Rigenerazione urbana ex L.R. Lazio 7/2017: i (discutibili) paletti del TAR Lazio agli interventi ex art. 6.
La recente sentenza del TAR Lazio, 27.12.2022, n. 17543, relativa ad un intervento di demolizione e ricostruzione ex art. 6 L.R. Lazio n. 7/2017, offre diversi spunti di riflessione in ordine ai presupposti di applicabilità della disciplina laziale sulla rigenerazione urbana.
La pronuncia, relativa ad una vicenda procedimentale piuttosto articolata, ha ad oggetto il diniego di permesso di costruire da parte di Roma Capitale per un intervento di demolizione e ricostruzione, con ampliamento volumetrico, e contestuale cambio d’uso da alberghiero a residenziale.
Il progettato intervento prevedeva, in particolare, su un immobile censito in Carta della Qualità e ricadente in Zona A di PRG (“Città Storica”) una demolizione e ricostruzione, con ampliamento di SUL e cambio d’uso da alberghiero a residenziale.
Tra i temi esaminati dal TAR che cercheremo in questo contributo di esaminare si segnalano:
- La verifica, in sede di iter abilitativo edilizio, del perseguimento delle finalità ex art. 1 L.R. 7/2017 e nonché della concorrente necessità, ritenuta in ogni caso operante secondo il TAR, che l’immobile ricada in un area “degradata”;
- (in particolare) il presupposto della “dismissione” dell’immobile, di cui alla lettera b) dell’art. 1 co. 1, ai fini della ammissibilità dell’intervento
- la rilevanza, in ipotesi di interventi su immobili tutelati dalla Carta per la Qualità, del parere della Sovrintendenza Capitolina;
- l’applicabilità delle deroghe ex art. 8, co. 3, L.R. 7/2017.
Ben si comprende, quindi, come la decisione sia di particolare importanza, visti i temi sopra delineati (mai esaminati dal TAR Lazio in maniera così sistematica, a quanto ci consta).
I. Il rapporto tra la L.R. 7/2017 e l’art. 5, co. 9, del D.L. 70/2011: gli interventi ex art. 6 L.R. 7/2017 richiedono che l’immobile ricada in un ambito “degradato”?
Il TAR Lazio – con un certo sforzo sistematico (al di là delle conclusioni raggiunte, sulle quali svolgeremo diverse notazioni critiche) – cerca di offrire una premessa interpretativa atta a indagare il rapporto tra la normativa regionale (la L.R. 7/2017) e la disciplina statale di riferimento, ossia l’art. 5, co. 9, D.L. 70/2011).
Tale disposizione, in particolare, dispone che
“Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano: a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale; b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse; c) l’ammissibilità delle modifiche di destinazione d’uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari; d) le modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti”
Il TAR, svolta una rassegna della giurisprudenza (costituzionale e amministrativa) relativa alla norma statale suddetta, individua quindi un principio, alla luce del quale interpretare la normativa di cui alla L.R. 7/2017 del Lazio.
In particolare il TAR afferma che
“non la semplice volontà di riqualificare un edificio a destinazione non residenziale dismesso o in via di dismissione può sorreggere un intervento incrementativo edilizio da realizzare con ampliamento di volumetria e superficie utile, essendo imprescindibile, al fine di conseguire la premialità richiesta, il perseguimento del duplice fine alternativamente richiesto dalla norma, ossia la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente o la riqualificazione di un’area urbana degradata”.
Rammenta, ancora, il TAR che la norma di cui all’art. 5, co. 9, DL 70/2011 – e, dunque, le singole norme regionali “attuative” – debba essere interpretata restrittivamente.
Ciò premesso, la sentenza si sofferma sull’art. 1, co. 1, della L.R. 7/2017 e, in particolare, sulla lettera b) di tale disposizione (e ciò in quanto l’intervento oggetto del giudizio era proposto, ex art. 6 della medesima Legge, per il dichiarato fine di demolire e ricostruire, con cambio d’uso a residenziale, un fabbricato alberghiero in quanto dismesso/in via di dismissione).
