Il difficile bilanciamento tra tutela dell’ambiente e iniziativa economica. Il “caso Ovindoli” tra protezione della fauna e sviluppo sostenibile.
Negli ultimi anni è parsa evidente l’attenzione che rivolge il Giudice amministrativo verso la tutela ambientale, la quale, come noto, costituisce un bene costituzionalmente protetto.
In precedenza ci siamo occupati di una vicenda che ha posto l’attenzione sul diritto ad un ambiente salubre, il quale rappresenta sempre più un fattore che condiziona le scelte quotidiane, comprese le iniziative di carattere economico (a questo link è possibile consultare il testo integrale della news).
Il caso sommariamente analogo che qui si affronta riguarda l’ampliamento di un impianto sciistico all’interno di comune abruzzese, realizzazione che soggiace ad un provvedimento autorizzativo complesso.
Avverso la decisione di primo grado del Giudice amministrativo, quest’ultimo adito con esito positivo da alcune associazioni ambientaliste che censuravano le risultanze istruttorie culminate nel rilascio del titolo autorizzativo, il comune interessato all’iniziativa ha interposto appello deducendo una serie di motivi, accomunati dalla correttezza logica e giuridica del provvedimento autorizzativo dell’impianto ricadente all’interno di area protetta.
Sotto il profilo ambientale, gli aspetti e gli argomenti della decisione del Supremo Consesso amministrativo (di riforma della pronuncia di primo grado) sono molteplici poiché riguardano singoli fattori che entrano in gioco allorquando si realizza (anche in termini di ampliamento) un’opera complessa, come quella di un impianto sciistico, che assolve, certamente, a delle finalità turistiche, ma anche di promozione sociale e di sviluppo economico.
L’argomento chiave è che lo sviluppo dell’iniziativa deve necessariamente considerare le incidenze sullo stato di conservazione dell’habitat preesistente nella zona.
Il primo profilo meritevole di attenzione è l’interesse alla decisione da parte delle associazioni ambientaliste, anch’esse parte della vicenda, in relazione alle quali il Consiglio di Stato, richiamando la normativa istitutiva del Ministero dell’ambiente e delle norme in materia di danno ambientale (l. 8 luglio 1986, n. 349 e s.m.i.), ha chiaramente confermato l’indirizzo interpretativo secondo il quale le associazioni ambientaliste sono legittimate in relazione all’impugnazione di atti amministrativi “che si considerino lesivi dei valori ambientali, paesistici, storici o artistici di un’area determinata” (Cons. St. Sez. IV, 6 marzo 2023, n. 2279).
A ben guardare, proprio la legge 349/1986 ha cristallizzato, all’art. 18, le esigenze di tutela dei soggetti portatori di interessi collettivi, introducendo ex lege la possibilità per le associazioni ambientaliste di intervenire nei giudizi di danno ambientale ovvero di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti legittimi.
Uno dei passaggi motivazionali più significativi è quello relativo al contenuto dello studio di impatto ambientale (ricompreso nella progettazione propedeutica all’autorizzazione) concernente le misure di mitigazione previste per la tutela della fauna, specificatamente della “Vipera ursinii”, quale animale tutelato dalla direttiva Habitat 92/43/CEE., oggetto di specifica censura da parte dei soggetti ricorrenti di primo grado.
Tale argomento conduce ad un ragionamento alquanto complesso della tutela ambientale.
Per giungere alla decisione, infatti, il Consiglio di Stato non si è limitato ad operare un richiamo normativo del bene faunistico, bensì ha rivolto un vero e proprio “ammonimento” verso gli interessati, affermando che “Laddove si parta dal presupposto che qualsiasi attività che presenti controindicazioni rispetto alla significativa permanenza della vipera oggetto di tutela debba essere vietata, sarebbe necessario vietare anche il pascolo di animali indicato nello studio come fonte di pericolo, la presenza di escursionisti“, osservando puntualmente che “è necessario contemperare le esigenze di carattere ambientali con altri interessi parimenti meritevoli di tutela“.
Muovendo da tali presupposti, che certamente ripropongono la problematica propria del diritto dell’ambiente ovvero la tutela di interessi di pari valore, il Giudice d’appello ha richiamato lo storico pronunciamento reso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 85 del 2013 che ha affermato che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri.
