Ordinanza di demolizione e sequestro penale: delle due, l’una?

Sequestro

Nell’edilizia, il diritto amministrativo e quello penale intrecciano spesso le loro strade.

Tra i casi più frequenti vi è certamente l’adozione di provvedimenti repressivo-sanzionatori di abusi edilizi posti in essere da un’Amministrazione comunale (ordinanza di demolizione) e dall’Autorità giudiziaria penale (sequestro).

Una recente pronuncia del TAR Salerno (sez. I, 14.10.2022 n. 2670) è tornata sul tema del rapporto tra i due ordini sanzionatori, evidenziando quanto (e come) l’uno possa inficiare l’altro.

I. L’antefatto della decisione

Il ricorrente è stato destinatario di un’ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi, per aver realizzato un immobile in totale assenza di titoli abilitativi, senza aver richiesto (peraltro) l’autorizzazione paesaggistica alla competente Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio.

Ma l’attività sanzionatoria non si è conclusa qui.

Ed infatti, ai sensi del Testo Unico dell’Edilizia, tale attività edilizia abusiva integra anche una fattispecie di reato (art. 44 D.P.R. 380/2001, come vedremo): di conseguenza, la Procura della Repubblica territorialmente competente, ricevuta notizia dell’illecito, ha immediatamente disposto il sequestro dell’immobile.

La contemporanea adozione dei due provvedimenti (uno amministrativo, l’altro penale) ha spinto il ricorrente ad invocare innanzi alla sezione distaccata del TAR Campania la nullità dell’ordinanza di demolizione, proprio alla luce della convalida del sequestro penale.

Ma il Giudice Amministrativo ha respinto il motivo di ricorso.

II. La normativa di riferimento

L’abuso edilizio di cui si discorre rappresenta uno dei tipici esempi di “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”, sanzionato a norma dell’art. 31 D.P.R. 380/2001.

Ai sensi della citata norma, in particolare

Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3.

Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.

Poste tali sanzioni amministrative, come già accennato il Testo Unico dell’Edilizia prevede che realizzare abusi edilizi di particolare gravità e rilevanza integri anche una fattispecie di reato, tipizzata dall’art. 44 D.P.R. 380/2001, rubricato proprio “Sanzioni penali”:

Salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative, si applica:

(…)

b) l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 5.164 a 51.645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l'ordine di sospensione.

È proprio in virtù dell’invocato art. 44, co. 1, lett. b) che è stata avviata l’azione penale e, nell’ambito di questa, disposto il sequestro dell’immobile abusivo.

Orbene, secondo il ricorrente l’ordinanza di demolizione adottata sarebbe radicalmente nulla, poiché il sequestro penale ha determinato un materiale spossessamento dell’immobile stesso, con la conseguenza che il responsabile dell’abuso si trova nella concreta impossibilità di eseguire l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi.

Ma questa tesi non ha persuaso il Giudice Amministrativo il quale, soprattutto alla luce dei chiari precedenti giurisprudenziali sul punto specifico, ha respinto il gravame.

III. La decisione del TAR

Il Tribunale, infatti, ha ribadito il pacifico principio in virtù del quale

Il sequestro di un immobile abusivo ad opera dell’autorità giudiziaria penale non determina l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione che lo attinge, bensì soltanto una “sua inefficacia temporanea” in reazione all’eventuale differimento del termine fissato per la rimessa in pristino, decorrente dalla data del dissequestro, che sarà onere dell’interessato richiedere tempestivamente allo scopo di ottenere l’autorizzazione a provvedere direttamente alla demolizione e al ripristino dei luoghi.

In buona sostanza, l’adozione di entrambi i provvedimenti è atto dovuto da parte delle rispettive Autorità (sempreché, ovviamente, ricorrano tutti i presupposti di legge), senza che l’attività - o inattività - di una infici l’altra.

Pertanto, la pendenza di un sequestro penale su un immobile ha, come unico effetto sul provvedimento amministrativo sanzionatorio, quello di renderlo temporaneamente inefficace, ossia ineseguibile da parte del responsabile dell’abuso, che non potrà ripristinare lo stato dei luoghi a causa del materiale spossessamento del bene.

Ne deriva, dunque, che l’Amministrazione non potrà adottare gli ulteriori provvedimenti sanzionatori (ossia, ad esempio, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale) fintantoché il responsabile dell’abuso non abbia volontariamente inadempiuto all’ordinanza di demolizione.

E proprio il comportamento del destinatario del provvedimento sanzionatorio è oggetto di apposita valutazione da parte del TAR: la mera pendenza di un sequestro non può giustificare una sua totale inerzia, dovendo per contro impegnarsi a chiedere tempestivamente il dissequestro (nell’apposita sede del giudizio penale) dell’immobile, così da poter provvedere spontaneamente alla rimozione degli abusi.

IV. Riflessioni conclusive

Tali principi, come detto, sono pacifici in giurisprudenza; tant’è che nel medesimo senso si sono più volte espressi sia diversi TTAARR (cfr. TAR Palermo, sez. I, 18.5.2022, n. 1629; TAR Roma, sez. II-bis, 10.1.2022 n. 176), sia il Consiglio di Stato (sez. II, 15.11.2021, n. 7563; sez. VI, 7.7.2020, n. 4354).

