La durata del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta: 5 mesi sono sufficienti?
Qual è la durata del procedimento di verifica dell’anomalia dell'offerta? Può la stazione appaltante procedere all’esclusione di un partecipante ad una gara d’appalto all’esito di un subprocedimento di verifica dell’anomalia durato oltre 5 mesi?
A tale quesiti ha fornito una risposta una recente pronuncia del TAR Campania.
Nei fatti accadeva, in estrema sintesi, che, all’esito di una procedura di gara per l’aggiudicazione del servizio di logistica integrata, un operatore economico, dopo aver ottenuto il massimo punteggio per l’offerta tecnica ed economica, veniva escluso dopo che era stato espletato il procedimento di verifica di anomalia dell’offerta.
In particolare, l’esclusione veniva disposta dall’amministrazione dopo ben 5 mesi dall’avvio del subprocedimento di verifica dell’anomalia, che era stato caratterizzato da numerosi chiarimenti richiesti dall’amministrazione all’operatore.
Avverso l’esclusione, l’operatore formulava istanza di annullamento in autotutela. A fronte di ciò, l’amministrazione formulava istanza di parere di precontenzioso ex art. 211, d.lgs. 50/2016, in riscontro alla quale l’ANAC invitava l’amministrazione a procedere alla verifica delle singole voci di costo indicate nell’offerta economica.
Esperito tale ulteriore istruttoria, la stazione appaltante, tuttavia, confermava il provvedimento di esclusione.
L’operatore impugnava così il provvedimento di esclusione, lamentando l’illegittimo comportamento tenuto dall’amministrazione. A parere del ricorrente, sarebbe stata ravvisabile un’irregolarità formale del subprocedimento di verifica dell’anomalia, che si era indebitamente protratto per un periodo di tempo eccessivamente lungo, pari ad oltre 5 mesi.
La censura così formulata non ha trovato accoglimento.
Secondo il Collegio, il fatto che il subprocedimento di verifica dell’anomalia si sia protratto per oltre 5 mesi non è un elemento sintomatico della legittimità o meno del provvedimento conclusivo del procedimento (nel caso di specie, la determina di esclusione).
Sottolinea il TAR, infatti, che le maggiori occasioni di dialogo e confronto tra il ricorrente e la stazione appaltante sull’offerta economica rappresentano potenzialmente un vantaggio per il ricorrente la cui offerta è sottoposta a stringente scrutinio, il quale ha occasione di “provare” l’affidabilità della propria offerta.
In altri termini, è ben possibile – come accaduto nel caso di specie – che la stazione appaltante, ricevute le prime giustificazioni dal concorrente, non sia messa nelle condizioni di superare i dubbi sorti in merito all’attendibilità dell’offerta su cui sta operando la verifica dell’anomalia, motivo per cui è perfettamente legittimo che la stessa richieda ulteriori chiarimenti al partecipante soggetto alla verifica medesima.
La richiesta di plurimi e successivi chiarimenti all’operatore economico rappresenta una condotta che, nelle stesse parole dei giudici viene definita come “doverosa”, attesa la ratio e la finalità propria dell’art. 97 d.lgs. 50/2016.
Come precisato dalla giurisprudenza, richiamata anche nella motivazione dal TAR, sebbene l’ulteriore fase di confronto procedimentale a seguito della presentazione dei primi giustificativi non sia più obbligatoria, la stazione appaltante sarà comunque legittimata “alla richiesta di ulteriori chiarimenti o a una audizione quando le circostanze lo richiedano per l’incompletezza delle giustificazioni” (in questi termini, cfr. TAR Lazio Roma, Sez. I bis, 4.1.2021, n. 11).
Il Collegio ha così rigettato il ricorso, ritenendo che il motivo di impugnazione così articolato si traduceva, nel caso di specie, “in una critica indiscriminata e meramente formalistica dell’operato della stazione appaltante non sorretto da una qualsivoglia (condivisibile) concretezza”, atteso che non era stato dimostrato in che modo la lamentata irregolarità del sub-procedimento di anomalia aveva pregiudicato l’esito del procedimento.
TAR Campania Napoli, Sez. IV, 7.2.2023, n. 867
Omessa produzione attestazione di equipollenza titolo di studio: esclusione dalla gara d’appalto o soccorso istruttorio?
In mancanza dell’attestazione di equipollenza del titolo di studio conseguito all’estero da un componente del proprio staff (ossia dei soggetti impiegati per l’esecuzione dell’appalto medesimo), è legittima l’esclusione dalla gara d’appalto o deve essere attivato il soccorso istruttorio?
E, se deve attivarsi il soccorso istruttorio, su quali ragioni si basa la decisione?
A tali quesiti fornisce risposta il CGARS.
Ma andiamo con ordine.
Fatto e giudizio di primo grado
In una procedura avente ad oggetto l’affidamento del servizio di digitalizzazione dei fascicoli giudiziari, da aggiudicarsi con il criterio del minor prezzo, un concorrente è stata escluso per non aver allegato, alla domanda di partecipazione alla gara, la dichiarazione di equipollenza del titolo di studio (conseguito, da uno dei responsabili del servizio, in Romania).
Nel giudizio avverso l’esclusione, il Collegio investito della questione ricorda, anzitutto, che la Convenzione di Lisbona – ratificata con l. 11 luglio 2002, n. 148 – ha introdotto nel nostro ordinamento il principio del riconoscimento finalizzato del titolo di studio estero: perché un titolo di studio conseguito all’estero abbia valore legale anche in Italia, il titolare del documento dovrà ottenere l’attestazione di equipollenza.
In assenza di tale dichiarazione – con cui si valuta la completezza, esaustività e corrispondenza dei cicli di studio svolti all’estero rispetto agli omologhi parametri nazionali – il titolo di studio conseguito all’estero non potrà essere proficuamente speso per la partecipazione a procedure selettive in Italia (concorsi pubblici o gare di appalto), non essendo possibile verificare la corrispondenza del titolo de quo con quanto richiesto dalla lex specialis.
Né, conclude il Collegio, l’amministrazione poteva ricorrere al soccorso istruttorio, in ragione del fatto che la contestata mancata produzione del documento non era sanabile con il ricorso a tale istituto (essendo essa riconducibile ad un requisito di capacità tecnico-professionale).
