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Sopravvenienze contrattuali: il principio di buona fede può cambiare anche la sorte di un contratto di fornitura

Nei contratti di durata, nello spazio temporale che investe l’esecuzione di un contratto possono verificarsi degli eventi che mutano il contesto giuridico ed economico in cui il negozio si è formato.

Gli eventi che intervengono dopo la sottoscrizione di un contratto, durante l’esecuzione e, dunque, prima della sua conclusione si definiscono sopravvenienze.

Il tema delle sopravvenienze nell'ambito dei contratti pubblici, solitamente ricondotto agli appalti di lavori, investe anche le forniture.

È il caso posto all’attenzione del Tribunale di Napoli il quale, in caso di sopravvenienze – dovute nel caso specifico ad un aumento eccezionale ed imprevisto dei prezzi di materiali – ha posto l’accento su un sistema rimediale basato non più solo su istituti caducatori, bensì anche manutentivi e conservatori, basati sulla clausola generale della buona fede.

Il fatto

La società affidataria di un appalto pubblico per la fornitura, installazione e manutenzione di server e storage per Cluster di Supercalcolo conveniva in giudizio la stazione appaltante, la quale aveva ingiustamente risolto il contratto per inadempimento dell’appaltatore, con anche applicazione delle penali.

Occorre premettere che l’oggetto dell’appalto si componeva di 2 fasi: una prima fase, denominata fornitura base ed una seconda, denominata fornitura opzionale, che poteva essere attivata a totale discrezione della stazione appaltante entro un termine prefissato dalla lex specialis. I prezzi della fornitura, anch’essi “scomposti” in base alla fase di riferimento, erano fissi ed invariabili.

All’atto dell’esercizio dell’opzione da parte della stazione appaltante di avvalersi della seconda fase del contratto, tuttavia, la società affidataria aveva evidenziato che le condizioni di mercato erano mutate per un eccezionale aumento dei prezzi di alcune componenti previste nella fornitura opzionale (Fase 2) e che, dunque, la fornitura si sarebbe potuta concretizzare solo a seguito “di una rivisitazione condivisa della configurazione del sistema che tenga conto degli eccezionali aumenti dei prezzi di questi ultimi anni”.

La stazione appaltante, di contro, in assenza di esplicite pattuizioni contrattuali, risolveva il contratto per inadempimento, applicando le relative penali, per mancata erogazione della fornitura a far data dalla attivazione della fase opzionale.

I motivi di censura

La società affidataria deduceva in giudizio che, per circostanze imprevedibili, i prezzi delle memorie (componente per la fornitura della Fase 2) si erano triplicati e che, dunque, in luogo della risoluzione, si sarebbero potuti applicare gli articoli 1467 c.c. e 1664 c.c.: in altre parole, secondo la società, l’eccezionale aumento dei costi dei materiali tecnologici avrebbe giustificato una rinegoziazione del contratto, o comunque una revisione dei prezzi contrattualmente pattuiti.

Con specifico riferimento alla normativa speciale in materia d’appalti, la società attrice richiamava, altresì, l’art. 106, comma 11, del d.lgs. 50/2016 che impone di preservare il rapporto d’appalto solo quando le “variazioni” siano circoscritte entro il limite del c.d. “quinto d’obbligo” (pari al 20% dell’importo contrattuale) e non anche quando, come nella specie, le richieste della committente “stravolgano” l’oggetto del contratto, imponendo all’appaltatore prestazioni di importo eccedente di gran lunga il 50% dell’importo contrattuale.

Eccepiva, infine, l’inapplicabilità della clausola contrattuale sui prezzi fissi ed invariabili, la doverosità della stazione appaltante della revisione del prezzo, nonché la illiceità delle penali.

Ad avviso dell’appaltatore, dunque, l’aumento dei prezzi delle memorie rendeva il contratto non più conforme alla realtà negoziale e all’assetto degli interessi che avevano originariamente spinto la società a partecipare alla gara e sottoscrivere il contratto.

Si costituiva in giudizio la stazione appaltante, sostenendo che alcun meccanismo di revisione dei prezzi poteva operare in relazione al contratto: l’abrogazione dell’art. 115 del Codice del 2006 che espressamente regolava la revisione dei prezzi fa sì che le sopravvenienze ad oggi sono regolate esclusivamente dall’art. 106 del d.lgs. 50/2016 e non dall’art. 1664 c.c., per cui un meccanismo di revisione di prezzi può essere previsto solo consensualmente. Nel caso di specie il meccanismo di revisione di prezzi era stato precisamente escluso dalla clausola contrattuale sui prezzi fissi ed invariabili, per cui non poteva operarsi alcuna revisione dei prezzi contrattualmente pattuiti.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale di Napoli - dopo un lungo percorso motivazionale, che parte dal generale dovere di buona fede ex art. 1375 c.c. che incombe sulle parti nell’esecuzione del contratto - ha affermato l’illegittimità della risoluzione disposta dalla committente per inadempimento dell'appaltatore.