In particolare la lettera in parola si riferisce alla finalità di
“incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, favorire il recupero delle periferie, accompagnare i fenomeni legati alla diffusione di piccole attività commerciali, anche dedicate alla vendita dei prodotti provenienti dalla filiera corta, promuovere e agevolare la riqualificazione delle aree urbane degradate e delle aree produttive, limitatamente a quanto previsto dall’articolo 4, con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare”.
La disposizione viene interpretata dal TAR nel senso che
“la legge regionale abbia subordinato l’attuazione degli interventi edilizi da essa previsti – tra cui quello che si propone di realizzare la ricorrente – al fine di: a) razionalizzare il patrimonio edilizio esistente o b) promuovere e agevolare la riqualificazione delle aree urbane degradate e delle aree produttive con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare”.
Rammenta il TAR che, come già rilevato in relazione alla norma “madre” statale, pure per la disciplina regionale occorre interpretare (anche) la stessa alla luce della “esigenza che ogni intervento edilizio premiale sia subordinato al perseguimento di alcune finalità di pubblico interesse specificamente individuate dalla legge e in particolare, per quanto riguarda il caso di specie, alla razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente e alla riqualificazione delle aree urbane degradate”.
Aggiunge la sentenza, ulteriormente, che
“a) va esclusa ogni interpretazione estensiva della stessa che renda ammissibili interventi edilizi del tipo di quelli consentiti dalla legge rivolti ad edifici privi di quei caratteri di degrado, abbandono, dismissione, inutilizzo o in via di dismissione o rilocalizzazione che la norma pretende per legittimare il compimento di siffatti interventi incentivanti;
b) gli interventi in questione, in tanto possono beneficiare di detta legislazione di favore in quanto, comunque, abbiano ad oggetto edifici insistenti in aree urbane degradate e, in assenza di detto presupposto, l’intervento non può essere consentito”.
In questo ragionamento del TAR il passaggio più critico – ed a nostro avviso errato, avuto riguardo alle disposizioni di Legge – attiene al secondo “principio” delineato, ossia la necessità che qualunque intervento ex L.R. 7/2017 (dunque, anche quelli diretti ex art. 6) debba avere ad oggetto edifici insistenti in aree urbane degradate.
È la stessa sentenza, d’altronde, a riconoscere come tale regola non sia delineata né dalla norma statale né, tantomeno, dalla legge regionale del Lazio.
Tant’è che il TAR segnala che
“sia l’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70/2011, che l’art. 1, comma 1, lett. b) della L.R. Lazio n. 7/2017, non prevedono un legame di concatenazione tra la riqualificazione delle aree degradate e quella degli edifici in stato di degrado ovvero di abbandono”
Tuttavia – e questo pare l’anello debole e fortemente criticabile del ragionamento del TAR, a nostro avviso – la sentenza afferma che
“è pur vero che proprio tale dato rafforza l’esegesi sopra svolta, nel senso che non occorre la previa riqualificazione dell’area su cui insiste l’edificio in stato di abbandono per consentire su di esso interventi attuativi della legislazione derogatoria, ma è comunque indispensabile che lo stesso insista su un’area degradata e abbisognevole di riqualificazione”.
A conforto di tale affermazione (se non “petizione”) di principio la sentenza richiama – quale presunta “prova” – il disposto dell’art. 3 L.R. 7/2017.
Così si esprime il TAR:
“Ad ulteriore riprova della correttezza dell’ipotesi interpretativa qui sostenuta si colloca l’art. 3 della legge regionale in questione, il quale – intitolato “ambiti territoriali di riqualificazione e recupero edilizio” – affida ai consigli comunali il compito di individuare, anche su proposta dei privati, ambiti territoriali urbani nei quali, in ragione delle finalità di cui all’articolo 1, sono consentiti, previa acquisizione di idoneo e valido titolo abilitativo, interventi di ristrutturazione edilizia e urbanistica o interventi di demolizione e ricostruzione (….). Sono, pertanto, i comuni a dover individuare gli ambiti urbani che necessitano di razionalizzazioni del patrimonio edilizio esistente o di riqualificazione in quanto ricomprendenti aree urbane degradate.”