Sulla base di tali argomentazioni, il ricorso è stato rigettato.
Giudizio in CGARS
Le conclusioni cui giungeva il Collegio di prime cure non venivano, però, condivise dal CGARS.
Pur ritenendo corretto che il partecipante ad una gara di appalto in possesso di titolo di studio conseguito all’estero debba necessariamente produrre l’attestazione di equipollenza, a prescindere dalla circostanza che essa sia richiesta o meno dalla lex specialis di gara (si tratterebbe, infatti, di un principio di carattere generale, ricavabile dalla citata l. 148/2002), la mancata produzione dell’attestazione medesima non è motivo tale da giustificare l’esclusione dalla gara.
A tal proposito, nessuna disposizione della lex di gara impone l’esclusione nel caso di omessa produzione dell’attestazione di equipollenza: in tale circostanza, l’amministrazione avrebbe dovuto attivare il soccorso istruttorio (e, pertanto, attendere un ragionevole termine entro cui il concorrente avrebbe dovuto produrre tale documento) oppure richiedere al partecipante la sostituzione della risorsa (il concorrente si era peraltro dichiarato disponibile ad una soluzione in tal senso).
Con specifico riferimento alla mancata attivazione del soccorso istruttorio (giustificata con la circostanza che l’attestazione non prodotta era qualificata come requisito di capacità tecnico-professionale), è sufficiente osservare come il curriculum (cui l’attestazione doveva essere allegata) non costituisce né un requisito di partecipazione né è parte dell’offerta tecnica e/o di quella economica.
Il curriculum è, infatti, un mezzo di comprova del requisito ovvero, più specificamente, va fatto rientrare tra la documentazione amministrativa (sicché l’eventuale sostituzione del CV non determina una inammissibile modificazione soggettiva dell’offerta, tale da comportare l’esclusione del concorrente).
Per tali motivi, il CGARS conclude che “il soccorso istruttorio (…) sarebbe stato doveroso, atteso, da un lato, che (…) la carenza della comprova del requisito non attiene ad elemento sostanziale dell’offerta economica o tecnica, ma alla completezza della documentazione amministrativa”, con l’ulteriore precisazione che “l’irregolarità in discorso (…) non evidenzia alcuna carenza sostanziale del requisito alla cui dimostrazione la documentazione omessa era finalizzata”.
(CGARS, Sez. giurisdizionale, 2.1.2023, n. 4)
Appalti pubblici. Revisione prezzi tra aggiudicazione e stipula del contratto: possibile contrasto giurisprudenziale all’orizzonte?
Negli appalti pubblici, la possibilità di procedere con revisione prezzi in un momento antecedente la stipula del contratto continua ad essere un tema “caldo”.
Di recente, abbiamo parlato in questa news della pronuncia n. 9426/2022 del Consiglio di Stato che, nel confermare la pronuncia di primo grado resa dal TAR Lombardia Brescia n. 239/2022, ha negato la possibilità di procedere alla revisione dei prezzi nella fase intercorrente tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto.
A distanza di pochi giorni, una sentenza del TAR Sardegna si è espressa invece a favore della revisione prezzi nella delicata fase tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto.
Nei fatti sottoposti all’attenzione del Collegio, il ricorrente era divenuto aggiudicatario di una gara avente ad oggetto un servizio di raccolta rifiuti; l’aggiudicazione era stata disposta ad oltre due anni dalla data di presentazione dell’offerta in sede di gara.
Dato il considerevole lasso di tempo intercorso tra la presentazione dell’offerta (luglio 2012) e la stipula del contratto (avvenuta solo ad aprile 2014), la società aveva inoltrato all’Amministrazione una istanza di revisione del prezzo, in ossequio a quanto previsto da specifica disposizione contrattuale, in ragione degli aumenti riscontrati nel tempo trascorso - ben due anni - tra la presentazione delle offerte e l'inizio del servizio.
Secondo la ricorrente, infatti, il contratto conteneva non solo una clausola di revisione del prezzo relativa all’adeguamento del compenso durante l'esecuzione del contratto pluriennale (riferita all’indice FOI) ma anche una ulteriore clausola, inerente alla necessità di adeguare il compenso stante l’aumento del costo del personale e delle utenze non pro-futuro in corso di esecuzione del contratto (il cui ammontare non poteva superare il predetto indice FOI), bensì prima della stipula del contratto, rispetto a quanto oggetto di offerta in sede di gara.
La società, dunque, riteneva di avere diritto “a che il corrispettivo pattuito sia adeguato, a far data dall'avvio del servizio (e, quindi, dal giugno 2014), sulla base del maggior del costo del lavoro intervenuto tra il 2012 ed il 2014 (ricavabile dalle tabelle ministeriali FISE) e sulla base delle maggiori utenze attivate nel periodo ricompreso tra la data di presentazione delle offerte e l'avvio del servizio (sempre tra il 2012 ed il 2014). Il compenso così determinato doveva, poi, essere adeguato annualmente sulla base dell'indice FOI”, ossia in base alla clausola prevista dal contratto.
Tale istanza veniva, però, respinta.
Il rifiuto veniva motivato sulla base di un duplice ordine di ragioni: da un lato, la disposizione contrattuale invocata dalla società relativa agli aumenti verificatisi prima della stipula del contratto era da ritenersi nulla, in quanto non prevista nello schema di contratto approvato e posto a base degli atti di gara; dall’altro, la circostanza che la disposizione del Capitolato prevedeva la possibilità di una revisione dei prezzi solo nel caso in cui l’aumento delle utenze fosse risultato superiore del 20% rispetto a quelle indicate in sede di gara.
La questione giuridica individuata dal Collegio, dunque, riguarda la portata e i limiti del c.d. principio di immodificabilità del contratto, con specifico riferimento alla possibilità o meno di modificare il contenuto di determinate clausole contrattuali nel segmento temporale intercorrente tra aggiudicazione e stipula del contratto (e, in caso affermativo, entro quali limiti tale rinegoziazione sia possibile).
Su tale questione, evidenzia il Collegio, sussistono due posizioni contrastanti.