In particolare, il Tribunale ha rammentato che, in via generale, la buona fede implica il dovere di ciascuna parte di realizzare l’interesse dell’altra o di evitare di recarle danno, anche con l’adempimento di obblighi non previsti dalla legge o dal contratto. Le parti, pertanto, sono tenute ad eseguire il contratto senza pretendere dalla controparte un sacrificio ingiustificato ed eccessivo del proprio interesse negoziale per realizzare quello proprio: diversamente, infatti, si determina uno squilibrio patrimoniale non ammesso nell’ordinamento.

E ciò, specie ove, come accaduto nel caso di specie, il prezzo delle memorie è grandemente aumentato in ragione del macroscopico aumento dell’utilizzo delle RAM in altri supporti, circostanza mai verificatasi prima, come peraltro accertato anche dal CTU.

Nello specifico, poi, il giudicante ha richiamato il Codice dei contratti pubblici ed ha ricordato che dopo l’abrogazione dell’art. 115 del Codice del 2006 - che recava un’ipotesi doverosa ed inderogabile di revisione di prezzi periodica, che avrebbe determinato la nullità della clausola contrattuale sui prezzi fissi ed invariabili -, manca un’analoga previsione nel vigente art. 106 del d.lgs. 50/2016 che regola le modificazioni del rapporto a vario titolo.

Di conseguenza, dando una lettura interpretativa al combinato disposto dell’abrogato art. 115 del Codice del 2006 e del vigente art. 106 del Codice del 2016, il giudice ha affermato che la stazione appaltante non poteva procedere a richiedere l’esecuzione del contratto perché, considerando l’aumento dei costi delle memorie di almeno il 50%, la variazione del sinallagma era superiore ad 1/5 considerato dal comma 11 dell’art. 106 del Codice del 2016.

Il Tribunale si è, dunque, interrogato sulle sorti del contratto qualora, come nel caso di specie, non sia possibile addivenire ad una revisione dei prezzi.

Nel caso di specie, infatti, era da escludere sia la colpa dell’appaltatore al quale non poteva essere richiesto l’adempimento perché eccessivo rispetto a quanto stabilito dall’art. 106, comma 11 del Codice del 2016, sia la colpa del committente, il quale non è obbligato alla rinegoziazione, né per legge, né per contratto.

Per il Tribunale, dunque, occorre far riferimento ai principi generali in materia di contratti e risoluzione, con riguardo alle ipotesi di squilibrio del sinallagma funzionale nei contratti di durata incolpevole: nel caso di specie, dunque, i giudici hanno applicato l’art. 1467 c.c. che disciplina la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

È noto, infatti, che l’art. 1457 c.c. opera qualora le circostanze esterne che hanno inciso sul contratto squilibrandolo siano imprevedibili e perciò non ricomprendibili nel rischio economico del contratto, ossia nell’alea o comunque nel rischio fisiologico proprio di ciascun contratto.

Il giudice ha dunque dichiarato risolto il contratto in forza del disposto dell’art. 1467 c.c. (eccessiva onerosità sopravvenuta) in favore dell'appaltatore.

Considerazioni operative

La sentenza in parola conferma, dunque, seguendo il principio di conservazione del contratto, che è necessario far riferimento non più soltanto alle (statiche) disposizioni scolpite nell’accordo intercorso tra le parti, ma è necessario individuare nella clausola generale di buona fede la fonte di integrazione dell’accordo con ulteriori obblighi comportamentali non specificamente disposti dalla legge.

In altre parole, in assenza di una specifica norma codicistica che disciplini la rinegoziazione dei contratti, anche nell'ambito di un contratto pubblico vige l’obbligo di avviare le trattative che potrebbero condurre alla rinegoziazione del contratto, alla luce clausola generale della buona fede: il contratto sopravvive ma adeguato e rinegoziato.

Qualora, invece, tale rinegoziazione non sia possibile, trovano applicazione i principi generali in materia di contratti e risoluzione di cui all’art. 1467 c.c.