Il richiamo a tale norma, tuttavia, risulta del tutto contraddittorio ed errato, quantomeno se con esso si vuole dimostrare la necessità che gli interventi diretti – quelli ex art. 6 L.R. 7/2017 – siano realizzabili solo in aree degradate e da riqualificare.
Infatti, l’art. 3 della L.R. ha ad oggetto la individuazione, da parte dei Comuni, degli “Ambiti territoriali di riqualificazione e recupero edilizio”, entro i quali sono ammissibili specifiche ipotesi di intervento delineate dal medesimo art. 3.
L’art. 6 della L.R. 7/2017 è, come noto e ormai pacifico, del tutto autonomo rispetto all’art. 3 ed alla individuazione, ivi prevista, di aree degradate/da riqualificare (al riguardo rinviamo a diversi precedenti pareri regionali in passato segnalati ove la Regione ha sempre ribadito come l’art. 6 operi a prescindere da atti di “perimetrazione”).
Ecco perché la conclusione cui perviene la sentenza, sul punto, è chiaramente frutto di una lettura errata.
Infatti, se è vero che, come osserva il TAR, l’art. 1, co. 1, lett. b) L.R. 7/2017 “in tanto permette di intervenire su edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare in quanto, attraverso di essi, si pervenga a concorrere alla riqualificazione di aree urbane degradate o di aree produttive, con l’esclusione di ogni generalizzata “liberalizzazione” degli interventi edilizi ampliativi dell’esistente ove non connessi al perseguimento delle finalità previste dalla legge, tra le quali rientra la riqualificazione di contesti urbani degradati, la cui individuazione è rimessa, dall’art. 3 della legge regionale in parola, ai consigli comunali”, ciò non implica che per gli interventi ex art. 6 sia imposto che l’intervento ricada in un ambito “degradato”, dovendosi invece leggere nella norma la volontà del Legislatore di favorire interventi anche su immobili singoli, a prescindere dal contesto, purché siano perseguite finalità riferite o riferibili al singolo immobile).
D’altronde di ciò è significativo il fatto che la L.R. 7/2017 esclude dal campo di applicazione solo le porzioni di territorio ricadenti negli insediamenti urbani storici di PTPR, ammettendo quindi gli interventi in tutti gli altri tessuti dei PRG, ivi incluse le zone A.
Il TAR, insomma, finisce per confondere un proprio “auspicio” in un limite che, tuttavia, la norma non contempla (e, ovviamente, “condivisibile” o meno che sia la norma della Legge regionale, non è compito del Giudice Amministrativo integrarla con regole esterne al diritto positivo, peraltro traendole da altre disposizioni della medesima legge, come l’art. 3, che nulla hanno a che fare con il disposto dell’art. 6).
II. Il rilievo dell’assenza del requisito dell’essere l’immobile dismesso/in via di dismissione.
Il secondo tema – che qui esaminiamo, tra i vari affrontati in sentenza – attiene al fatto che l’intervento edilizio proposto si giustificava, come finalità ex art. 1, co. 1, lett. b), L.R. 7/2017, all’essere il fabbricato alberghiero dismesso/in via di dismissione.
Si tratta di un profilo puramente di merito, rispetto al quale, stando alla ricostruzione fattuale e documentale della sentenza (ovviamente non siamo a conoscenza di tutti gli atti e documenti di causa), la decisione appare invece piuttosto coerente.
Il richiedente aveva dichiarato di voler intervenire ex art. 6 L.R. 7/2017, con demolizione e ricostruzione, incremento di SUL e cambio d’uso a residenziale, in ragione del fatto che l’immobile versava era in via di dismissione, ossia una delle finalità di recupero ex art. 1, co. 1, lett. b), L.R. 7/2017.
