L'ordinanza per la rimozione dei rifiuti abbandonati: il ricorso al rimedio atipico ed eccezionale dell'art. 54, co. 4, TUEL.

 

La vicenda trae origine dal ricorso proposto da una società privata avverso l'ordinanza emessa ai sensi dell’art. 54, comma 4, del T.U.E.L. (d.lgs. 267 del 2000) dal Sindaco di un comune dopo aver riscontrato, all'interno di un capannone industriale, una situazione di grave pericolo determinata dall’esistenza di una grande quantità di rifiuti plastici ad elevato rischio di combustibilità.

Il provvedimento sindacale ordinava alla società, in estrema sintesi, di predisporre e depositare un piano per lo smaltimento dei rifiuti entro 45 giorni, di procedere alla completa rimozione degli stessi entro i successivi 120 giorni, di depositare una relazione attestante l’avvenuta corretta esecuzione dell’intervento entro ulteriori 10 giorni.

La ricorrente, oltre a lamentare la sussistenza dei caratteri della contingibilità ed urgenza della misura, contestava l'estraneità alla situazione di inquinamento riconducibile, nel caso di specie, ad una terza società, ex conduttrice dell'immobile.

Dei motivi proposti, due meritano una particolare disamina:

  1. il primo, concernente la presunta contraddittorietà dell'istruttoria procedimentale svolta dall'Ente, essendo stata attribuita alla ricorrente la qualifica di "detentore dei rifiuti" ex art. 188, d.lgs. 152/2006 e s.m.i. fondata sulla presenza dei materiali nell'immobile;
  2. il secondo, quello concernente la presunta adozione dell'ordinanza sindacale in assenza dei presupposti prescritti ex art. 54, 4° comma T.U.E.L. 267/2000 e s.m.i., stante la mancanza dei caratteri di contingibilità ed urgenza.

L'Amministrazione resistente, nelle proprie difese, evidenziando che l’ordinanza sindacale fosse stata emessa ai sensi dell’art. 54, comma 4 del T.U.E.L. , deduceva l'infondatezza dei motivi di ricorso fondati sulle disposizioni in materia ambientale (d.lgs. 152 del 2006), ribadendo, quanto ai presupposti per l’esercizio del potere di ordinanza, che il Comune avrebbe rilevato l’attualità del pericolo, connesso allo stato di abbandono dei rifiuti.

Nel corso del giudizio, il Tribunale amministrativo regionale ha giudicato fondato il motivo articolato dal ricorrente, per essere il provvedimento impugnato viziato da eccesso di potere, sotto forma di sviamento, avendo il Sindaco esercitato il potere di ordinanza contingibile e urgente al di fuori delle finalità proprie dello stesso.

Nella decisione, il Tar ha esaminato primariamente la disposizione di cui all'art. 54, co. 4, T.U.E.L., la quale, nel prevedere le attribuzioni del sindaco nelle funzioni di competenza statale, sancisce espressamente che "Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, (anche) contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione".

La disposizione, così come riportata, non ha superato il vaglio di legittimità: infatti, la Corte Costituzionale, con sentenza 4 - 7 aprile 2011, n. 115, ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), come sostituito dall'art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui comprende la locuzione «,anche» prima delle parole «contingibili e urgenti»".

Ritornando alla controversia, il Tar ha sancito che il potere riconosciuto dall’art. 54, comma 4 del TUEL "deve trovare fondamento in una situazione eccezionale di pericolo effettivo, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall’ordinamento, ciò costituendo il naturale corollario della <<configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale>>”.

Da tale assunto, il Tar ha ritenuto che nel caso di specie l'Amministrazione avrebbe dovuto fronteggiare la situazione "con mezzi tipizzati, cioè quelli di cui al T.U. in materia ambientale", dovendo trovare applicazione la previsione normativa di cui all'art. 192, codice dell'ambiente (d.lgs. 152/2006 e s.m.i.) poiché "detta specifiche norme in caso di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti". Infatti, prosegue il Tar, “il potere sotteso all'adozione di un'ordinanza contingibile e urgente ha necessariamente contenuto atipico e residuale e può essere esercitato solo quando specifiche norme di settore non conferiscono il potere di emanare atti tipici per risolvere la situazione di emergenza”.

Il richiamo dell'iter logico seguito dal Giudice amministrativo appare indispensabile a comprendere le caratteristiche intrinseche del provvedimento: "Con l’ordinanza ex art. 54, comma 4 d.lgs. 267 del 2000, il Comune ... ha potuto perseguire l’effetto di imputare alla Società ricorrente gli oneri e i costi di rimozione, attraverso un iter procedimentale decisamente meno tortuoso di quello che sarebbe disceso dall’applicazione delle norme in materia ambientale. Un siffatto agire appare però contrario ai principi di collaborazione e buona fede (art. 1, comma 2-bis della l. 241 del 1990) che devono guidare i rapporti tra amministrazione e cittadini, oltre che, come detto, viziato da eccesso di potere per sviamento".