La sentenza in rassegna, comunque, si caratterizza per la particolare chiarezza espositiva, ed offre l’occasione per ritornare su un tema sempre “caldo”: molto spesso, infatti, si cerca di creare una commistione tra il procedimento amministrativo e quello penale, così da sfruttare nell’uno eventuali accertamenti positivi dell’altro.

Ma tale commistione non è assolutamente possibile.

Ed infatti,

il giudizio penale e quello amministrativo della competente P.A. sono relativi all'esercizio di poteri reciprocamente autonomi, e ciò implica che, salvi gli effetti del giudicato, l'Ufficio comunale - nell'esercizio delle proprie prerogative di accertamento e sanzione dell'abuso edilizio - può certamente avvalersi delle risultanze di fatto emerse durante le indagini preliminari, laddove gliene risultino estremi e contenuti, ma non è esonerato dalla responsabilità di una ponderata ed appropriata valutazione autonoma dei fatti e delle loro qualificazioni giuridiche.

Insomma, non “delle due, una”, ma “delle due, entrambe”!


Quando può essere disposta la fiscalizzazione di un abuso?

Fiscalizzazione abuso 34

In precedenti articoli abbiamo parlato della c.d. fiscalizzazione degli abusi edilizi, prevista dall’art. 34, co. 2, del Testo Unico dell’Edilizia.

Una recente sentenza del TAR Venezia (la n. 1362 del 12 settembre 2022) offre l’occasione per ritornare sul tema e, in particolare, sul quando può essere disposta la "fiscalizzazione" di un abuso.

Ma procediamo con ordine.

I. L’antefatto della decisione

La società ricorrente ha acquistato un immobile a destinazione commerciale dopo che la società alienante aveva dato avvio (tramite DIA alternativa al Permesso di Costruire) a lavori di ristrutturazione edilizia di parte del fabbricato.

Durante tali lavori, a seguito di un accertamento condotto dal Comune, sono state rilevate una serie di difformità rispetto alla citata DIA, in conseguenza delle quali è stata dapprima ordinata la sospensione dei lavori, e successivamente erogata la sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 34 D.P.R. 380/2001.

Proprio l’ordinanza con cui è stata comminata la sanzione pecuniaria è oggetto del giudizio innanzi al TAR Venezia: in particolare, secondo la società ricorrente l’Amministrazione comunale avrebbe errato nel comminare immediatamente tale sanzione, dovendo innanzitutto attendere la conclusione dei lavori; successivamente, a valle di nuove verifiche, avrebbe dovuto ordinare prima il ripristino delle opere e, soltanto a fronte di esplicita richiesta di parte, procedere alla quantificazione della sanzione pecuniaria.

II. La normativa di riferimento

Nel caso di specie si discorre della corretta applicazione dell’art. 34 Testo Unico Edilizia, perché il Comune resistente ha ritenuto che gli abusi realizzati dalla società ricorrente rientrassero nell’ambito degli “interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”.

Orbene, il legislatore ha riconosciuto una minore gravità a questi abusi rispetto a quelli realizzati in totale difformità o addirittura in assenza del P.d.C. (puniti ai sensi dell’art. 31 TUEd), e, di conseguenza, ha previsto una sanzione alternativa alla demolizione (unica sanzione comminabile ex art. 31 cit.), appunto pecuniaria.

In particolare, ai sensi del comma 2 dell’art. 34 D.P.R. 380/2001:

Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale

Già dal chiaro dettato nella norma si evince che conditio sine qua non per la comminazione della sanzione pecuniaria è la impossibilità di eseguire la demolizione dell’opera abusiva, perché da essa deriverebbero danni alla parte di immobile realizzata conformemente al titolo edilizio.

III. La decisione del TAR

Il Tribunale veneto, nel rigettare il motivo di ricorso sollevato dalla società ricorrente, offre un interessante spunto interpretativo del citato art. 34, co. 2, alternativo a quello della giurisprudenza maggioritaria.

Partendo dal presupposto che “di regola, a fronte della constatazione di una parziale difformità dal titolo edilizio, il Comune irroga la sanzione reale, per poi eventualmente convertirla in sanzione pecuniaria (ove l’interessato lo richieda e dimostri l’impossibilità di procedere al ripristino senza pregiudicare le parti conformi)” – sul punto, richiamiamo in questa sede anche la recente pronuncia del TAR Trento, sez. I, n. 50 del 4.3.2022 – il Tribunale sostiene che questa non è l’unica soluzione offerta dall’art. 34.

Una più attenta lettura della norma, secondo il Tribunale, permette di sostenere che il Legislatore abbia inteso legare tale sanzione (pecuniaria) alla oggettiva impossibilità di eseguire la sanzione demolitoria, con ciò sottraendo la “disponibilità” della richiesta al privato responsabile dell’abuso.

Di conseguenza, è dichiarata infondata la tesi della società ricorrente per cui la sanzione pecuniaria può essere irrogata solo in esito ad una esplicita richiesta di parte: laddove il Comune procedente accerti – in qualunque stadio si trovino i lavori, che siano conclusi o meno – che le opere abusive non possono essere demolite senza arrecare nocumento alle parti legittime dell’immobile, deve essere irrogata la sanzione pecuniaria ex art. 34, co. 2, D.P.R. 380/2001.

