni.
L’appaltatore, con comparsa di costituzione e risposta, contestava l’avversa ricostruzione dei fatti, precisando:
- che il documento redatto e prodotto da controparte era solo un preventivo di massima;
- che nel corso dell’esecuzione dei lavori erano state aggiunte delle opere extra relative alla parte esterna dell’immobile, che hanno comportato oltre ad un innalzamento del costo anche un prolungamento della durata dei lavori, causato, peraltro, dall’emergenza epidemiologica da Covid-19.
Quali elementi distinguono il contratto di appalto dal contratto d’opera?
In disparte il merito della questione, la pronuncia del Tribunale di Pavia offre un ottimo spunto per individuare gli elementi, in presenza dei quali è possibile ravvisare il contratto di appalto e non quello di opera.
In perfetta continuità con l’orientamento giurisprudenziale sul tema, il Tribunale di Pavia ha infatti ritenuto che nel caso di specie si ravvisasse lo schema dell’appalto sulla scorta dei seguenti elementi di fatto:
- la natura dell’incarico pacificamente conferito dal committente (realizzazione di opere edili presso la sua abitazione, parte di un più ampio intervento di recupero edilizio);
- l’importanza quantitativa dell’opera commissionata e del valore dell’opera che lasciano deporre per una corrispondente organizzazione di mezzi in capo all’imprenditore tipica dell’appalto, nonostante – lo si ribadisce – nel caso di specie l’appaltatore era un’impresa artigianale.
Distinguere lo schema dell’appalto da quello di contratto d’opera è estremamente importante, in quanto, come precisato anche dallo stesso Tribunale, le norme specificatamente dedicate all’appalto (come, ad esempio, i rimedi previsti della revisione del prezzo e dell’equo compenso, ai sensi dell’art. 1644 c.c., ove siano integrati i relativi presupposti, o la disciplina delle variazioni al progetto ex artt. 1659 ss c.c., nonché dei termini di decadenza e prescrizione per far valere la garanzia per difetti e difformità dell’opera, ex art. 1667 e 2226 c.c.) non sempre trovano applicazione analogica al contratto d’appalto.
Trib. Pavia, 16.10.2023, n. 1226
by Sara Turzo
Concessione demaniale implicita: è ammissibile?
Concessione demaniale implicita: è ammissibile? Si, il provvedimento amministrativo concessorio può avere natura implicita.
Questo è quanto affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza qui in commento.
Come noto, il provvedimento amministrativo è implicito quando la volontà dell'Amministrazione non si estrinseca in un provvedimento formale, ma è ricavabile da un contegno conseguente o da un comportamento cui non possa essere ricondotto un volere diverso da quello equivalente al contenuto del provvedimento formale non adottato (ex multis, Cons. St. Sez. V, 24.1.2019, n. 589).
Ebbene, sulla scorta di tali premesse, i giudici di Palazzo Spada hanno rigettato l’appello, confermando le statuizioni del giudice di primo grado.
Vediamo il caso concreto.
Una società, titolare di svariate concessioni demaniali marittime, si è vista recapitare, dal comune competente, un’ordinanza di demolizione di un manufatto in legno ospitante i servizi igienici dello stabilimento balneare, sull’assunto che detto manufatto risultava sprovvisto del titolo demaniale.
Ritenendo il provvedimento errato, la società ha chiesto, al TAR Sardegna, l’annullamento di tale provvedimento sostenendo, in sintesi, l’ininterrotta esistenza, dal 2005-2006 sino al 2012, di un titolo demaniale (ancorché non rinvenibile a livello documentale) anche sulla porzione demaniale relativa al manufatto in legno, con la conseguente applicazione, per gli anni successivi, delle proroghe ex lege in favore delle concessioni demaniali previgenti.
Il TAR adito ha accolto il ricorso, rilevando come, pur non essendo presente in atti un documento recante il titolo demaniale per l’anno 2009, l’esistenza di quest’ultimo è stata dimostrata, con sufficiente grado di certezza.
In particolare, il giudice di primo grado ha ritenuto provata l’esistenza, la validità e l’efficacia del titolo concessorio implicito, in virtù del fatto che esistono incontestabilmente quali titoli amministrativi espliciti (rectius: esplicitati in documenti formali) sia la concessione precedente, sia quella successiva, che menziona il suo rinnovo, con la conseguenza che, anche alla luce del principio dell’effetto utile, sarebbe irragionevole e ingiusto negare l’esistenza dell’atto intermedio.
L’amministrazione comunale, ritenendo, invece, che non vi sarebbe alcuna prova, nemmeno in via presuntiva, dell’esistenza della concessione demaniale, rilasciata nel 2009, ha impugnato la sentenza dinanzi al Consiglio di Stato, il quale, tuttavia, condividendo il percorso logico – giuridico del giudice di primo grado, ha rigettato il ricorso.