Un primo orientamento, capeggiato dalla citata sentenza del TAR Lombardia Brescia n. 239/2022, ritiene che l’istanza di revisione del prezzo formulata prima della stipula del contratto non possa trovare accoglimento per la semplice ragione che la sua formulazione presuppone, appunto, l’esistenza di un contratto valido ed efficace (posizione, questa, condivisa in sede d’appello anche dalla pronuncia n. 9426/2022 del Consiglio di Stato).
Secondo tale orientamento, la fase che precede la stipula del contratto è infatti contraddistinta dalla par condicio tra i concorrenti e dall’immodificabilità dell’offerta, principi che inibiscono qualsiasi tipo di cambiamento dell’oggetto del contratto o della proposta fatta dal privato (TAR Lazio Roma, Sez. III, 27.11.2017, n. 11732).
Una seconda e diversa tesi, invece, sostiene che “il principio di immodificabilità del contratto non ha carattere assoluto” (come affermato da CGUE, Sez. VIII, 7.9.2016, C-549/14): facendo applicazione di tale principio, è stato affermato come non contrasterebbe con il principio di parità di trattamento e con il correlato obbligo di trasparenza la possibilità di procedere ad una revisione dei prezzi in una fase antecedente la stipula del contratto (TAR Toscana, Sez. I, 25.2.2022, n. 228).
Tale possibilità è motivata, in particolare, dal fatto che l’indizione di una gara di appalto costituisce un impegno particolarmente gravoso per l’amministrazione, con la conseguenza che gli esiti della stessa non possono essere vanificati da eventuali sopravvenienze.
In un simile contesto, “la scelta dell’amministrazione di individuare i termini della necessaria rinegoziazione ancor prima di procedere alla stipulazione del contratto si configura in fondo come prudente, poiché, posto che la rinegoziazione implica ovviamente l’accordo della controparte, ove tale accordo non fosse stato raggiunto, si sarebbe rafforzata in capo all’amministrazione una possibilità di revoca fondata sulle sopravvenienze organizzative e su un ragionevole rispetto delle aspettative dell’aggiudicatario” (TAR Piemonte, Sez. I, 28.6.2021, n. 667).
Il Collegio, nell’accogliere il ricorso, si allinea a questa seconda tesi.
In particolare, secondo i giudici, la correttezza della seconda tesi trova conferma nel fatto che:
- poiché “non vi è una disciplina specifica delle sopravvenienze applicabile alla fase tra l’aggiudicazione e la stipulazione del contratto”, la legittimità di una rinegoziazione sarebbe da rinvenire nella ratio stessa dell’istituto, ossia riequilibrare il rapporto economico contrattuale;
- la “corretta applicazione del principio di economicità, dunque di buon andamento, dell’amministrazione (richiamato dall’art. 30, comma 1, del codice dei contratti pubblici), scongiura una riedizione della procedura, che diversamente s’imporrebbe in tutti i casi di modifica, ancorché non “essenziale”, delle condizioni”.
Fermo restando il principio secondo cui è possibile la modifica delle condizioni contrattuali anche in un momento antecedente la stipula del contratto, atteso che le modifiche non essenziali al contratto valorizzano la tipologia delle stesse e non il momento in cui esse intervengono – così come evidenziato dalla citata CGUE – il Collegio ha concluso per la legittimità della clausola contrattuale “nella parte in cui ha previsto un adeguamento del compenso per l’appalto rispetto alla procedura di gara, in ragione del lungo tempo trascorso tra la presentazione dell’offerta e la stipulazione del contratto stesso”.
Per un approfondimento si veda l'ultima pubblicazione di Rosamaria Berloco, "Le sopravvenienze negli appalti pubblici", Legislazione Tecnica 2022.
(TAR Sardegna, Sez. II, 16.11.2022, n. 770)
La categoria OS32 inferiore al 10% non è a qualificazione obbligatoria: la conferma del TAR Lombardia
Una delle problematiche più frequente nelle gare per l’affidamento dei lavori pubblici attiene al novero delle categorie a qualificazione obbligatoria, per l’esecuzione delle quali è necessario che l’esecutore sia in possesso della relativa attestazione SOA.
Complice una normativa poco chiara e stratificata, la giurisprudenza si è spesso interrogata sulla possibilità di considerare la categoria OS32 di importo inferiore al 10% come categoria a qualificazione obbligatoria o meno.
Con la sentenza n. 8096/2020 il Consiglio di Stato aveva precisato che la categoria OS32, benché inclusa dal d.m. 248/2016 tra le c.d. opere “superspecialistiche” (le c.d. SIOS), non rientra tra quelle “a qualificazione obbligatoria”.
Secondo il Consiglio di Stato, infatti, le categorie a qualificazione obbligatoria includono, a norma dell’art. 109, comma 2 del d.P.R. 207/2010, le lavorazioni che “non possono essere eseguite direttamente dall’affidatario in possesso della qualificazione per la sola categoria prevalente, se privo delle relative adeguate qualificazioni”. L’elenco delle categorie a qualificazione obbligatoria era così contenuto nell’allegato A al regolamento, tra cui era compresa anche la categoria OS32.
Tal disposizione, tuttavia, è stata superata dal d.l. 47/2014 che, all’art. 12, comma 2, lett. b), ha reintrodotto le categorie di lavori a qualificazione obbligatoria, senza tuttavia far riferimento alla categoria OS32.
Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, la categoria OS32, sebbene appartenente alle opere SIOS, non è da considerarsi come categoria a qualificazione obbligatoria, per cui in base all’art. 92, comma 1, d.P.R. 207/2010, tuttora parzialmente vigente, l’operatore economico privo della qualificazione in tale categoria scorporabile può eseguire i lavori se qualificato nella categoria prevalente per l’intero importo dell’appalto.
Tale conclusione è stata di recente confermata anche dal TAR Lombardia, che ha ritenuto che la categoria OS32 non debba considerarsi a qualificazione obbligatoria.
Nel caso deciso dalla pronuncia in commento, avente ad oggetto l’affidamento della progettazione e l’esecuzione di lavori di ristrutturazione di un complesso scolastico, la stazione appaltante aveva inserito nel disciplinare una clausola per la quale i concorrenti dovevano fornire una soluzione temporanea entro cui sistemare gli studenti nelle more del completamento dei lavori di ristrutturazione.