IV. Possibili scenari futuri

Come accennato, la decisione in commento non contesta integralmente gli approdi raggiunti dalla giurisprudenza amministrativa maggioritaria in questi anni, ma – nei fatti – si pone in alternativa a questa lettura, offrendo una soluzione meno formalistica e più corrispondente ai principi di buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Non può, infatti, sfuggire che nei casi di palese impossibilità di demolire, pare del tutto inutile attendere, nell’ordine: 1) l’adozione dell’ordinanza di demolizione; 2) il decorso di 90 giorni per l’esecuzione spontanea; 3) eventuale istanza di fiscalizzazione; 4) valutazione della demolibilità del bene.

Il TAR Veneto, in una lettura più sostanzialistica della norma, ritiene che ben possa essere bypassato questo lungo iter nei (soli) casi di palese impossibilità di demolire.

Sembra, in effetti, che una tale soluzione possa essere salutata con particolare favore, in quanto appare in grado di tutelare sia il privato (che può immediatamente accedere alla sanzione pecuniaria, senza prima cadere nelle “forche caudine” dell’ordinanza di demolizione), sia le Amministrazioni statali, che potranno concludere immediatamente il procedimento sanzionatorio.


È legittima la richiesta di rideterminazione dei costi di costruzione?

Costi di costruzioneI costi di costruzione sono una delle componenti del contributo economico dovuto all'Amministrazione, ai sensi dell’art. 16 del Testo Unico dell’Edilizia, al momento del rilascio di un Permesso di Costruire: tale contributo di costruzione, in particolare, è “commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.

In una recente sentenza del TAR Lecce (n. 785 del 17.5.2022) è affrontato il caso - invero frequente - di un Comune che richiede, a distanza di anni, il pagamento di un “conguaglio” degli oneri accessori già versati al momento del rilascio del P.d.C., perché in origine non parametrati secondo quanto stabilito dalla L.R. Puglia n. 1/2007.

Ma un provvedimento amministrativo di tal fatta è legittimo?

I. I motivi di ricorso

Ricevuta la richiesta di conguaglio degli oneri accessori al P.d.C., il ricorrente ha adito il Tribunale Amministrativo Regionale di Lecce censurando il provvedimento comunale sostanzialmente per due motivi: (i) violazione del principio del legittimo affidamento, poiché la richiesta di conguaglio è arrivata dopo quasi 9 anni dal rilascio del Permesso di Costruire, il che lo avrebbe indotto a ritenere più che legittimo (e pienamente satisfattivo per la P.A.) il pagamento già effettuato; (ii) violazione del principio di irretroattività, perché la decisione di richiedere il conguaglio è stata adottata in seguito ad una Deliberazione di Consiglio Comunale successiva al rilascio del P.d.C., che avrebbe, dunque, statuito “ora per allora” l’esatta somma di denaro da corrispondere.

Nessuna delle tesi espresse dal ricorrente ha trovato riscontro nella sentenza in commento, che, infatti, ha respinto integralmente il ricorso.

II. La decisione del TAR

La questione in esame non è una novità per i Giudici leccesi, che più volte hanno dovuto delibare circa la legittimità di simili provvedimenti comunali; l’occasione è stata, dunque, utile a ribadire alcuni principi giurisprudenziali consolidatisi nel corso del tempo.

In particolare, è stato evidenziato come, nel caso di specie, il conguaglio sia da assimilare in tutto e per tutto ad un “errore materiale” commesso dalla Pubblica Amministrazione al momento del rilascio del P.d.C.: come stabilito anche dal Consiglio di Stato (sez. IV, n. 2821 del 12.6.2017)

non sussiste una differenza sostanziale tra il caso in cui la determinazione del contributo di costruzione richiesto sia l’esito di una non corretta operazione aritmetica e quello in cui il Comune abbia applicato una tariffa diversa da quella effettivamente vigente, perché in entrambe le ipotesi l’ente, per una falsa rappresentazione della realtà, ha determinato l’onere in una misura diversa da quella che avrebbe avuto il diritto-dovere di pretendere.

Ed infatti, nel caso di specie - come ben sottolineato dal Tribunale - il Comune resistente non ha adottato un provvedimento di “adeguamento/integrazione” dell’originario costo di costruzione, che sarebbe stato (questo sì) illegittimo; per converso, la P.A. si è limitata a “rettificare” la misura del contributo “riportandola a quanto effettivamente dovuto sulla base di già adottate e vigenti disposizioni regionali”.

Dirimente è, invero, la circostanza per cui la rettifica è stata disposta non tanto in virtù della delibera consiliare cui ha fatto riferimento il ricorrente, bensì alla luce della Legge Regionale Puglia n. 1/2007 (precedente al rilascio del P.d.C.), i cui parametri non erano stati rispettati al momento del rilascio del titolo edilizio.

Ma il TAR va addirittura oltre.

È stato stabilito il principio per cui non solo l’attività amministrativa condotta dal Comune resistente è legittima, ma è addirittura doverosa, tanto che gli atti adottati dalla P.A. per la determinazione e liquidazione degli oneri concessori ex art. 16 D.P.R. n. 380/2001 “non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune”.

Il TAR conclude (richiamando le sue precedenti statuizioni n. 140/2020 e n. 640/2021) stabilendo che:

la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio

III. Conclusioni

Dal quadro innanzi dettagliato emerge, dunque, che il semplice pagamento degli oneri di costruzione di cui all’art. 16 D.P.R. n. 380/2001 non è idoneo a costituire un “legittimo affidamento” del privato sulla correttezza del quantum stabilito dall’Amministrazione per il rilascio del titolo; ben potrebbe questa, nell’arco dei dieci anni successivi, richiedere un conguaglio laddove sia evidente e dimostrabile l’erroneità dei calcoli effettuati.