Il Tar coglie un'ulteriore aspetto della vicenda, ovvero quello dell'elemento della detenzione del rifiuti e della disciplina ambientale: "anche all’interno del sistema disegnato dal T.U. in materia ambientale, gli strumenti dettati in materia di gestione e trattamento dei rifiuti rispondono a presupposti e finalità differenti, che non possono essere impropriamente sovrapposti ... A fronte di un sistema così specificamente disciplinato, che prevede misure differenziate e parametrate a seconda del ruolo rivestito dal soggetto e del suo grado di responsabilità, è ancor più evidente l’inappropriatezza del ricorso ad uno strumento atipico e residuale, come l’ordinanza contingibile e urgente. Questa avrebbe l’effetto di assimilare fattispecie differenti e soggette a diversa disciplina, di fatto equiparando, sotto lo “schermo” di una situazione di pericolo, la posizione del ricorrente – che potrebbe al più essere qualificato “detentore” dei rifiuti – a quella dell’autore materiale delle condotte di abbandono illecito, pur sul pacifico e riconosciuto presupposto della sua estraneità materiale ai fatti".

Nei fatti, dunque, in ipotesi analoghe, la disciplina che dovrà trovare applicazione sarà quella ambientale di cui al d.lgs. 152/2006 e s.m.i.

(Tar Trieste Sez. I, 18.5.2021, n. 154)


L'istituto del grave illecito professionale ex art. 80, co. 5, lett. c): il carattere "elastico" della previsione normativa ed il principio del "contagio".

"... una Società può essere esclusa da una procedura di gara, ex art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50/2016, per un grave illecito professionale commesso da un suo esponente, <<non tanto in virtù del principio di immedesimazione organica ... quanto, piuttosto, per altro principio già definito del “contagio”>> ... quel che conta è che essa abbia avuto luogo nell’esercizio dell’attività professionale: ... l’aver riportato una condanna penale è indice di carenza di integrità e di affidabilità morale ....".

Questa la sintesi del principio espresso dal Tar pugliese nell'ambito di una controversia insorta per l'affidamento di un appalto di servizi, nell'ambito della quale l'operatore economico ricorrente, a seguito dell'aggiudicazione della commessa da parte della Stazione appaltante, ha impugnato innanzi al Tar il provvedimento con il quale l'Ente ha disposto la revoca dell'aggiudicazione e proceduto allo scorrimento della graduatoria, sulla base delle risultanze istruttorie conseguite a seguito della valutazione dell’affidabilità dell’impresa ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50/2016 e s.m.i.

In particolare, nel corso della verifica dei requisiti, emergeva che uno dei soggetti facenti parte della compagine societaria, l'ex Presidente del Consiglio di Amministrazione, all'epoca della gara era stato destinatario di una misura cautelare (poi revocata) in relazione a condotte che lo stesso avrebbe posto in essere nell’esclusivo (presunto) interesse di una diversa società, nella cui compagine l'autore della condotta incriminata assumeva la qualifica di socio.

Nel corso del giudizio, la società deduceva comunque di aver adottato delle misure dissociative (self cleaning) dalle condotte a lui ascritte, rimuovendolo da qualsiasi carica sociale e promuovendo un'azione di responsabilità per il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.

La ricorrente contestava dunque l’assenza dei presupposti dell’operato dell'Ente resistente, non potendo la circostanza ricondursi ad una precisa disposizione del codice appalti, ed anche l’insufficienza della motivazione in cui sarebbe incorsa.

Secondo il Giudice amministrativo, le censure dedotte nel ricorso sono prive di fondamento.

Le argomentazioni del Tar Puglia muovono dalla ricostruzione puntuale della fattispecie espulsiva prevista dall'art. 80, co. 5, lett. c), d.lgs. 50/2016 e s.m.i., secondo la quale è da escludere quell'operatore economico qualora  "c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità": in tale prospettiva, il Tar giunge ad applicare l'innovativa tesi per la determinazione delle condotte che rilevano ai fini della configurabilità del grave illecito professionale secondo il cd. "principio del contagio".

La giurisprudenza amministrativa, dall'entrata in vigore del Codice, ha affrontato innumerevoli casi nei quali l'operatore economico è stato espulso da una procedura concorrenziale per aver commesso gravi illeciti tali da mettere in dubbio la propria integrità o affidabilità: in questa precedente news abbiamo affrontato il tema alle sue prime applicazioni.

Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, sono le fattispecie che integrano la nozione di "gravi illeciti professionali", stante l'evoluzione giurisprudenziale e l'incidenza della visione eurocomunitaria con quella del diritto interno.

Il Giudice amministrativo ha pertanto configurato il grave illecito professionale qualora sia idoneo e sufficiente ad integrare una causa di esclusione stabilendo genericamente che la sua assenza rappresenta "uno dei requisiti generali di partecipazione alle gare tese all’attribuzione di contratti pubblici".