A tal fine, uno dei partecipanti alla procedura aveva proposto la sistemazione degli studenti in strutture realizzate con tecnologie a secco in legno, riconducibili alla categoria scorporabile OS32.
Tale operatore veniva escluso in quanto l’amministrazione riteneva che la categoria OS32, ancorché di importo inferiore al 10% del valore complessivo dei lavori, era superiore alla somma di 150.000,00€, sicché la qualificazione in tale categoria doveva avvenire mediante possesso della stessa nell’attestazione SOA ovvero con ricorso al subappalto.
L’esclusione era, però, annullata in autotutela dall’amministrazione: accogliendo le argomentazioni dell’operatore escluso, la stazione appaltante aveva ritenuto che, nonostante fosse inclusa tra le opere SIOS dal d.m. 248/2016, la categoria OS32 non era ricompresa tra quelle a qualificazione obbligatoria, poiché non contenuta nell’elenco di cui all’art. 12, comma 2, lett. b), d.l. 47/2014.
Da ciò derivava, secondo la stazione appaltante, la piena legittimità della partecipazione alla gara di tale operatore: questi, infatti, nonostante fosse privo di qualificazione nella categoria scorporabile, era in ogni caso qualificato nella prevalente per l’intero valore dell’appalto.
L’amministrazione sposava così la tesi del Consiglio di Stato nella sentenza n. 8096/2020 citata.
A fronte della disposta aggiudicazione in favore del concorrente riammesso, la seconda classificata proponeva ricorso lamentando, in particolare, come la riammissione era stata illegittimamente disposta in quanto il concorrente in questione non solo non era in possesso della categoria OS32, ma non aveva neppure prodotto la dichiarazione di subappalto con la contestuale indicazione dell’impresa designata per l’esecuzione dei lavori rientranti in tale categoria.
Il TAR Lombardia ha rigettato il ricorso, ricordando anzitutto come la qualificazione di categoria SIOS sia subordinata al contemporaneo verificarsi di due condizioni, ossia:
- la categoria in questione deve essere presente nell’elenco di cui all’art. 2, d.m. 248/2016;
- il suo valore deve superare il 10% dell’importo totale dei lavori, come richiesto dall’art. 89, comma 11, d.lgs. 50/2016.
Nel caso in commento, secondo i giudici, la categoria OS32 non può essere qualificata come superspecialistica in quanto, ancorché inserita nell’elenco di cui al citato art. 2, d.m. 248/2016, è di importo superiore al 10% richiesto.
In ogni caso, ribadisce il TAR, la categoria OS32 non è una categoria a qualificazione obbligatoria, poiché non contenuta nell’elenco di cui all’art. 12, comma 2, lett. b), d.l. 47/2014.
Secondo il TAR, peraltro, non si potrebbe giungere ad una diversa conclusione nemmeno considerando il d.m. 248/2016 come integrativo del d.l. 47/2014, giacchè il d.m. 248/2016 è attuativo del dettato di cui all’art. 89, comma 11, d.lgs. 50/2016. La norma sancisce l’impossibilità di ricorrere all’avvalimento in tutti i casi in cui l’oggetto dell’appalto ricomprenda, per l’appunto, opere “per le quali sono necessari lavori o componenti di notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica, quali strutture, impianti e opere speciali”. Perché il predetto divieto di ricorso all’avvalimento possa trovare applicazione, lo stesso art. 89, comma 11, ricorda come il valore dell’opera a notevole contenuto tecnologico o connotata da una rilevante complessità debba superare il 10% del valore complessivo dell’appalto, demandando ad un decreto ministeriale la relativa elencazione. Tale decreto ad oggi è costituito dal d.m. 248/2016.
Il TAR ha così concluso per la legittimità dell’operato della stazione appaltante in quanto “le lavorazioni riconducibili alla categoria OS32, sebbene da considerare superspecialistiche (SIOS) in quanto incluse nel d.m. 248/2016, non rientrano tra le categorie a qualificazione obbligatoria in quanto escluse dal d.l. 47/2014”, così legittimando l’aggiudicatario ad eseguire in proprio le lavorazioni inerenti a tale categoria.
(Cons. St., Sez. V, 17.12.2020 n. 8096)
(TAR Lombardia Milano, Sez. I, 14.9.2022 n. 2005)
Concessioni “balneari”: i TAR si interrogano sulla direttiva Bolkestein
Quello delle concessioni demaniali con finalità turistico ricreative (volgarmente dette concessioni “balneari”) continua ad essere – nonostante i punti fermi messi dalle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021) – un tema particolarmente dibattuto, in particolare con riferimento alla interpretazione della direttiva Bolkestein.
A costituire oggetto di dibattito, in particolare, sono le conclusioni raggiunte dall’Adunanza Plenaria: gli arresti giurisprudenziali contenuti nelle predette pronunce sono stati, infatti, ritenuti frutto di una inaccettabile “invasione di campo”, motivo per cui stato proposto ricorso per il loro annullamento dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (ricorso con cui viene lamentato l’illegittimo superamento, da parte della Plenaria, della competenza giurisdizionale a tale organo riconosciuta).
Altro motivo di confronto sono le disposizioni del c.d. d.d.l. concorrenza relative alla revisione del sistema delle concessioni medesime: secondo gli operatori del settore, con tale provvedimento si priverebbero moltissime imprese (perlopiù a conduzione familiare) dell’unica fonte di guadagno (in molti, infatti, vedono il d.d.l. concorrenza – al momento ancora in esame – come un mezzo per “espropriare i legittimi concessionari al fine di svendere le spiagge ad investitori stranieri”).
Sotto un terzo, ed ultimo, profilo, si discute della qualificazione da attribuire alla c.d. direttiva Bolkestein, una delle pietre miliari del dibattito (è stato, infatti, il contenuto della direttiva – e della sentenza “Promoimpresa” resa dalla CGUE – a condurre l’Adunanza Plenaria - va detto, su impulso del Presidente del Consiglio di Stato - a determinarsi a far “cassare” le proroghe al 2033 operate dal legislatore con l’art. 1, commi 682 e 683, della l. 145/2018).