Può, pertanto, consigliarsi di porre attenzione - grazie anche all’aiuto dei tecnici incaricati - anche a tale aspetto che, pur “a valle” del più complesso iter amministrativo per il rilascio di un Permesso di Costruire, potrebbe lasciare “strascichi” nel lungo periodo.


Qual è la sorte di un immobile abusivo?

Immobile abusivoNel procedimento amministrativo-sanzionatorio tracciato dall’art. 31 del Testo Unico dell’Edilizia è previsto che il proprietario e/o il responsabile di un’opera abusiva deve provvedere alla sua demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi; in caso di inadempimento, l'immobile abusivo è acquisito al patrimonio del Comune ove insiste l’immobile.

In questo articolo si traccerà, seppur con brevi cenni, l’iter amministrativo successivo alla notifica dell’ordinanza di demolizione e, grazie agli spunti offerta da una recente sentenza del TAR Milano (n. 1309 del 6.5.2022), si affronteranno più analiticamente i problemi di gestione del patrimonio abusivo acquisito da un Ente comunale.

I. Il procedimento sanzionatorio previsto dall’art. 31 D.P.R. 380/2001

L’art. 31 TUEd stabilisce il regime sanzionatorio cui soggiacciono gli abusi edilizi più gravi, ossia gli “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”: per questi, è prevista la sanzione massima della demolizione e del ripristino del legittimo stato dei luoghi.

A tale sanzione soggiace il proprietario dell’immobile o il responsabile dell’abuso (se soggetto diverso dal primo), il quale ha a sua disposizione 90 giorni per adempiere spontaneamente.

Ma cosa accade se ciò non avviene?

Il legislatore ha, in tali evenienze, previsto che (art. 31, commi 3 e 4)

il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita. L’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all’interessato, costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente.

In buona sostanza, decorsi 90 giorni dalla notifica dell’ordinanza di demolizione senza che il destinatario abbia adempiuto spontaneamente all’ordine di ripristino, l’opera abusiva risulta di diritto acquisita al patrimonio del Comune ove essa è stata realizzata.

Tale acquisizione ope legis¸ però, non è idonea a produrre effetti nei confronti di terze parti - ed anzi, secondo una parte della giurisprudenza, non determina neanche un vero e proprio spossessamento a danno del responsabile dell’abuso (di recente, leggasi TAR Reggio Calabria n. 379 del 6.6.2022) - ma è necessaria un’attività ulteriore da parte della P.A. affinché ciò si realizzi: essa deve verificare se il proprietario/responsabile dell’abuso abbia o meno adempiuto all’opera e, in esito ad apposito sopralluogo, dovrà adottare un provvedimento di accertamento della inottemperanza alla demolizione.

Come stabilisce il comma 4 del citato art. 31 TUEd, una volta notificato all’interessato, tale provvedimento rappresenta titolo idoneo per la concreta immissione in possesso del bene in favore del Comune e per la trascrizione dell’atto nei registri immobiliari.

Portata a termine tale procedura, dunque, l’Ente comunale diventa proprietario del bene, e dovrà decidere come gestirlo.

II. La vicenda processuale

Nel caso portato all’attenzione del TAR Lombardia si controverte della legittimità proprio del provvedimento comunale di accertamento di inottemperanza ad un’ordinanza di demolizione.

Molteplici sono state le censure sollevate dal ricorrente, tra le quali quella relativa alla presunta incompetenza del Dirigente comunale ad adottare l’atto di acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un’opera abusiva cui, viceversa, avrebbe dovuto provvedere il Consiglio Comunale.

Correttamente il Tribunale ha respinto il motivo di gravame, e ciò sulla scorta del (chiaro) dettato normativo dell’art. 107, comma 3, lett. g), del Testo Unico degli Enti Locali, che attribuisce ai Dirigenti il potere di adottare “tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell’abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale”.

Nell’argomentare i motivi di infondatezza del ricorso, il Tribunale ha colto l’occasione per evidenziare quali siano le competenze del Consiglio Comunale nell’ambito del procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi.

III. La competenza del Consiglio Comunale

Chiamando ancora una volta in soccorso il testo dell’art. 31 del Testo Unico Edilizia, il suo comma 5 stabilisce che

L’opera acquisita è demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell’abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.

Pertanto, l’organo “di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” (cfr. art. 42 D.Lgs. 167/2000) ha tra le sue attribuzioni quella di verificare, una volta acquisito al patrimonio comunale un bene abusivo, (i) se sussista un prevalente interesse pubblico affinché l’opera sia mantenuta in vita anziché demolita (ii) che la stessa sia compatibile con gli interessi urbanistici, ambientali e di tutela idrogeologica esistenti su un dato territorio.

Di tanto è consapevole anche il TAR Milano, il quale condivisibilmente sostiene che

La competenza del consiglio comunale può radicarsi, invece, ai sensi dell’art. 31, c. 5, del DPR 380/2001, in un momento successivo in quanto, dopo l’adozione dell’ordinanza di demolizione e dell’ulteriore provvedimento sanzionatorio di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’opera abusiva, come conseguenza della mancata esecuzione dell’ordine di demolizione, residua l’eventualità che il Consiglio Comunale possa, con apposita delibera, escludere la demolizione dell’opera acquisita al patrimonio comunale (ravvisando l’esistenza di prevalenti interessi pubblici al suo mantenimento e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici) e si configura quale alternativa all’ulteriore ordinanza di demolizione in danno delle opere abusive gratuitamente acquisite (cfr., ex multis, Tar Campania, Napoli, IV, 23/05/2019 n. 2758) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 2088)” (T.A.R. Lombardia, Milano, IV, 21 ottobre 2021, n. 2316; anche T.A.R. Campania, Napoli, VIII, 16 giugno 2021, n. 4108; III, 7 gennaio 2020, n. 53).

