La ristrutturazione tramite ricostruzione di edifici crollati: ancora limiti dalla giurisprudenza.
I Giudici amministrativi proseguono nell’opera di “delimitazione” dei casi di “inammissibilità” degli interventi di ristrutturazione ricostruttiva previsti dall’art. 3, co. 1, lett. d) DPR n. 380/2001.
Ci riferiamo, in particolare, alla fattispecie del “ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Sul tema, oltre a posizioni più elastiche (come quella del Consiglio di Stato Sez. IV, 27.9.2017, n. 4516 secondo il quale “non risulta coerente con la tutela delle facultates agendi del proprietario e con le disposizioni in tema di ristrutturazione edilizia (…), il diniego di una istanza volta ad ottenere il permesso di costruire per ristrutturazione edilizia attesa la “impossibilità” di definire la preesistente consistenza del manufatto” laddove si sia in presenza di “riscontro dell’esistenza del fabbricato in catasto, di atti di compravendita del medesimo e di una pluralità di rilievi fotografici, che possono condurre, anche in via deduttiva, a stabilire la più volte citata consistenza (anche in misura inferiore, ma comprovabile, rispetto a quanto assunto dagli interessati, ovvero optando, in presenza di più risultati possibili, motivatamente per quello più restrittivo)”), continuano a registrarsi “resistenze” di vario genere.
E ciò – almeno – da due punti di vista:
a) il problema della “prova della precedente consistenza” (si veda ad esempio TAR Toscana, Sez. III, 21.3.2014, n. 567, dove si sottolinea che l’apparato probatorio allegato deve essere tale da offrire “certezza in punto di murature perimetrali e di strutture orizzontali di copertura, ai fini del calcolo del volume preesistente occupato dal fabbricato crollato”) ;
b) la questione del coordinamento con la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della ristrutturazione-ricostruzione (su cui la posizione più “radicale” è stata espressa dal Consiglio Superiore dei LL.PP. secondo il quale “la ricostruzione di un edificio crollato o demolito non può che avvenire nel rispetto dei vincoli pianificatori vigenti”, sicché dovrà tenersi conto, tra l’altro, di “destinazioni d’uso incompatibili con la costruzione” (così il parere del 18.2.2016).
Ma non è su tali aspetti (sicuramente critici) che – in questa sede – ci soffermeremo, quanto, invece, su un profilo ulteriore e, a quanto ci consta, “inedito”.
Cosa accade laddove il sedime sul quale “sorgeva” l’edificio da ripristinare (tramite ristrutturazione, per l’appunto) è, nelle more, stato oggetto di trasformazioni urbanistico-edilizie?
Una (discutibile) risposta proviene dalla sentenza TAR Campania, Napoli, 7.11.2017, n. 5234.
Secondo il TAR, in particolare, poiché il soggetto interessato alla ricostruzione, “nell’arco temporale intercorso tra la demolizione del fabbricato e la presentazione della domanda diretta ad ottenere il titolo edilizio [per la sua ricostruzione], ha ritenuto di sfruttare diversamente l’area, attuando un intervento di pavimentazione e recinzione, ed imprimendo alla stessa una destinazione a parcheggio (..)” ne conseguirebbe una “recisione” del ” rapporto di continuità con la preesistenza”, con conseguente impossibilità di configurare “un intervento di “ristrutturazione” in quanto, sia la presenza di una qualche traccia materiale della preesistenza sia la continuità (valutati congiuntamente o anche solo disgiuntamente) costituiscono il nucleo imprescindibile degli interventi di ricostruzione”.
Insomma, secondo il TAR Campania, affinché il privato possa vantare un diritto a ri-edificare (tramite ristrutturazione edilizia) occorrerebbe un elemento ulteriore rispetto a quello previsto dalla legge (la dimostrazione della “preesistente consistenza”); in particolare sarebbe necessario che le consistenze e le cubature fisicamente non più esistenti non siano, tuttavia, state “abbandonate”.
Francamente, la tesi del TAR Campania ci sembra che provi troppo, finendo per introdurre un limite al diritto edificatorio che l’art. 3, co. 1, lett. d) del DPR 380/2001 non sembra affatto postulare né presupporre.
Tuttavia, non può negarsi che la norma in esame, a distanza di diversi anni dalla sua introduzione, necessiterebbe di numerosi “correttivi” e “approfondimenti” da parte del Legislatore.
Come accennato, vari sono, infatti, i profili problematici (urbanistici e non solo edilizi) che l’istituto in questione pone e la cui soluzione deve passare, ad avviso di chi scrive, da risposte “certe”, quindi legislative.
Sul tema sia consentito rinviare sia ad un precedente contributo sia all’approfondimento pubblicato sul blog dell’Ing. Carlo Pagliai