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, in particolare, il TAR Lecce – voce minoritaria, in un contesto giurisprudenziale che sembra concorde nel ritenere illegittime le suddette proroghe – ha recentemente messo nuovamente in discussione la portata della direttiva Bolkestein, rimettendo – con ordinanza n. 743 dell’11.5.2022 – alla CGUE la seguente questione preliminare: “Se la direttiva 2006/123 risulti valida e vincolante per gli Stati membri o se invece risulti invalida in quanto – trattandosi di una direttiva di armonizzazione – adottata solo a maggioranza invece che all’unanimità, in violazione dell’art. 115 T.F.U.E.”.
Al quesito così formulato ha fatto fa seguito un ulteriore quesito, per cui il Collegio rimettente si chiede “Se la direttiva 2006/126 c.d. Bolkestein presenti o meno oggettivamente ed astrattamente i requisiti minimi di sufficiente dettaglio della normativa e di conseguenza assenza di spazi discrezionali per il legislatore nazionale tali da potersi ritenere la stessa auto-esecutiva e immediatamente applicabile”.
In definitiva, il TAR Lecce dispone il rinvio alla Corte comunitaria affinché quest’ultima – ferma restando la necessità di delibare sulla validità o meno della direttiva Bolkestein (ritenuta, dal giudice rimettente, invalida perché adottata in maniera difforme rispetto alle disposizioni sovranazionali) – fornisca una interpretazione autentica della direttiva medesima, al fine di porre rimedio allo “stato di caos e di assoluta incertezza del diritto, connesso all’effetto di esclusione o disapplicazione meramente ostativa”.
Come detto, tuttavia, la posizione del TAR Lecce è minoritaria.
Con due recenti pronunce – Sez. II bis, 11.5.2022 n. 5869 e Sez. II, 1.6.2022 n. 7173 – il TAR Lazio ha ritenuto che, diversamente da quanto sostenuto nell’ordinanza di Lecce, non fosse necessario alcun rinvio pregiudiziale alla CGUE. In particolare, nella sentenza resa dalla Sez. II in data 1.6.2022, il Collegio evidenzia come “la disciplina dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/123/CE – come interpretata dalla Corte di giustizia europea nella sentenza 14 luglio 2016, causa C-458/14 e C-67/15 – sia direttamente applicabile nell’ordinamento interno, a prescindere dalla sussistenza di un “interesse transfrontaliero certo”, in quanto oggetto di “armonizzazione esaustiva” o “completa” da parte del legislatore dell’Unione”.
Ciò significa, secondo il Collegio, che non è necessario il rinvio pregiudiziale alla Corte UE in quanto – come osservato dall’Adunanza Plenaria nelle sentenze gemelle – la direttiva Bolkestein ha natura “self-executing”, essendo caratterizzata da un livello di dettaglio sufficiente per essere applicata nel nostro ordinamento.
Ne deriva, in conclusione, che “non è compatibile con il diritto dell’Unione la (…) disciplina nazionale avente ad oggetto o per effetto l’indiscriminata proroga dell’efficacia delle concessioni riguardanti l’uso esclusivo delle aree demaniali marittime (o lacuali o fluviali)”.
Fermi restando gli arresti giurisprudenziali sin qui riportati, è appena il caso di evidenziare che il legislatore ha, apparentemente, preso coscienza della necessità di regolamentare, una volta per tutte (e senza ricorrere, questa volta, a ulteriori proroghe) il settore delle concessioni: alla data odierna è infatti in discussione alla Camera dei deputati il c.d. DDL concorrenza, già licenziato dal Senato, con cui si dovrebbe finalmente procedere (in ossequio all’arresto dell’Adunanza Plenaria, per cui il termine ultimo di validità delle concessioni vigenti è fissato al 31.12.2023, con divieto di ulteriori proroghe – le quali, anche se disposte, saranno da intendersi come “tamquam non esset”) ad una complessiva revisione del sistema delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative.
(TAR Puglia Lecce, Sez. I, ord. 11.5.2022 n. 743 -TAR Lazio Roma, Sez. II bis, 11.5.2022 n. 5869 - TAR Lazio Roma, Sez. II, 1.6.2022 n. 7173)
Obbligo di indossare il casco per i maggiorenni conducenti monopattini elettrici: perseverare è diabolico.
Le amministrazioni comunali – nella persona del Direttore del settore mobilità e nuove infrastrutture – non possono emanare ordinanze con cui si impone l’obbligo di indossare il casco ai maggiorenni conducenti monopattini elettrici. A questa conclusione giunge il TAR Firenze, a poco più di un anno dalla pronuncia (n. 215/2021) con cui veniva annullato un provvedimento reso dal Sindaco, avente medesimo tenore e contenuto, di cui abbiamo parlato in questa news.
Nei fatti, accadeva che a seguito della menzionata pronuncia del TAR – con cui veniva annullato il provvedimento del Sindaco volto ad imporre l’obbligo all’uso del casco ai maggiorenni conducenti monopattini elettrici – il Direttore del settore mobilità e nuove infrastrutture emanava ordinanza (avente medesima forma e contenuto di quella annullata dal TAR) con cui imponeva, nuovamente, ai maggiorenni conducenti monopattini a prevalente propulsione elettrica l’obbligo di indossare il casco. In particolare, nelle intenzioni dell’amministrazione comunale, tale obbligo troverebbe giustificazione “nella particolar pericolosità del mezzo”, pericolosità tale da rendere necessaria l’adozione di una ordinanza ai sensi degli artt. 6, comma 4, e 7, comma 1, d.lgs. 285/1992.
Anche tale ordinanza veniva, però, impugnata dinanzi al TAR: i ricorrenti, in particolare, lamentavano non solo la violazione dell’art. 117, comma 2, lettera h), Cost. – norma che sancisce la potestà legislativa esclusiva dello Stato in tema di ordine pubblico e sicurezza – ma anche la violazione di norme del Codice della Strada nonché dell’art. 1, commi 75 ss., Legge 27.12.2019 n. 160 (che disciplina le norme di comportamento relativamente alla circolazione con monopattini elettrici).
Secondo il Collegio chiamato a pronunciarsi sulla questione (che fa proprie le conclusioni raggiunte dalla medesima Sezione nella sentenza n. 215/2021), è anzitutto necessario evidenziare come il richiamo agli artt. 6, comma 4, e 7, comma 1, d.lgs. 285/1992 è inconferente nel caso di specie. In particolare, l’art. 6, comma 4, è disposizione contenente una mera elencazione di materie specificamente individuate (da cui non può, in nessun caso, farsi derivare la giustificazione con cui l’amministrazione comunale possa imporre l’obbligo contenuto nell’ordinanza impugnata).