Tale argomento conduce ad un ragionamento alquanto complesso della tutela ambientale.
Secondo tale pronuncia, la tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro, giacché se così non fosse, si verificherebbe “l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona“.
Nella vicenda esaminata si è conclusivamente evidenziato che “il bene di rilievo costituzionale da contemperare con la tutela dell’ambiente era il diritto all’esercizio di un’attività di impresa cui era connesso il diritto al lavoro dei dipendenti. Il caso in esame presenta lo stesso apparente contrasto tra le esigenze di sviluppo economico di una comunità e il rischio di compromettere l’ambiente che va ridotto al minimo, ma che non può diventare un ostacolo insormontabile salvo che l’intervento da autorizzare presenti delle caratteristiche assolutamente incompatibili con la tutela ambientale“.
Secondo il Giudice amministrativo, lo sviluppo economico rappresenta certamente un interesse meritevole di tutela che, in relazione alla tutela dell’ambiente, non deve necessariamente porsi in termini ostativi, bensì in termini di integrazione, potendo l’esercizio di attività d’impresa sempre e comunque garantire una tutela effettiva delle componenti ambientali, a volte anche in misura maggiore rispetto a quelle preesistenti.
La sentenza rappresenta una ulteriore evoluzione della giurisprudenza amministrativa, degno di nota: infatti, se fino ad oggi (specie in tema di autorizzazioni di impianti da fonti energetiche rinnovabili c.d. FER) le decisioni si erano spesso occupate di bilanciare i valori costituzionali tra loro “affini” del paesaggio e dell’ambiente (in un certo senso, e come rilevato da alcune decisioni, “facce della stessa medaglia” nella prospettiva del c.d. sviluppo sostenibile), in questo caso peculiare il Consiglio di Stato ha applicato lo stesso metodo ed approccio avuto riguardo al rapporto tra i valori ambientali/paesaggistici e la tutela dello sviluppo economico in senso stretto. E ciò, peraltro, con una sentenza anche “coraggiosa”, nella parte in cui non solo viene declinato il principio di non prevalenza a priori (ossia implicante sempre e comunque la c.d. opzione zero) della tutela ambientale rispetto allo sviluppo economico, ma il medesimo principio viene applicato “in concreto” dal Giudice Amministrativo che, sulla base delle risultanza procedimentali, conferma la correttezza del provvedimento autorizzatorio (in luogo, ad esempio, di soluzioni processuali spesso adoperate dai giudici amministrativi, consistenti nel rinviare alla P.A. per un nuovo esame e motivazione).
Peraltro, in una prospettiva più ampia, occorre ricordare anche che il tema della verifica degli impatti “economici” in sede di valutazione ambientale, trova una sua conferma anche nella disciplina della VAS recata dal d.lgs. 152/2006. Infatti, l’art. 4, co. 3, del Codice dell’Ambiente dispone che “La valutazione ambientale di piani, programmi e progetti ha la finalità di assicurare che l’attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, e quindi nel rispetto della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un’equa distribuzione dei vantaggi connessi all’attività economica”.
Principio, quello ricordato, che ha trovato ad esempio applicazione in TAR Toscana, 23 marzo 2017, n. 1387, laddove è stato evidenziata la illegittimità di parere di VAS in quanto “quest’ultima si sarebbe limitata alla valutazione degli aspetti ambientali, senza prendere in considerazione le ricadute socio economiche delle scelte di pianificazione E’ necessario, pertanto, che detta valutazione presupponga lo svolgimento di un’analisi di fattibilità economica, comportando lo svolgimento di una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio – economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla cosiddetta opzione – zero, vagliando quindi tutte le possibili interrelazioni che la scelta urbanistica può arrecare alla salute umana, al paesaggio, all’ambiente in genere, al traffico ed anche all’economia di tutto il territorio coinvolto (…). ”
In conclusione, tornando alla recente sentenza del Consiglio di Stato, si può ritenere di essere al cospetto di una motivazione condivisile e, certamente, in linea con gli attuali orientamenti prevalenti in tema di “sviluppo sostenibile”, ferma restando la necessità di un vaglio “caso per caso”.