Ma di che grado di discrezionalità gode il Consiglio Comunale nell’ambito di tale scelta?

IV. La sorte dell'immobile abusivo

Già dalla lettura dell’invocato comma 5 emergono dei limiti all’esercizio del potere di scelta, se solo si considera che l’interesse a mantenere in piedi l’opera abusiva deve essere “pubblico e prevalente”.

È necessario, dunque, comprendere quale sia il termine di paragone da utilizzare, e per farlo appare dirimente il richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 140 del 5.7.2018.

Essa evidenzia innanzitutto che

Il fatto che, con l’acquisizione al patrimonio comunale, il bene diventi pubblico non comporta, tuttavia, che l’opera diventi legittima sotto il profilo urbanistico-edilizio. Essa è destinata a essere «demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell’abuso» (comma 5 dell’art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001).

La regola della demolizione ammette una deroga. Lo stesso comma 5, in via eccezionale, prevede la possibilità di conservare l’opera quando, «con deliberazione consiliare […] si dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera [stessa] non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico»

Pertanto, è il Legislatore nazionale ad avere scientemente stabilito come regola principale la necessità di demolire l’opera abusiva e ripristinare il legittimo status quo ante, e come residuale ed eccezionale ipotesi quella di conservare l’opera edilizia.

In quanto tale, “la demolizione degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio del Comune, con le sole deroghe previste dal comma 5 dell’art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001, costituisce un principio fondamentale della legislazione statale che vincola la legislazione regionale di dettaglio in materia di «misure alternative alle demolizioni»”.

Da qui la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, L.R: Campania n. 19/2017, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui consentiva agli atti regolamentari e di indirizzo dei Comuni di regolamentare “la locazione e alienazione degli immobili acquisiti al patrimonio comunale per inottemperanza all’ordine di demolizione, anche con preferenza per gli occupanti per necessità al fine di garantire un alloggio adeguato alla composizione del relativo nucleo familiare”.

V. Conclusioni

Il quadro innanzi dettagliato, così come emerge dalla chiara decisione della Corte Costituzionale ed è stato di recente ribadito dalla giurisprudenza dei TTAARR (leggasi, oltre a TAR Milano n. 1309/2022, anche TAR Napoli n. 474/2022), traccia un sistema amministrativo-sanzionatorio del tutto disinteressato ai cosiddetti “abusi di necessità”, realizzati cioè col solo scopo di offrire un tetto alla propria famiglia: essi non possono in alcun modo legittimare la scelta di un Comune di mantenere in vita un immobile abusivo, poiché tale situazione non è sussumibile nel caso (eccezionale e derogatorio) stabilito dall’art. 31, comma 5, D.P.R. 380/2001.

Quindi un immobile abusivo dovrà essere necessariamente demolito, salvo - stando alle interpretazioni restrittive e rigorose offerte dalla giurisprudenza citata - rarissimi casi.

Il tema dell’equilibrata lettura e comparazione dei principi costituzionali in tema di proprietà privata e tutela del territorio e dell’ambiente (delle recenti modifiche agli artt. 9 e 41 Cost. abbiamo parlato qui) sarà certamente oggetto di approfondimenti da parte del Legislatore in un futuro molto prossimo, nell’ambito della redazione del nuovo “Codice delle Costruzioni”, i cui lavori della Commissione istituita presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici sono ormai in dirittura d’arrivo.


Qual è la differenza tra lastrico solare e terrazzo?

TerrazzoÈ d’uso comune utilizzare indistintamente i termini “lastrico solare” e “terrazzo” per indicare la parte dell’edificio che funge da copertura ai vani sottostanti.

Sennonché, come spesso accade, in materia edilizia esiste una (sottile ma) sostanziale differenza tra i due termini, poiché afferenti ad opere edilizie ben distinte ed aventi un diverso impatto urbanistico sul territorio.

La recente decisione del TAR Napoli n. 2861/2022 appare l’occasione giusta per scoprire la differenza tra le due nozioni, “rispolverando” alcuni precedenti giurisprudenziali.

I. La vicenda processuale

Con il ricorso introduttivo della vicenda giudiziale in esame il proprietario di un appartamento ha chiesto al TAR partenopeo di annullare il provvedimento comunale di annullamento di una SCIA edilizia.

Più nello specifico, la Segnalazione annullata riguardava la “manutenzione ordinaria e straordinaria con opere strutturali volte alla fusione dell’appartamento con il terrazzo di copertura soprastante mediante l’apertura di una botola e l’installazione di una scala di collegamento”: in buona sostanza, voleva essere realizzato un collegamento (interno) tra l’appartamento stesso ed il terrazzo, che sarebbe così diventato parte integrante dell’unità abitativa.

