Riserve negli appalti pubblici: posso iscriverle se manca il registro di contabilità?
In assenza di registro di contabilità, l’appaltatore ha la “facoltà” e non il “dovere” di iscrivere la riserva nel primo atto di contabilità utile immediatamente successivo.
Ciò è quanto affermato dalla Corte di cassazione, con ordinanza n. 33118 dello scorso 29 novembre, la quale, chiamata a pronunciarsi in tema di tempestività della formulazione delle riserve, ha chiarito che “solo in esso [n.d.r. registro di contabilità] si ha il dovere o l’onere di iscrivere le richieste dell’appaltatore a pena di decadenza, perché da esso soltanto è rilevabile l’incidenza che le varie vicende potranno avere sui costi dell’appalto sia per il committente sia per l’appaltatore”.
Nell’appalto di opere pubbliche, quindi, solo con l’istituzione del registro di contabilità sorge il dovere di iscrivere le riserve relative ai lavori eseguiti in precedenza.
La vicenda giunta all’attenzione della Corte di cassazione trae origine da una richiesta di condanna della stazione appaltante, formulata dalla società appaltatrice, al risarcimento dei danni come quantificati dalle n. 11 riserve iscritte nel corso del rapporto contrattuale.
Sia il Tribunale che la Corte d’appello hanno condannato la stazione appaltante al risarcimento danni, ritenendo tempestive le riserve.
Avverso la sentenza della Corte d’appello, la stazione appaltante ha, poi, proposto ricorso innanzi la Corte di cassazione, deducendo, in estrema sintesi, che la Corte d’appello avrebbe disatteso il principio generale secondo cui le riserve sono da iscrivere, a pena di inammissibilità, nel primo atto idoneo a riceverle successivo all’insorgere del fatto costitutivo, ossia, nella specie, nel libretto delle misure.
A tal fine, deve precisarsi che nel caso di specie non era stato tenuto il registro di contabilità. Pertanto, la Corte d’appello aveva ritenuto tempestive le riserve, evidenziando, tra le altre, che “alla luce dell’elaborazione di legittimità, il libretto delle misure non si prestava a sostituire il registro della contabilità, sicché unicamente nel registro della contabilità – e non già nel libretto delle misure- l’appaltatore avrebbe avuto l’obbligo di iscrivere le eventuali riserve”.
La Corte d’appello ha quindi ritenuto che mancando il registro di contabilità, venisse meno l’onere di iscrivere la riserva nel primo atto di contabilità utile immediatamente successivo.
Per la Suprema Corte, la tesi proposta dal ricorrente va disattesa e, richiamando i principi già pronunciati con la sentenza n. 3525 del 24 marzo 2000, ha affermato che “in assenza del registro, l’appaltatore avrà la facoltà e non l’onere all’atto della firma d’inscrivere in succinto in quei documenti contabili che devono essere da lui firmati le riserve e le domande che crederà del proprio interesse”.
La Corte ha chiarito che nell’appalto di opere pubbliche il registro di contabilità è solo il documento le cui pagine sono preventivamente numerate e firmate dall’ingegnere capo e dall’appaltatore e nel quale le singole partite siano iscritte rigorosamente in ordine cronologico (art. 52 r.d.n. 350/1895), per cui esso non può identificarsi né con il libretto delle misure, sul quale si annotano la misura e la classificazione dei lavori (art. 42 n.d.r. n. 350/1895), né con il giornale dei lavori di cui all’art. 40 del r.d. citato, in cui si registra settimanalmente la progressione dei lavori.
Il registro di contabilità è l’unico documento non tenuto sul luogo di lavori da cui emerge una visione d’insieme o unitaria dell’esecuzione dell’appalto; cosicché solo in esso si ha il dovere o l’onere di iscrivere le richieste dell’appaltato a pena di decadenza, perché da esso soltanto è rilevabile l’incidenza che le varie vicende potranno avere sui costi dell’appalto sia per il committente sia per l’appaltatore.
Ne consegue, dunque, – a parere della Corte di cassazione – che il registro di contabilità non può essere qualsiasi documento contabile dal quale non risulti una visione complessiva delle opere eseguite secondo il loro ordine cronologico e del rilievo che eventuali variazioni di esse possono avere dei costi dell’appalto per ambedue le parti contraenti.
Sulla base di tali premesse, la Suprema corte ha, quindi, ritenuto di non poter recepire il rilievo della ricorrente a tenore del quale “sul primo atto dell’appalto, successivo all’insorgere del fatto, qualunque esso sia, va iscritta la riserva”.
Ora, quella dell’apposizione delle riserve negli appalti pubblici è una problematica che assume notevole importanza per gli operatori, soprattutto per quanto riguarda i termini e le decadenze (ne abbiamo parlato qui).
In disparte, quindi, i principi enunciati dalla Suprema Corte, a parere di scrivere, in tema di riserve, la locuzione latina melius est abundare quam deficere (letteralmente “è meglio abbondare che scarseggiare”) rappresenta l’esatta sintesi di un approccio prudenziale e cautelativo che fa da contrappeso ad un quadro normativo non sempre chiaro e puntuale.