(Tribunale di Napoli, Sez. III, 15.7.2022, n. 7151)


I confini delle reciproche concessioni nel contratto di transazione

I confini delle reciproche concessioni nel contratto di transazione

I confini delle reciproche concessioni nel contratto di transazioneLa transazione è l’istituto finalizzato a conseguire il superamento del conflitto sfociato in una lite, o per prevenire quest’ultima, attraverso reciproche concessioni che danno vita ad una nuova regolazione del rapporto intersoggettivo non più conflittuale.

Il presupposto primario del contratto di transazione è, quindi, che ci sia una lite attuale o una potenziale, - giacché funzione della transazione è anche quella di porsi quale strumento negoziale di prevenzione di una lite-, e che ciascuna parte sacrifichi in parte la propria pretesa, mediante reciproche concessioni.

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di transazione, sotto il profilo delle reciproche concessioni.

I fatti

Una società ingiungeva, nei confronti di un’altra società, il pagamento del corrispettivo per lavori di manutenzione eseguiti. In punto di fatto, la società ricorrente deduceva di essere addirittura creditrice di un importo maggiore rispetto a quello azionato in via monitoria, giacché in forza di un accordo concluso con la società avversaria l’entità del credito era stata ridotta rispetto all’importo originario.

Il giudice di primo grado, qualificato l’accordo negoziale intervenuto tra le parti come transazione, revocava il decreto ingiuntivo per integrale pagamento di quanto pattuito in via transattiva, avvenuto nelle more del giudizio.

L’impianto motivazionale veniva confermato anche in sede di gravame.

Avverso la sentenza della Corte d’appello, la società ricorre per Cassazione, censurandola nella parte in cui è stato erroneamente qualificato l’accordo come transazione, sull’assunto che difetterebbero i presupposti della transazione.

La società ricorrente qualificava l’accordo intercorso tra le parti come remissione parziale del debito, condizionata al pagamento del dovuto alle scadenze pattuite.

A parere della società ricorrente, dunque, tra le parti non vi era alcun rapporto con carattere di incertezza, ma soltanto un inadempimento da parte della società avversaria e quest’ultima non aveva compiuto alcuna concessione.

Pertanto, l’accordo doveva essere qualificato come un mero riconoscimento del debito e non come una transazione.

La decisione della Corte di Cassazione

Nel richiamare l’art. 1965 c.c.., norma che definisce il contratto di transazione, la Corte di Cassazione rigetta la tesi della società ricorrente.

In particolare, la Corte afferma che per integrare l’elemento della “res litigiosa” non occorre che le rispettive tesi delle parti abbiano assunto la determinatezza propria della pretesa, essendo sufficiente l’esistenza di un dissenso potenziale, pur se ancora da definire nei più precisi termini di una lite, e non esteriorizzata in una rigorosa formulazione.

Con riferimento alle reciproche concessioni, la Corte ha, poi, evidenziato come sia stato ritenuto idoneo anche un accordo con il quale le parti si limitano ad apportare modifiche solo quantitative ad una situazione già in atto e a regolare il preesistente rapporto mediante reciproche concessioni, consistenti (anche) in una bilaterale e congrua riduzione delle opposte pretese in modo da realizzare un regolamento di interessi sulla base di un “quid medium” tra le prospettazioni iniziali.

Più in generale, è stato affermato dai giudici di legittimità che in tema di transazione, le reciproche concessioni devono essere intese in correlazione con le reciproche pretese e contestazioni e non già in relazione ai diritti effettivamente a ciascuna delle parti spettanti.

Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, dunque, l’accordo concluso dalle parti integrava una vera e propria transazione. Allo scopo, infatti, di superare un dissenso potenziale, l’accordo prevedeva che la debitrice si obbliga a versare alla ricorrente un importo che costituiva un quid medium tra la pretesa avanzata da quest’ultima e quanto invece riteneva di dover versare la debitrice.

Indicazioni operative

Il contratto di transazione può essere dunque definito come un contenitore, all’interno del quale le parti possono ricondurre i più svariati rapporti giuridici tra loro esistenti e dal quale possono scaturire nuovi rapporti, nei limiti della disponibilità ad opera delle parti dei diritti che ne formano oggetto.

Ad ogni buon conto, ciò che conta è che dalla scrittura contenente la transazione risultino gli elementi essenziali della transazione e, quindi, la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista, la “res dubia” o la “res litigiosa”, vale a dire la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche delle parti, nonché il nuovo regolamento di interessi che, mediante reciproche concessioni, viene a sostituirsi a quello precedente cui si riconnetteva la lite o il pericolo di lite.

(Cass. civ., Sez. III, 31.8.2022, n. 25600)