Orbene, l’Amministrazione comunale, in esito ad alcuni approfondimenti istruttori, ha avviato e concluso il procedimento di annullamento in autotutela - in virtù del combinato disposto degli artt. 19, commi 3 e 6-bis, e 21-nonies della L. n. 241/1990 - della SCIA edilizia, evidenziandone diverse criticità.

Per quel che qui rileva, il Comune ha contestato al ricorrente una falsa dichiarazione resa circa la legittima preesistenza del “terrazzo di copertura”: approfondita la pratica edilizia del complessivo immobile, l’Ente ha scoperto che l’originaria Licenza Edilizia aveva autorizzato la costruzione di un semplice “lastrico solare”, e non di un “terrazzo”, come invece dichiarato dal ricorrente.

La modifica sostanziale del piano di copertura, essendo avvenuta senza alcun titolo autorizzativo, era da considerarsi illegittima e, pertanto, l’ulteriore attività edilizia oggetto di SCIA era a sua volta abusiva.

Da qui l’annullamento in autotutela.

 

II. Le due definizioni e le differenze sostanziali.

L’Amministrazione resistente ha (correttamente) rilevato che tra lastrico solare e terrazzo esiste una profonda differenza, tanto da rendere la trasformazione del primo nel secondo come urbanisticamente rilevante, e perciò necessitante di Permesso di Costruire.

Secondo il TAR, che richiama numerosi precedenti giurisprudenziali:

 

il lastrico solare è una parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un tetto o, quanto meno, una copertura di ambienti sottostanti, mentre la terrazza è un ripiano anch'esso di copertura, ma che nasce già delimitato all'intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti.

 

In buona sostanza, ciò che distingue il lastrico dal terrazzo è la loro diversa funzionalità: mentre il primo assolve al ruolo di mera copertura - calpestabile solo all’occorrenza -, il secondo ha un quid pluris, rappresentato dalla sua vivibilità quale ambiente “ulteriore” a quelli sottostanti.

Assodata tale differenza, le ricadute in termini urbanistici sono evidenti:

 

La trasformazione materiale e funzionale di un lastrico solare in terrazza deve essere necessariamente subordinata a permesso di costruire, dacché comportante un incremento rilevante della superficie utile residenziale, ossia una proiezione verso l'esterno dello spazio abitativo fruibile (in termine di affaccio e sosta), sia pure in via accessoria” (cfr. T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 29/12/2021, n. 2940). (…)

la trasformazione di un solaio di copertura in terrazzo, mediante specifici interventi edilizi, necessita del rilascio del permesso di costruire non essendo realizzabile detta trasformazione tramite semplice s.c.i.a. né tramite comunicazione di inizio lavori ex art. 6 d.p.r. n. 380 del 2001 (T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 03/01/2018, n. 24)

 

Parafrasando le già chiare parole del Tribunale, il lastrico solare non ha alcuna utilità ulteriore alla mera copertura dei vani sottostanti, ed in quanto tale non è fruibile quale spazio “abitativo”; per contro, il terrazzo ha come sua funzione precipua quella di essere utilizzato quale superficie calpestabile al servizio di un’unità abitativa.

Ciò significa che la trasformazione di un lastrico in terrazzo determina un aumento di Superficie Utile Residenziale, il che reca con sé un aumento di carico urbanistico.

Da ciò deriva la necessità che l’attività di trasformazione sia autorizzata con apposito Permesso di Costruire.

 

III.      Considerazioni conclusive.

Appare doveroso segnalare un (invero minoritario) orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema di abusiva trasformazione del lastrico solare in terrazzo, non rileva la funzione cui è destinato, bensì le opere all’uopo realizzate.

In tal senso, leggasi TAR Catanzaro n. 1353/2021, ove è stabilito che “la sola posa di una pavimentazione su un lastrico solare già precedentemente accessibile, senza l'apposizione di ringhiere, parapetti o altre strutture, non può essere considerata un intervento di trasformazione da lastrico solare a terrazzo, non mutando la sua destinazione di utilizzo, stante l'inesistenza di altri manufatti che ne evidenzino la destinazione all'utilizzo per la presenza stabile di persone”.

Come detto, però, la giurisprudenza maggioritaria insegna (e la sentenza in commento ne è un’ulteriore prova) che non sempre è necessaria un’attività edile affinché si concretizzi un cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.

Tale possibilità, d’altronde, è stata cristallizzata anche nel Testo Unico dell’Edilizia, il cui art. 23-ter stabilisce che:

 

costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché' non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate

 

Riferirsi, dunque, a “lastrico solare” o “terrazzo” non è un semplice esercizio di stile, ma assume un significato rilevante per quanto attiene l’utilizzo del bene e la sua rilevanza in ambito urbanistico-edilizio.


Necessità di riedizione dell’ordinanza di demolizione

Ordinanza di demolizione L’attività sanzionatoria che la Pubblica Amministrazione è chiamata a svolgere in virtù dei poteri attribuiti dal Testo Unico dell’Edilizia è scandita da un preciso iter procedurale, che si dipana sin dalla notifica dell’ordinanza di demolizione.

Nella sentenza n. 2596 del 8.4.2022 è stata portata all’attenzione del Consiglio di Stato la vexata quaestio che coinvolge l’ordinanza di demolizione e la domanda di condono (o di sanatoria ordinaria): quanto e come quest’ultima influisce sull’altra? E cosa accade nel caso di suo diniego?

