L’adeguamento tecnico impiantistico nel settore dei rifiuti: le autorizzazioni ambientali.

Si è affrontata, in una precedente news consultabile a questo link, la questione della compatibilità ambientale di un impianto per la gestione dei rifiuti.

La tematica, come noto, presenta diversi profili di complessità stante le disposizioni contenute nel codice dell’ambiente di cui al d.lgs. 152/2006 e s.m.i. e quelle regionali, nonché gli interessi pubblici sottesi alla tutela dell’ambiente.

Detta complessità si rinviene, soprattutto, nell’ambito dei procedimenti autorizzativi ambientali specie allorquando l’ente competente nega il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale nei casi di adeguamento tecnico – impiantistico per impianti destinati al trattamento dei rifiuti.

Il caso che ci si accinge a commentare interessa, in particolare, il diniego espresso dall’ente regionale all’esito della conferenza dei servizi per il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale per l’adeguamento tecnico di un termovalorizzatore per la gestione di particolari tipologie di rifiuti, ovvero i pneumatici fuori uso (PFU).

Prima di esaminare il caso di specie, giova precisare che la disciplina generale dell’istituto della conferenza di servizi si rinviene dall’art. 14 della legge 241/90 e s.m.i., la quale individua le “conferenze di servizi” (riferendosi a quella istruttoria, decisoria e preliminare): si è solito attribuire allo strumento conferenziale l’ attuazione del principio di buona amministrazione ex art. 97 Cost., quale luogo istituzionale per il razionale ed effettivo coordinamento degli interessi pubblici assoggettati alla cura e al soddisfacimento della Pubblica amministrazione.

Ciò premesso, il caso affrontato dal Consiglio di Stato verte, come accennato, sul diniego opposto dall’Amministrazione competente nel procedimento per il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale per la trasformazione di un impianto di trattamento (smaltimento) di rifiuti, pfu nel caso di specie.

Preliminarmente, il Supremo Consesso amministrativo opera un richiamo della normativa di riferimento al fine di chiarire gli aspetti legati alla valutazione delle emissioni in atmosfera (componente essenziale ai fini del rilascio del titolo autorizzativo), muovendo le considerazioni dalla disciplina regionale Lazio 11 agosto 2008, n. 14, la quale all’ art. 1 comma 21, stabilisce che “il provvedimento di VIA fa luogo dell’autorizzazione integrata ambientale di cui al decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59 (Attuazione integrale della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento) e successive modifiche, di competenza regionale ai sensi dell’articolo 103-bis, comma 2, della legge regionale 6 agosto 1999, n. 14”.

In tal contesto, il Giudice amministrativo chiarisce, inoltre, la portata e la natura giuridica del provvedimento autorizzativo, con particolare riferimento alla valutazione degli aspetti per la riduzione delle emissioni, deducendo che “Si deve, infatti, rilevare che l’autorizzazione integrata ambientale è configurata come un titolo abilitativo conseguente ad una verifica di carattere generale sull’impianto, con particolare riguardo alle emissioni in relazione all’ambiente circostante, attribuendo alle autorità interessate un ampio potere – espressione di discrezionalità tecnica – anche circa le concrete misure tecniche che devono essere disposte per il controllo e la riduzione di tali emissioni, le quali inoltre rilevano anche in un ampio contesto geografico circostante”.

Come espresso dal Giudice amministrativo, nella Regione Lazio, in base alla disciplina legislativa regionale la predetta verifica è svolta con strumenti analoghi a quelli del procedimento di valutazione di impatto ambientale (VIA), che in base alla disciplina generale del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, (nel testo allora vigente) e comunque in base alla disciplina generale della valutazione di impatto ambientale, comporta una ampia verifica degli effetti di un impianto sull’ambiente con riferimento a molteplici aspetti.

Nel ritenere legittimo il parere tecnico adottato dall’Ente preposto alla tutela ambientale in seno all’istituto conferenziale stante il ravvisato mancato adeguamento ai limiti di emissioni prestabilite, il Consiglio di Stato ha sostanzialmente richiamato la ratio e la funzione a cui assolvono i procedimenti ambientali, nel settore dei rifiuti in particolare, affermando che “La giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte affermato che la funzione tipica della VIA sia quella di esprimere un giudizio sulla compatibilità di un progetto valutando il complessivo sacrificio imposto all’ambiente rispetto all’utilità socio-economica perseguita (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2013, n.361; id. 1 marzo 2019, n. 1423), che non è dunque espressione solo di discrezionalità tecnica, ma anche di scelte amministrative discrezionali“.

Sempre a ragion del CdS, “Il giudizio di compatibilità ambientale è reso sulla base di oggettivi criteri di misurazione e attraversato da profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all’interesse dell’esecuzione dell’opera; apprezzamento che è sindacabile dal giudice amministrativo soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l’istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato e risulti perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione, anche perché la valutazione di impatto ambientale non è un mero atto tecnico di gestione ovvero di amministrazione in senso stretto, trattandosi piuttosto di un provvedimento con cui viene esercitata una vera e propria funzione di indirizzo politico – amministrativo con particolare riferimento al corretto uso del territorio, in senso ampio, attraverso la cura ed il bilanciamento della molteplicità dei contrapposti interessi pubblici (urbanistici, naturalistici, paesistici, nonché di sviluppo economico – sociale) e privati“.

Riguardo allo specifico riferimento alla gestione dei rifiuti e alla corretta qualificazione dell’attività, il Giudice di secondo grado ha stabilito che “l’art. 178 del d.lgs. n. 152 del 2006 nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, qualificava la gestione dei rifiuti come attività di pubblico interesse e prevedeva che fosse disciplinata “al fine di assicurare un’elevata protezione dell’ambiente e controlli efficaci, tenendo conto della specificità dei rifiuti pericolosi nonché al fine di preservare le risorse naturali”. “I rifiuti devono essere recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente“.

(Cons. St. Sez. II, 6 aprile 2020, n. 2248)