In particolare, i giudici di Palazzo Spada hanno condiviso la ricostruzione dei fatti esposta nella sentenza nella parte in cui, pur dando atto della formale mancanza del documento, ha illustrato tutti gli elementi oggettivi sulla base dei quali deve affermarsi che l’Amministrazione abbia effettivamente manifestato all’esterno la precisa volontà provvedimentale di rilasciare la concessione demaniale in favore della società.
Nell’occasione, il Consiglio di Stato ha tenuto a ribadire due principi.
- Il primo principio attiene alla libertà delle forme che può assumere il provvedimento amministrativo, non necessariamente vincolato ad assumere la forma scritta.
- Il secondo, invece, riguarda l’indirizzo esegetico seguito dalla giurisprudenza amministrativa secondo cui il provvedimento amministrativo concessorio può, talora, avere natura implicita.
Se volete saperne di più sul tema delle concessioni demaniali, sulle novità normative e sugli orientamenti giurisprudenziali più recenti, vi invitiamo a scaricare gratuitamente il nostro paper "Concessioni Balneari", giunto alla X edizione, a cura degli Avv.ti Rosamaria Berloco e Pietro Falcicchio, con la collaborazione di Sara Turzo e Marica De Angelis.
Cons. St., Sez. VII, 17 gennaio 2024, n. 537
by Sara Turzo
Clausola risolutiva espressa: se di mero stile, è priva di efficacia
È priva di efficacia, in quanto di mero stile, la clausola risolutiva redatta in termini generici.
Il Tribunale civile di Latina, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità o meno di una risoluzione contrattuale a seguito di recesso anticipato esercitato dall’attore che si era avvalso della clausola risolutiva espressa, ha affermato che una “clausola redatta con generico riferimento a tutte le obbligazioni contenute nel contratto deve essere considerata come una mera “clausola di stile”, non apportando alcuna modifica al meccanismo della risoluzione giudiziale”.
Ci eravamo già soffermarti sull’importanza di alcuni elementi essenziali affinché un contratto “funzioni” (qui la news “Scrivere un contratto non è un gioco da ragazzi. Come devono essere approvate le clausole vessatorie?).
Oggi, con il presente contributo, approfondiremo come redigere una clausola risolutiva espressa, affinché, laddove il contraente voglia esercitarla, non incorra, come nel caso esaminato dal Tribunale di Latina, nella sua inoperatività perché nulla per indeterminatezza dell’oggetto.
Il caso specifico
Una società citava in giudizio un’altra società con la quale asseriva di aver stipulato un contratto di agenzia monomandatario avente ad oggetto la vendita, promozione, e commercializzazione di prodotti e servizi con utilizzo del marchio, insegna ed immagine della stessa.
Aggiungeva, poi, che dopo aver riscontrato alcune difformità e anomalie, di aver diffidato, l’agente a consegnare copia di tutta la documentazione relative alle attivazioni delle SIM e che decorso inutilmente tale termine, il contratto doveva ritenersi risolto di diritto ai sensi dell’art. 1454 c.c., come previsto dal contratto stesso.
Tale contratto, infatti, conteneva una clausola risolutiva espressa la quale attribuiva al contraente il potere di risolvere il contratto a seguito dell’inadempimento degli obblighi stabiliti in contratto.
La decisione del Tribunale.
Il Tribunale di Latina, facendo proprio un orientamento ormai consolidato della Suprema Corte, ha precisato che è priva di efficacia in quanto “di stile” la clausola risolutiva espressa redatta in termini generici.
La clausola risolutiva espressa è redatta in termini generici quando non contiene un riferimento a specifiche inadempienze ma alla violazione di uno o qualsiasi dei patti contrattuali.
La clausola risolutiva espressa, infatti, presuppone che le parti abbiano previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell’inadempimento di una o più obbligazioni specificatamente determinate, sicché la clausola che attribuisca ad uno dei contraenti la facoltà di dichiarare risolto il contratto per gravi e reiterate violazioni dell’altro contraente a tutti gli obblighi da esso discendenti va ritenuta nulla per indeterminatezza dell’oggetto.
In definitiva, dunque, la clausola risolutiva espressa per essere valida, deve contenere l’esatta e precisa indicazione dei patti contrattuali, la cui violazione determina la risoluzione.
Trib. Latina, Sez. I, 31.10.2023, n. 2318
by Sara Turzo
Riserve negli appalti pubblici: posso iscriverle se manca il registro di contabilità?
In assenza di registro di contabilità, l’appaltatore ha la “facoltà” e non il “dovere” di iscrivere la riserva nel primo atto di contabilità utile immediatamente successivo.