 

I.      La vicenda processuale

I ricorrenti in primo grado avevano realizzato, senza titolo edilizio, un fabbricato da destinare a deposito; successivamente, presentavano istanza di condono ex art. 32 del DL 269/2003 (c.d. “terzo condono”).

Alcuni mesi dopo, il Comune notificava loro un’ordinanza di demolizione, ingiungendo di ripristinare lo stato dei luoghi entro i successivi 90 giorni, pena l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale.

Tale provvedimento è rimasto inoppugnato ed inottemperato, tant’è che nel 2017 il Comune ha accertato, con apposito verbale, l’inottemperanza.

A questo punto, è stato notificato loro anche il provvedimento di diniego della sanatoria straordinaria (questa volta impugnato, con ricorso al TAR Napoli) e la determinazione di avvenuta acquisizione gratuita ope legis dell’immobile al patrimonio comunale (impugnato con motivi aggiunti).

Il TAR ha respinto il ricorso principale, ma ha accolto quello per motivi aggiunti.

Per quel che qui rileva, il giudice di prime cure ha ritenuta fondata l’eccezione dei ricorrenti secondo cui, dopo il diniego della domanda di condono, il Comune resistente avrebbe dovuto adottare una nuova ordinanza di demolizione, assegnando ai responsabili dell’abuso un nuovo termine per adempiere.

 

II.      La normativa di riferimento e i due filoni giurisprudenziali contrapposti.

La decisione appellata si fonda sull’art. 44 della L. n. 47 del 1985 (c.d. primo condono) richiamata dall’art. 39 della L. n. 724 del 1994 (secondo condono) e dall’art. 32 del D.L. n. 269 del 2003, convertito nella L. n. 326 del 2003 (terzo condono), secondo cui:

 

Dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino alla scadenza dei termini fissati dall’articolo 35, sono sospesi i procedimenti amministrativi e giurisdizionali e la loro esecuzione, quelli penali nonché quelli connessi all’applicazione dell’articolo 15 della L. 6 agosto 1967, n. 765, attinenti al presente capo.

La sospensione di cui al comma precedente non si applica ai procedimenti cautelari avanti agli organi di giurisdizione amministrativa, previsti dall’articolo 21, ultimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034.

Decorso il termine del 30 settembre 1986 senza che sia stata presentata domanda di concessione o autorizzazione in sanatoria, la sospensione di cui al precedente primo comma perde efficacia.

I procedimenti sospesi possono essere ripresi a richiesta degli interessati.

 

Orbene, su questo dettato normativo si sono innestati due filoni giurisprudenziali tra loro contrapposti:

-        secondo un primo orientamento, a seguito della presentazione della domanda di condono il procedimento repressivo edilizio subisce un arresto definitivo, con la conseguenza che il Comune, prima di adottare qualsivoglia provvedimento repressivo, dovrà prima esaminare l’istanza; in caso di conclusione negativa di questo procedimento, deve essere adottata una nuova ordinanza di demolizione, poiché la precedente ha perso ogni efficacia (TAR Napoli, n. 2048/2020; Consiglio di Stato n. 3364/2019 e n. 2623/2018);

-        secondo altra corrente di pensiero, l’inefficacia dell’ordinanza di demolizione è solo temporanea, con sua conseguente “riespansione” all’esito della conclusione del procedimento di sanatoria, ovvero di maturazione del termine legalmente stabilito per la sua definizione (TAR Milano, n. 2152/2021; Consiglio di Stato, n. 3545/2021).

 

Il TAR partenopeo ha avallato - seguendo la nutrita giurisprudenza interna - per il primo orientamento.

 

III.      La decisione del Consiglio di Stato e considerazioni conclusive.

Il Comune, convinto della legittimità del proprio operato, ha quindi impugnato la sentenza del TAR, chiedendone la riforma sul punto specifico alla luce (anche) dell’ondivaga giurisprudenza esistente.

Ebbene, nella decisione in commento il Consiglio di Stato - ribaltando completamente le statuizioni del giudice di prime cure - ha deciso di dar seguito al secondo orientamento, accogliendo così le tesi propugnate dall’Amministrazione.

A ben vedere, in questo caso - diversamente da altre circostanze - è stata omessa l’“indecisione” della giurisprudenza amministrativa, dando per “pacifica” la tesi per cui “la presentazione di una istanza di sanatoria non comporta l’inefficacia del provvedimento sanzionatorio pregresso, non essendoci pertanto un’automatica necessità per l’amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione; nel caso in cui venga presentata una domanda di accertamento di conformità in relazione alle medesime opere (da verificare nel caso di specie da parte degli organi comunali), l’efficacia dell’ordine di demolizione subisce un arresto, ma tale inefficacia opera in termini di mera sospensione”.

La scelta operata in questa sede dal Consiglio di Stato appare, a modesto avviso di chi scrive, quella più confacente ai generali principi di diritto, se solo si considera che, seguendo il contrario filone giurisprudenziale, si arriverebbe alla (paradossale) conseguenza che una mera istanza di parte - sia essa domanda di condono o di sanatoria “ordinaria” - possa far perdere sic et simpliciter efficacia ad un provvedimento sanzionatorio amministrativo, sfuggendo anche ad una pronuncia giurisdizionale sulla sua legittimità.

Appare quanto mai utile, stante il controverso stato dell’arte, un pronunciamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.


Cartello di cantiere e decorrenza del termine per l’impugnazione del Permesso di Costruire

Cartello di cantiereTra gli aspetti più particolari del diritto amministrativo vi è certamente lo “stretto” termine decadenziale entro cui possono essere impugnati davanti al TAR i provvedimenti delle Pubbliche Amministrazioni.