Sulla base dei documenti esaminati in giudizio (in base ai quali il TAR è pervenuto al convincimento che “l’attività alberghiera sull’immobile per cui è causa non definitivamente cessata, ma solo temporaneamente sospesa per scelta della ricorrente, e riattivabile pertanto in qualsiasi momento”) pare (si sottolinea: nei limiti della conoscenza dei fatti/documenti di causa da parte nostra) ragionevolmente escludibile il richiamo alla specifica finalità ex art. 1 L.R. 7/2017.
Peraltro, tale aspetto appare anche “autosufficiente” rispetto al tema, ampiamente esaminato (con conclusioni a nostro avviso errate ed in contrasto con il dato normativo) della necessità che l’immobile ricada in un ambito “degradato”. Il che rende l’ampio – e secondo noi errato – excursus sul rapporto con il “degrado del contesto” nemmeno essenziale nella logica della sentenza.
Infatti, torniamo a sottolinearlo, l’art. 1, co. 1, lett. b) pone la finalità di “riqualificazione delle aree urbane degradate” su un piano autonomo e alternativo rispetto a quello di recupero di “complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare”.
III. Carta della Qualità, parere della Sovrintendenza Capitolina, ed art. 6 L.R. 7/2017.
Nella vicenda in esame viene in rilievo anche un parere negativo della Sovrintendenza capitolina, rientrando l’immobile in Carta per la Qualità.
Al di là del merito “tecnico” del parere (sul quale ovviamente non abbiamo elementi, in positivo od in negativo, per esprimere valutazioni) il tema che si pone è comprendere come e “a che titolo” rilevi il parere della Sovrintendenza capitolina.
Da quanto emerge dalla decisione in esame, esso pare rilevare non tanto ai fini della norma di PRG che attribuisce il potere valutativo alla Sovrintendenza (art. 16, co. 10, NTA PRG Roma), quanto piuttosto per il fatto che lo stesso dia “concretezza” al non ricorrere dei presupposti per applicare la normativa della L.R. 7/2017.
Infatti, osserva il TAR, “il parere in questione risulta, a giudizio del Collegio, congruamente ed adeguatamente motivato con riferimento non solo alle caratteristiche precipue dell’edificio, ma anche alle relazioni che il medesimo intrattiene con il tessuto edilizio dell’area su cui insiste, attestandone il coerente inserimento nel contesto urbano della zona, obiettivamente una delle più pregevoli della Capitale”.
Dunque, il parere della Sovrintendenza – nella complessiva logica della sentenza del TAR – pare saldarsi non tanto, o non solo, alla funzione ad esso assegnata dal PRG di Roma, quanto piuttosto, o soprattutto, quale “formalizzazione” delle valutazioni circa il ricorrere del perseguimento delle finalità ex art. 1 L.R. 7/2017 (con il riemergere anche della questione del tessuto urbano non degradato).
Il che lascia emergere il vuoto normativo su come, chi e sulla base di quali presupposti regolatori possa essere svolto il giudizio (altamente discrezionale) circa il perseguimento di una delle finalità ex art. 1 L.R. 7/2017 (tema che in precedenza abbiamo segnalato essere di particolare delicatezza). Detto altrimenti, in questo caso ben può dubitarsi che tale valutazione – ai fini della L.R. 7/2017 – competesse alla Sovrintendenza capitolina, verosimilmente spettando la valutazione allo Sportello Unico dell’Edilizia.
Ove, al contrario, si guardi al parere della Sovrintendenza in sé e per sé, ossia nell’ambito della funzione tipica ex art. 16 NTA P.R.G. il dubbio (ma è tema non espressamente esaminato dalla sentenza) è che lo stesso non potrebbe rilevare quale elemento ostativo alla realizzazione dell’intervento giacché andrebbe ad integrare una norma di Piano (la Carta Qualità tale è, non costituendo un vincolo sovraordinato ex d.lgs. 42/2004) come tale derogata dall’art. 6 L.R. 7/2017 (diversamente è a dirsi per il mero onere procedimentale, come da noto parere regionale).