Quanto all’art. 7, comma 1, invece, è appena il caso di evidenziare come detta norma contenga una serie di prescrizioni limitative della circolazione (che, però, non ricomprendono la possibilità di imporre l’obbligo di indossare il casco ai conducenti i monopattini elettrici).
È, dunque, opinione del Collegio che “non solo l’emanazione dell’atto impugnato non possa trovare giustificazione nelle disposizioni sopra citate” (ossia l’art. 6, comma 4, e l’art. 7, comma 1, d.lgs. 285/1992), ma anche che non può giustificarsi “l’emanazione dell’atto, non essendo possibile individuare una norma che preveda un generale potere dell’amministrazione comunale di imporre prescrizioni a tutela della circolazione che non rientrino nell’espressa elencazione contenuta nei due articoli citati del Codice della strada”.
In conclusione, il Collegio – accogliendo il ricorso – afferma che “la legislazione statale in vigore al momento dell’emanazione dell’atto impugnato, oltre a non prevedere poteri di intervento in materia dell’Ente locale, delineava chiaramente una sistematica normativa che limitava l’obbligo di munirsi del casco protettivo ai soli minori di 18 anni che utilizzassero il monopattino elettrico”: ne deriva, quindi, come “l’imposizione dell’obbligo di utilizzare il casco ai conduttori di monopattini elettrici ultradiciottenni risulti in ulteriore e frontale contrasto con le previsioni normative statali sopra richiamate e che limitano l’operatività dell’obbligo ai soli utilizzatori infradiciottenni”.
(TAR Toscana Firenze, Sez. I, 19.4.2022, n. 524)
Presidente del collegio consultivo tecnico: possono essere nominati anche gli avvocati del libero foro?
Il decreto del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili (MIMS) n. 12 del 17.1.2022 – “delle linee guida per l’omogenea applicazione da parte delle Stazioni appaltanti delle funzioni del collegio consultivo tecnico” esclude al punto 2.4.2 gli avvocati del libero foro dalla nomina a Presidente del collegio consultivo tecnico.
La previsione è stata impugnata innanzi al TAR Lazio poiché il citato decreto ministeriale non consente agli avvocati del libero foro di assumere la carica di Presidente del collegio consultivo tecnico.
Il succitato punto 2.4.2 lettera c), infatti, prevede espressamente, per quanto di interesse per l’avvocatura, che tale funzione possa essere assunta solamente da “giuristi, che ricoprono o hanno ricoperto la qualifica di: (…) avvocato dello Stato (…). Per tutte le indicate qualifiche professionali è richiesta una anzianità nel ruolo (…) non inferiore a dieci anni”.
Con ordinanza n. 2585 del 19.4.2022, il Collegio – accogliendo la domanda cautelare - evidenzia che:
- il punto 2.4.2 lettera c) è formulato in maniera discriminatoria per gli avvocati del libero foro, laddove si consideri che per questi è prevista la possibilità di essere nominati componenti del CCT (come previsto dal punto 2.4.3 lettera b), il quale elenca i requisiti che devono essere posseduti al fine della nomina a componente il CCT);
- la categoria degli avvocati del libero foro non rientra tra quelle dei giuristi di cui al punto 2.4.2 lettera a) in quanto tale disposizione prevede, quali requisiti per la nomina a Presidente del CCT, lo svolgimento di funzioni incompatibili con l’esercizio della professione forense;
- l’avvocato del libero foro, peraltro, non rientra neppure tra i giuristi indicati nella disposizione impugnata, in quanto per tale compito potranno essere nominati soltanto soggetti in possesso di qualifiche tutte accomunate dalla sussistenza di un rapporto di servizio non contrattualizzato e di diritto pubblico (rapporto che si instaura con l’amministrazione a seguito del superamento di prove concorsuali pubbliche, quali quelle per magistrato, avvocato dello Stato ovvero prefetto);
- di contro, quella di “dirigente di stazioni appaltanti con personalità giuridica di diritto privato soggette all’applicazione del codice dei contratti pubblici” – che il punto 2.4.3 elenca tra le qualifiche abilitanti alla nomina a componente il CCT per i giuristi – è riconducibile a soggetti che prestano essenzialmente attività in favore di soggetti con personalità giuridica di diritto privato (con la conseguenza che sarà irragionevole la loro equiparazione alle succitate categorie di magistrato, prefetto o avvocato dello Stato).
È dunque discriminatoria, secondo il Collegio, la decisione del Ministero di non consentire agli avvocati del libero foro di essere nominati Presidente del CCT.
L’art. 6, comma 8 bis, del d.l. 76/2020 ss.mm.ii. (cd. decreto Semplificazioni) impone invero al Ministero di definire i requisiti professionali del Presidente del CCT nel rispetto di quanto previsto dall’articolo medesimo; dunque, l’esclusione degli avvocati del libero foro contrasta con la funzione stessa del CCT (finalizzato ad una “rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso”).
Tale decisione di escludere gli avvocati del libero foro è altresì illogica laddove si consideri che essi possono essere nominati a svolgere la carica apicale di altri istituti con finalità deflattive del contenzioso (si pensi alla Camera arbitrale per i contratti pubblici di cui all’art. 210 d.lgs. 50/2016).
Per tali motivi – e ricordato che il CCT è istituto a tempo (la cui durata è prevista fino al 30.6.2023) – è evidente il danno grave ed irreparabile derivante dall’impossibilità degli avvocati del libero foro di essere nominati Presidente del CCT (pur essendo stati designati dalle parti per tale ruolo): ne deriva, pertanto, per il Collegio la necessità di sospendere l’efficacia del punto 2.4.2 lettera c) impugnato.
(TAR Lazio Roma, Sez. III, ord. 19.4.2022, n. 2585)
Concessioni balneari: i titoli sono importanti. La definizione agevolata dei canoni concessori.
Torniamo sul tema delle concessioni balneari, in particolare sulla definizione agevolata dei canoni concessori.