Ciò è quanto affermato dalla Corte di cassazione, con ordinanza n. 33118 dello scorso 29 novembre, la quale, chiamata a pronunciarsi in tema di tempestività della formulazione delle riserve, ha chiarito che “solo in esso [n.d.r. registro di contabilità] si ha il dovere o l’onere di iscrivere le richieste dell’appaltatore a pena di decadenza, perché da esso soltanto è rilevabile l’incidenza che le varie vicende potranno avere sui costi dell’appalto sia per il committente sia per l’appaltatore”.
Nell’appalto di opere pubbliche, quindi, solo con l’istituzione del registro di contabilità sorge il dovere di iscrivere le riserve relative ai lavori eseguiti in precedenza.
La vicenda giunta all’attenzione della Corte di cassazione trae origine da una richiesta di condanna della stazione appaltante, formulata dalla società appaltatrice, al risarcimento dei danni come quantificati dalle n. 11 riserve iscritte nel corso del rapporto contrattuale.
Sia il Tribunale che la Corte d’appello hanno condannato la stazione appaltante al risarcimento danni, ritenendo tempestive le riserve.
Avverso la sentenza della Corte d’appello, la stazione appaltante ha, poi, proposto ricorso innanzi la Corte di cassazione, deducendo, in estrema sintesi, che la Corte d’appello avrebbe disatteso il principio generale secondo cui le riserve sono da iscrivere, a pena di inammissibilità, nel primo atto idoneo a riceverle successivo all’insorgere del fatto costitutivo, ossia, nella specie, nel libretto delle misure.
A tal fine, deve precisarsi che nel caso di specie non era stato tenuto il registro di contabilità. Pertanto, la Corte d’appello aveva ritenuto tempestive le riserve, evidenziando, tra le altre, che “alla luce dell’elaborazione di legittimità, il libretto delle misure non si prestava a sostituire il registro della contabilità, sicché unicamente nel registro della contabilità – e non già nel libretto delle misure- l’appaltatore avrebbe avuto l’obbligo di iscrivere le eventuali riserve”.
La Corte d’appello ha quindi ritenuto che mancando il registro di contabilità, venisse meno l’onere di iscrivere la riserva nel primo atto di contabilità utile immediatamente successivo.
Per la Suprema Corte, la tesi proposta dal ricorrente va disattesa e, richiamando i principi già pronunciati con la sentenza n. 3525 del 24 marzo 2000, ha affermato che “in assenza del registro, l’appaltatore avrà la facoltà e non l’onere all’atto della firma d’inscrivere in succinto in quei documenti contabili che devono essere da lui firmati le riserve e le domande che crederà del proprio interesse”.
La Corte ha chiarito che nell’appalto di opere pubbliche il registro di contabilità è solo il documento le cui pagine sono preventivamente numerate e firmate dall’ingegnere capo e dall’appaltatore e nel quale le singole partite siano iscritte rigorosamente in ordine cronologico (art. 52 r.d.n. 350/1895), per cui esso non può identificarsi né con il libretto delle misure, sul quale si annotano la misura e la classificazione dei lavori (art. 42 n.d.r. n. 350/1895), né con il giornale dei lavori di cui all’art. 40 del r.d. citato, in cui si registra settimanalmente la progressione dei lavori.
Il registro di contabilità è l’unico documento non tenuto sul luogo di lavori da cui emerge una visione d’insieme o unitaria dell’esecuzione dell’appalto; cosicché solo in esso si ha il dovere o l’onere di iscrivere le richieste dell’appaltato a pena di decadenza, perché da esso soltanto è rilevabile l’incidenza che le varie vicende potranno avere sui costi dell’appalto sia per il committente sia per l’appaltatore.
Ne consegue, dunque, - a parere della Corte di cassazione - che il registro di contabilità non può essere qualsiasi documento contabile dal quale non risulti una visione complessiva delle opere eseguite secondo il loro ordine cronologico e del rilievo che eventuali variazioni di esse possono avere dei costi dell’appalto per ambedue le parti contraenti.
Sulla base di tali premesse, la Suprema corte ha, quindi, ritenuto di non poter recepire il rilievo della ricorrente a tenore del quale “sul primo atto dell’appalto, successivo all’insorgere del fatto, qualunque esso sia, va iscritta la riserva”.
Ora, quella dell’apposizione delle riserve negli appalti pubblici è una problematica che assume notevole importanza per gli operatori, soprattutto per quanto riguarda i termini e le decadenze (ne abbiamo parlato qui).
In disparte, quindi, i principi enunciati dalla Suprema Corte, a parere di scrivere, in tema di riserve, la locuzione latina melius est abundare quam deficere (letteralmente “è meglio abbondare che scarseggiare”) rappresenta l’esatta sintesi di un approccio prudenziale e cautelativo che fa da contrappeso ad un quadro normativo non sempre chiaro e puntuale.
Cass. Civ. ord. 29.11.2023, n. 33118
Clausola penale: anche un solo giorno di ritardo può costare caro.