L’edilizia non può certo sfuggire a questa regola generale.

Infatti, il vicino che voglia impugnare un titolo edilizio rilasciato in favore del soggetto confinante deve farlo entro 60 giorni.

Si, ma da quando decorrono questi 60 giorni? Nella recente sentenza del TAR Napoli n. 19 del 3.1.2022 questo tema è trattato con dovizia di particolari, offrendo interessanti spunti sia dal punto di vista di chi voglia contestare il titolo edilizio (il vicino) sia da quello del soggetto che, ottenuto un Permesso di Costruire, voglia valutare quando tale atto possa considerarsi “consolidato” .

I. La vicenda processuale

Alcuni soggetti hanno impugnato un Permesso di Costruire rilasciato nel settembre 2019 al proprio vicino di casa, quale variante in corso d’opera di un precedente titolo relativo alla demolizione e ricostruzione del fabbricato preesistente con aumento delle unità abitative.

La particolarità della fattispecie sta nel fatto che il ricorso è stato notificato solo nel novembre 2020, dopo più di un anno dal rilascio del titolo in variante.

Secondo i resistenti, il ricorso sarebbe tardivo perché il termine di 60 giorni per impugnare il titolo edilizio avrebbe dovuto essere computato dal momento in cui è stato affisso il cartello di cantiere (ottobre 2019); per contro, i ricorrenti ritengono che il ricorso sia tempestivo perché il dies a quo sarebbe da calcolare dal momento in cui - dopo aver ottenuto tutta la documentazione relativa al Permesso di Costruire - hanno avuto “piena conoscenza” del provvedimento da impugnare.

Il TAR dà torto ai ricorrenti, e dichiara irricevibile (per tardività) il ricorso.

Deve essere premesso che il Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. n. 380/01) rende obbligatoria l’esibizione, presso il cantiere, del cartello contenente tutte le notizie relative all’attività edilizia a farsi: questo deve essere ben visibile dall’avvio dei lavori fino alla loro conclusione.

Art. 20, comma 6, TUEd: “Gli estremi del permesso di costruire sono indicati nel cartello esposto presso il cantiere, secondo le modalità stabilite dal regolamento edilizio”.

Art. 27, comma 4, TUEd: “Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il permesso di costruire, ovvero non sia apposto il prescritto cartello, ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia, ne danno immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, al competente organo regionale e al dirigente del competente ufficio comunale, il quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere e dispone gli atti conseguenti”.

Addirittura, tale violazione può essere penalmente rilevante, ai sensi dell’art. 44 del TUEd.

Venendo al caso di specie, il controinteressato (titolare del Permesso di Costruire impugnato) ha depositato in giudizio la prova fotografica del fatto che il cartello di cantiere fosse stato esposto all’entrata del cantiere e, quindi, ben visibile al pubblico, sin dall’avvio dei lavori, nell’ottobre del 2019.

Secondo la sentenza in rassegna, tutti i passanti - e a maggior ragione i vicini di casa - erano ben a conoscenza sin da quel momento dell’opera che stava per essere realizzata: ed infatti, il cartello recava l’indicazione degli estremi del Permesso di Costruire, la tipologia dei lavori assentiti e, soprattutto, la riproduzione grafica dell’erigendo fabbricato in tutta la sua definitiva consistenza planovolumetrica.

Tanto bastava a far scattare il termine di 60 giorni per impugnare il PdC.

II. Alcune sintetiche considerazioni.

Questa decisione non è certo una novità nel panorama giurisprudenziale , ma si pone nel solco di un nutrito filone giurisprudenziale (cfr., solo da ultime, Consiglio di Stato sez. II, n. 3231 del 21.4.2021 e n. 566 del 18.1.2021) che, pur mirando ad assicurare il pieno diritto di difesa del ricorrente (perseguibile attraverso una tempestiva istanza di accesso agli atti), intende salvaguardare il legittimo affidamento che si ingenera nel titolare di un Permesso di Costruire, una volta decorso un ampio lasso di tempo dal suo rilascio.

In tal senso, infatti, la giurisprudenza distingue i casi in cui il titolo edilizio è illegittimo ex se, perché non poteva in assoluto essere rilasciato (si pensi ai vincoli di inedificabilità assoluta, oppure ai titoli rilasciati in violazione delle distanze minime), da quelli in cui è la consistenza finale dell’immobile a palesare vizi di legittimità.

In quest’ultimo caso, ben può il cartello di cantiere rendere evidenti sin da subito i vizi di legittimità dell’opera a farsi: basti pensare a quanto, negli ultimi tempi, si sia soliti inserire una cd. “renderizzazione” nel cartello, così da esibire (anche in ottica pubblicitaria) il risultato finale dell’opera.

Insomma, se avete dubbi sulla legittimità di un’opera che stanno realizzando nei pressi della vostra proprietà, iniziate col dare un’occhiata al cartello di cantiere: il “guarda e passa” di Dantesca memoria potrebbe, in questo caso, creare non pochi danni!

Se, invece, dal punto di vista del costruttore, l’obiettivo è garantirsi il più celermente possibile il “consolidamento” del titolo (ossia la sua inoppugnabilità), l’indicazione è chiaramente quella di adoperare “cartelli di cantiere” quanto più visibili e descrittivi possibile.