Come di recente ricordato in questa news, è diffusa la tendenza a pubblicare articoli con titoli suggestivi ma in alcuni casi fuorvianti. Tendenza, questa, che si è ripetuta anche con l’articolo dal titolo Balneari pertinenziali, Cassazione: “Contenziosi sospesi fino a esito cause civili” Fonte: MondoBalneare.com.
A dispetto del titolo – fuorviante per chi legge – la questione portata all’attenzione della Suprema Corte – decisa con provvedimento reso a Sezioni Unite (ordinanza del 15.3.2022 n. 8475) – ha ad oggetto la giurisdizione chiamata a decidere sulla controversia relativa alla definizione agevolata ai sensi dell’art. 100, d.l. 104/2020. Si discute, in altri termini, se su tale domanda debba pronunciarsi il giudice amministrativo ovvero sia competente il giudice ordinario.
Questi i fatti, in estrema sintesi. Un titolare di concessione demaniale con finalità turistico-ricreative ricorreva al TAR contestando la legittimità del provvedimento di decadenza della concessione di cui era titolare – decadenza disposta per l’omesso pagamento del canone concessorio per il periodo 2016/2019. Nelle more del giudizio amministrativo, il ricorrente – con istanza del 7.9.2020 – richiedeva l’attivazione del procedimento di definizione agevolata di cui all’art. 100 del d.l. 104/2020; sicché il Collegio – con ordinanza 30.11.2020 n. 12763 – disponeva, in applicazione del disposto combinato dell’art. 100, commi 7 ss., la sospensione del giudizio.
Sennonché l’amministrazione comunale rigettava parzialmente la predetta istanza, limitandosi ad accoglierla soltanto per alcune annualità: per tale motivo, quindi, il Comune instava affinché venisse riassunto il giudizio (innanzi al TAR) sospeso con la succitata ordinanza.
In sede di giudizio di riassunzione, le parti venivano invitate dal Collegio a dedurre sulla questione di giurisdizione relativa alla domanda di annullamento del diniego di accesso alla definizione agevolata di cui all’art. 100, commi 7 ss., d.l. 104/2020. A fronte del deposito di ricorso per regolamento di giurisdizione da parte del gestore dello stabilimento balneare, il Collegio – con ordinanza Sez. II bis, 14.6.2021, n. 7071 – sospendeva nuovamente il giudizio al fine di consentire alla Suprema Corte di pronunciarsi sul predetto regolamento.
La Suprema Corte evidenzia innanzitutto quanto segue.
A norma dell’art. 133 c.p.a. (d.lgs. 104/2010) tra le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sono ricomprese anche quelle “aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche”.
Il d.l. 104/2020, all’art. 100, comma 7, così dispone: “Al fine di ridurre il contenzioso relativo alle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative e per la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto, (…) i procedimenti giudiziari o amministrativi pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, concernenti il pagamento dei relativi canoni, possono essere definiti, previa domanda all'ente gestore e all'Agenzia del demanio da parte del concessionario, mediante versamento:
- in un'unica soluzione, di un importo, pari al 30 per cento delle somme richieste dedotte le somme eventualmente già versate a tale titolo;
- rateizzato fino a un massimo di sei annualità, di un importo pari al 60 per cento delle somme richieste dedotte le somme eventualmente già versate a tale titolo”.
Ai sensi del successivo comma 8 “La domanda per accedere alla definizione di cui al comma 7 è presentata entro il 15 dicembre 2020 ed entro il 30 settembre 2021 è versato l'intero importo dovuto, se in un'unica soluzione, o la prima rata, se rateizzato”.
L’art. 100, comma 10, del menzionato decreto-legge prevede che “La presentazione della domanda nel termine di cui al comma 8 sospende i procedimenti giudiziari o amministrativi di cui al comma 7, compresi quelli di riscossione coattiva nonché i procedimenti di decadenza della concessione demaniale marittima per mancato pagamento del canone”.
I giudici di Piazza Cavour con il provvedimento in commento evidenziano che:
- in tema di definizione agevolata va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario: è pacifico, nel dettaglio, che “in caso di concessione di servizi pubblici, la giurisdizione del giudice ordinario, riguardante le indennità, i canoni e altri corrispettivi (…) si estende alle questioni inerenti all’adempimento o l’inadempimento della concessione”;
- non è possibile, nel caso di specie, una deroga alla giurisdizione per ragioni di connessione. Sul punto, è infatti costante l’orientamento secondo cui salvo espresse deroghe – specificamente risultanti in atti legislativi – nell’ordinamento vige il principio dell’inderogabilità della giurisdizione per ragioni di connessione (ex multis, Cass. civ., ord. 11932/2019). Ne deriva, quale conseguenza, l’ammissibilità della deroga solo in casi eccezionali - e, come sancito da Cass. civ, SS.UU., 18126/2005 “nelle controversie relative all’aggiudicazione di appalti pubblici”;
- poiché il caso di specie, come poc’anzi detto, riguarda il pagamento di canoni in forza di un rapporto concessorio, la fattispecie è riconducibile alla giurisdizione esclusiva del giudice ordinario per espressa previsione di legge (art. 133, d.lgs. 104/2010) sicché nel caso in esame deriva l’impossibilità di derogare “per via di mera interpretazione, alla giurisdizione esclusiva fissata dalla legge”.
(Cass. civ., SS.UU., 15.3.2022, n. 8475)
La sostenibilità dell'offerta: il caso dell'aumento dei costi dell'energia
Come accaduto nel caso dei materiali da costruzione – il cui aumento dei costi è stato mitigato dall’adozione di provvedimenti in forza dei quali le imprese hanno potuto presentare istanze di compensazione - anche il settore dell’energia elettrica si trova alle prese con un problema analogo (l’aumento dei costi dell’energia). Spetta dunque al legislatore mettere a punto misure per arginare gli effetti negativi degli aumenti dei costi dell’energia (che ricadono sulle imprese) – in tal senso deve leggersi la nota del Presidente dell’ANAC del 15.2.2022 (con cui il legislatore viene, appunto, invitato ad un intervento normativo risolutivo della questione).
Su tale argomento, una recentissima sentenza del TAR Molise si pronuncia sulla correttezza dell’operato di una stazione appaltante che, pur conscia degli aumenti dei costi dell’energia, si determinava ad imporre all’aggiudicatario la sottoscrizione di un contratto di appalto economicamente non più vantaggioso per quest’ultimo.