Clausola penale: anche un solo un giorno di ritardo può costare caro. Questa potrebbe essere una delle massime da estrapolare dalla recente ordinanza della Corte di Cassazione qui in commento, con la quale è stato chiarito che la buona fede non può servire a stabilire il rispetto di un termine di pagamento.
Per cui in caso di ritardo nel pagamento, anche di un solo giorno, il creditore può attivare la clausola penale.
Il caso specifico.
Nel corso di una controversia, veniva stipulato un accordo in base al quale il debitore si impegnava a corrispondere al creditore una somma pari a 700 mila dollari in due rate: la prima di 260 mila entro il 30 giugno e la seconda di 440 mila entro il 30 settembre. In tale accordo veniva inserita una clausola penale secondo cui in caso di “ritardato o mancato pagamento, anche di una sola rata ed anche per un solo giorno”, si conveniva il pagamento di una clausola penale pari a 350 mila dollari. Accadeva che la rata finale veniva accreditata il 5 ottobre. Dato che il pagamento doveva avvenire entro il 30 settembre, parte creditrice, determinata nella scelta di far valere la clausola penale, otteneva un decreto ingiuntivo esecutivo, prontamente opposto dal debitore, il quale sosteneva che il bonifico era stato effettuato in tempo, ossia il 27 settembre, e che soltanto per il ritardo o comunque per i tempi imputabili alla banca, la somma era stata accreditata il successivo 5 ottobre.
Il Tribunale di Treviso accoglieva l’opposizione.
Parte creditrice interponeva appello innanzi la Corte d’appello di Venezia, la quale, nel confermare la tesi del giudice di primo grado, richiamava altresì il principio di buona fede.
La questione giungeva, quindi, innanzi alla Suprema Corte.
Il creditore proponeva ricorso innanzi alla Suprema Corte, denunciando la violazione degli artt. 1176, 1218, 1382 e, per l’effetto, gli artt. 1176 e 1218 c.c.
In particolare, riteneva come non fosse possibile considerare tempestivo un pagamento che aveva determinato la disponibilità della somma in capo al creditore dopo la scadenza del termine, in base al principio di buona fede che serve, sì, a valutare l’importanza dell’inadempimento, ma non l’esattezza dell’adempimento, e ciò a maggior ragione in presenza di una clausola penale.
A sua volta, il debitore proponeva ricorso incidentale condizionato all’accoglimento di quello principale, il quale, denunciando la violazione dell’art. 1384 c.c., ha chiesto, in via subordinata, la riduzione della penale ad equità, ritenendola manifestamente eccesiva.
La decisione della Corte.
La Corte di Cassazione ha ritenuto meritevole di accoglimento entrambi i ricorsi.
Per quanto riguarda il ricorso principale, la Corte di Cassazione, richiamato un principio consolidato secondo cui “l’adempimento dell’obbligazione pecuniaria, ai sensi degli articoli 1182, comma 2 e 1183 c.c., si perfeziona nel luogo e nel tempo in cui il creditore entra in concreto nella disponibilità della somma di denaro”, ha chiarito che la buona fede non può servire a stabilire il rispetto di un termine di pagamento, ossia non può essere applicata per decidere se il termine è rispettato in un momento (ordine di bonifico) o in un altro (effettivo accreditamento), e dunque quale sia il termine esatto entro cui adempiere.
Per quanto riguarda il ricorso incidentale, la Corte di Cassazione ha chiarito che il giudice di merito non deve tener conto degli effetti che il pagamento della penale può avere sul patrimonio del debitore ma se essa è giustificata alla luce dell’interesse del creditore, ossia se il ritardo nel pagamento ha costituito per il creditore un danno tale da richiedere da essere compensato con l’importo individuato nella clausola penale.
In definitiva, dunque, quando in un contratto o in un accordo si pattuisce di inserire una clausola penale occorre prestare la dovuta attenzione nell’adempiere correttamente e senza ritardo alcuno l’obbligazione sottesa.
A tal fine si rammenta che “il pagamento delle obbligazioni per somma di denaro che devono essere adempiute al domicilio del debitore, ove effettuabile in banca, si perfeziona, con la liberazione dell’obbligato, solo allorché la rimessa entri materialmente nella disponibilità dell’avente diritto e non anche quando (e per il solo fatto che) il debitore abbia inoltrato alla propria banca l’ordine di bonifico e questa abbia pur dichiarato di avervi dato corso” (Cass. Civ., 149/2003).
Tuttavia, in caso di ritardato pagamento è possibile ridurre la clausola penale in un accordo da parte del giudice, quando, valutati tutti gli interessi in gioco, la clausola risulti troppo onerosa.
(Cass. Civ. Sez. III, ordinanza 20.9.2023, n. 26901).
by Sara Turzo