In tal senso, con riferimento all’applicazione della legislazione derogatoria sul recupero dei sottotetti, il medesimo TAR Lazio, di recente, ha infatti notato che mentre la disciplina procedimentale, ossia l’obbligo di acquisire il parere della Sovrintendenza ex art. 16, co. 10, NTA PRG, non subisce deroghe, invece “una efficacia derogativa [della normativa speciale sul recupero dei sottotetti] potrà venire in rilievo nel merito del parere della Soprintendenza ai fini dell’assenso del progetto (nel senso che l’Autorità dovrà valutare il merito architettonico prescindendo da eventuali limiti strutturali)” (TAR Lazio, Sez. II-bis, 6.6.2022, n. 7299).
IV. L’applicabilità delle deroghe ex art. 8, co. 3, L.R. 7/2017 in caso di demoricostruzione.
L’ultimo tra i temi che passiamo in rassegna è quello della possibilità, in caso di intervento diretto di demolizione e ricostruzione con ampliamento ex art. 6 L.R. 7/2017, di beneficiare delle deroghe ex art. 8, co. 3, L.R. 7/2017, nella parte in cui ammette “Per la ricostruzione degli edifici demoliti” la deroga alle densità fondiarie e alle altezze massime di cui agli artt. 7 e 8 del DM 1444/68, in applicazione dell’art. 2-bis D.P.R. 380/2001.
Ad avviso del TAR sarebbe corretto quanto affermato nel provvedimento, ossia che, vista la menzione, da parte del provvedimento dei soli interventi di “ricostruzione degli edifici demoliti”, sarebbero esclusi gli interventi di “demolizione e ricostruzione”: “la norma riferisce la deroga in questione ai soli casi in cui il progetto riguarda solamente “la ricostruzione degli edifici demoliti” e non ai casi, ben diversi, di demolizione e ricostruzione, quale quello oggetto del presente gravame”.
Tale passaggio della sentenza appare oltremodo forzato e fuori dalla logica della L.R. 7/2017 (al di là, lo ripetiamo, dalle valutazioni sulla “opportunità” o correttezza intrinseca della legge, temi che il TAR non può risolvere “in autonomia”, dovendo, se del caso, quantomeno evocare, puntualmente, profili di incostituzionalità e deferire le relative questioni alla Consulta).
Le ragioni (interpretative) di questa nostra valutazione sono presto dette.
In primo luogo, laddove la norma si riferisce alla “ricostruzione”, essa chiaramente non ha ad oggetto l’ipotesi (a dir poco marginale) della ripristino di fabbricati “già demoliti”, ma ha di mira chiaramente il “tipico” intervento di rigenerazione/riqualificazione contemplato dalla L.R. 7/2017, ossia la demolizione e ricostruzione. Non a caso, la norma parla sì di “ricostruzione” ma nello specifico di “edifici demoliti” (non parlando, invece, degli edifici semplicemente “crollati”).
D’altronde, che un intervento di ricostruzione, non nell’ambito di una ristrutturazione edilizia tramite demo-ricostruzione, possa determinare un incremento di altezza/densità pare averlo escluso la stessa Regione Lazio che, pur ammettendo l’applicazione dell’art. 6 L.R. 7/2017 a fabbricati diruti, ha precisato che in tal caso non può aversi incremento di SUL (https://legal-team.it/rigenerazione-urbana-lazio-lart-6-si-applica-anche-ai-fabbricati-crollati-o-demoliti/).
Altro argomento che smentisce, quasi platealmente, la singolare tesi del TAR è il richiamo che l’art. 8 L.R. 7/2017 opera all’art. 2-bis D.P.R. 380/01 (si badi: norma statale attuata dalla disposizione regionale): il co. 1-ter di quest’ultima previsione, infatti, ha ad oggetto proprio gli interventi di “demolizione e ricostruzione” e non già solo quelli di “ricostruzione“.
Insomma, la tesi del TAR al riguardo appare molto più che discutibile.