Durante le procedure di gara per l’aggiudicazione del servizio di fornitura di energia elettrica, l’operatore (poi risultato aggiudicatario) informava la stazione appaltante dell’eccessivo aumento dei costi dell’energia elettrica – comunicazione, questa, trasmessa all’amministrazione prima dell’espletamento della seconda fase dell’asta elettronica. Conseguenza del predetto aumento, secondo l’operatore, sarebbe stata l’insostenibilità economica del servizio di fornitura.
L’amministrazione, tuttavia, non dava alcun seguito a tale comunicazione, limitandosi a confermare l’aggiudicazione nelle more disposta (alle medesime condizioni già stabilite) e ad invitare l’aggiudicatario a trasmettere i documenti necessari alla stipula del contratto d’appalto. L’operatore, da parte sua, ribadiva l’insostenibilità economica alle condizioni proposte dalla committenza in quanto, in tal caso, non sarebbe stato rispettato il principio del c.d. “utile necessario”.
La stazione appaltante rimaneva, tuttavia, ferma sulle proprie posizioni ed invitava nuovamente l’aggiudicatario alla sottoscrizione del contratto. Ritenendo illegittimo l’operato dell’amministrazione l’aggiudicatario adiva il giudice amministrativo, censurando il fatto che la stazione appaltante non avesse tenuto nella dovuta considerazione gli aumenti dei costi dell’energia elettrica.
Secondo il Collegio, l’operato della committenza era contrario ad ogni elementare principio di buona amministrazione. Premesso che gli aumenti dei costi dell’energia elettrica non venivano contestati dalla stazione appaltante, l’amministrazione avrebbe dovuto (con proprio provvedimento) renderli meno gravosi per l’esecutore dell’appalto. Cosa che, nel caso di specie, non si verificava, in quanto l’amministrazione sosteneva, invece, essere sufficiente – per risolvere il problema – l’accettazione di offerte in aumento. È dunque evidente che, in realtà, il problema permaneva, sostanzialmente irrisolto.
Invero, poiché per costante giurisprudenza “la valutazione della sostenibilità dell’offerta deve essere effettuata anche tenendo conto delle sopravvenienze di fatto”, la stazione appaltante avrebbe dovuto verificare la fattibilità delle offerte presentate al momento dell’aggiudicazione, atteso che l’impossibilità di garantire l’esecuzione della fornitura per tutta la durata del contratto avrebbe comportato una soluzione di continuità del servizio medesimo.
Né veniva rispettato il principio dell’utile necessario: il rispetto del predetto principio avrebbe infatti dovuto comportare una verifica della sostenibilità dell’offerta tanto nel caso in cui essa sia in perdita ab initio, sia ove essa comporti per l’esecutore un utile minimo (ovvero nessun utile). Il ricorso veniva accolto – con annullamento del provvedimento di aggiudicazione, in quanto carente con riguardo alla valutazione della sostenibilità dell’offerta dell’aggiudicatario.
(TAR Molise Campobasso, Sez. I, 14.2.2022, n. 41)
Affidamenti diretti e proroghe reiterate negli appalti pubblici: la "censura" di ANAC .
Con una recente delibera l’ANAC è intervenuta sugli affidamenti diretti di servizi e sulle proroghe reiterate negli appalti pubblici, pratica comune a molte stazioni appaltanti.
Nei fatti, una stazione appaltante ha prorogato, svariate volte a partire dal 2014, un servizio al soggetto aggiudicatario della gara, reiterando di anno in anno le proroghe in virtù di una clausola di rinnovo tacito presente nel contratto.
A seguito di segnalazione, l’ANAC, nel censurare il descritto modus operandi, evidenzia che:
- la previsione del rinnovo tacito – contenuta nel contratto di appalto – risulta in contrasto con la legislazione vigente ratione temporis (ossia l’articolo 57, comma 7, d.lgs. 163/2006, a mente del quale “È in ogni caso vietato il rinnovo tacito dei contratti aventi ad oggetto forniture, servizi, lavori e i contratti rinnovati tacitamente sono nulli”;
- la possibilità di ripetizione/proroga dei contratti è in contrasto con gli articoli 63, comma 5, e 106, comma 11, Codice dei contratti pubblici: tali disposizioni sanciscono la possibilità di proroga dei contratti per il solo periodo necessario ad espletare (e concludere) una procedura volta ad individuare il nuovo aggiudicatario dell’appalto;
- gli affidamenti diretti del servizio succedutisi nel tempo (tutti di importo appena inferiore alla soglia di € 40.000) e le succitate proroghe del contratto determinano il frazionamento (non consentito dalla normativa vigente) di un servizio che va inteso come unitario, avente cioè durata pluriennale (il cui valore complessivo supera, per ciò stesso, la soglia);
- la sottrazione di un simile affidamento alla disciplina dell’evidenza pubblica risulta essere in contrasto con quanto previsto dall’art. 125, comma 11, d.lgs. 163/2006 (a mente del quale per i contratti di importo pari o superiore ad € 40.000 è necessario bandire una procedura ad evidenza pubblica) nonché con il dettato del successivo art. 36, comma 2, lettera b), Codice dei contratti pubblici (sostanzialmente riproduttivo, salvo marginali differenze, della disposizione appena citata). A tal proposito, va rammentato che la soglia di € 40.000 è stata innalzata ad € 150.000 dall’art. 1, comma 2, lettera a), d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (conv. in l. 120/2020) in deroga, fino al 30.6.2023 – come da d.l. 77/2021, alla disciplina codicistica.
In conclusione, l’Autorità anticorruzione – dopo aver ricordato che il vigente Codice dei contratti pubblici non contempla né il frazionamento delle commesse né, soprattutto, il ricorso all’ulteriore affidamento come strumento della corretta esecuzione dell’appalto – statuisce che l’affidamento del servizio con reiterate proroghe e rinnovi in favore di un operatore economico – come avvenuto nel caso di specie – si pone in contrasto con la normativa vigente, sottraendo al meccanismo dell’evidenza pubblica un appalto che, per valore, andrebbe aggiudicato attraverso una procedura competitiva.
(ANAC, delibera 8.9.2021, n. 628)