Le coordinate dalle quali il Tar muove le proprie considerazioni si fondano sulla previgente disciplina di cui alla direttiva 2004/18/CE che stabiliva che “2. Può essere escluso dalla partecipazione all’appalto ogni operatore economico ...d) che, nell’esercizio della propria attività professionale, abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall’amministrazione aggiudicatrice”; in attuazione, già l’art. 38, comma 1, lett. f), 2° periodo, d.lgs. n. 163/2006 prevedeva: “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: ... che hanno commesso un errore grave nell’esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.

Il Tar rimarca, dunque, il carattere ampiamente discrezionale che già connotava il requisito generale così come era configurato nella previdente disciplina e la cui sussistenza o meno in concreto dipendeva anche dall’effettiva valutazione di una determinata condotta che la stazione appaltante eseguiva.

Nel nostro ordinamento nazionale il Codice dei Contratti di cui al d.lgs n. 50/2016, che ha dato attuazione alla direttiva 2014/24/UE, all’art. 80 ha individuato le cause di esclusione dalle gare per l’affidamento di appalti pubblici, prevedendo, per quanto di interesse, al comma 5, lett. c): “5. Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico … qualora: c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”.

Il Tar Puglia, muovendo da tale previsione normativa, fornisce una chiave di lettura delle previsione, asserendo (non molto condivisibilmente) che "la formulazione della norma è tale da consentirne un’interpretazione elastica, così da ricomprendere ogni ipotesi in cui, sulla base di una valutazione discrezionale, della quale viene data contezza attraverso un’idonea motivazione, la stazione appaltante ravvisi appunto un grave illecito professionale. La disposizione di cui al citato art. 80, comma 5, lett. c), del Codice dei Contratti, infatti, non indica la fattispecie astratta in maniera esaustiva, ma rinvia, per la sussunzione del fatto concreto nell'ipotesi normativa, all'integrazione dell'interprete, che utilizza allo scopo elementi o criteri extragiuridici. Perciò può attribuirsi rilevanza ad ogni tipologia di illecito che, per la sua gravità, sia in grado di minare l'integrità morale professionale e/o l’affidabilità del concorrente, dovendo ricomprendersi nel concetto di grave illecito professionale ogni condotta collegata all'esercizio dell'attività professionale, contraria, in particolare, ad un dovere imposto da una norma giuridica".

Tale elasticità consente, pertanto, d attribuire rilevanza a tipologie di illeciti quelle condotte collegate all'esercizio dell'attività professionale e contrarie a particolari doveri giuridici.

Su tali premesse, il Tar giunge ad affermare che "Proprio l’evidenziato carattere estremamente elastico della previsione normativa in esame ... unitamente alla ratio alla stessa sottesa, comporta che ... non possa limitarsi la sua estensione ai casi strettamente e letteralmente riferibili all’operatore economico, inteso come ditta concorrente, dovendo l’illecito professionale concernente, come nella specie, un fatto di rilevanza penale, fisiologicamente necessariamente essere ascritto ad una persona fisica".

Questa "estensione" è espressione del cd. "principio del contagio": se la persona fisica che nella compagine sociale riveste un ruolo influente per le scelte della società, anche al di là di un’investitura formale e, dunque, anche se in via di fatto, è giudicata inaffidabile per aver commesso un illecito nella attività professionale; secondo il Giudice amministrativo "inaffidabile può essere considerata – in virtù appunto del suo potere necessariamente condizionante le decisioni di gestione – anche la società che dirige o è in grado di orientare con le sue indicazioni".

Per tale ragione, conclude il Tar sulla questione, "è del tutto irrilevante stabilire se la condotta sanzionata in sede penale sia stata commessa dalla persona fisica per interesse proprio ovvero per avvantaggiare la Società di appartenenza, in quanto conta soltanto che essa abbia avuto luogo nell’esercizio dell’attività professionale; accertata questa condizione, quale che fosse il beneficiario del reato, l’aver riportato una condanna penale è indice di carenza di integrità e di affidabilità morale che la stazione appaltante può apprezzare per decidere se tenere in gara l’operatore economico ovvero escluderlo".

Certamente ci si trova a commentare una pronuncia innovativa e, si potrebbe dire, utilizzando le medesime espressioni del Tar, estremamente "elastica": se in linea di principio non deve sottacersi che la stazione appaltante sia tenuta a vagliare l'esperienza professionale del concorrente, anche a mezzo dei soggetti apicali mediante la quale la Società partecipante opera, in quanto sono costoro a determinarne il comportamento sul mercato, è altrettanto vero che tale verifica sull'esperienza pregressa dell'operatore non può estendersi fino a ricomprendere "esageratamente" tutte le condotte pregresse ed esterne ancorché riferite ai soggetti apicali in luogo di una circostanziata attività, dovendo l'ente pubblico effettuare una scelta sull'operatore economico affidabile al quale attribuire l'esecuzione delle prestazioni oggetto della procedura e non riferita ai singoli soggetti (sanzionati, ove ricorrano le condizioni, con gli strumenti previsti dall'ordinamento).

Si ritiene, infatti, che in tal caso il concetto di "grave illecito professionale" si riferisca a tutti quei comportamenti che assumono rilievo ai fini penali purchè commessi "dalla persona fisica per interesse proprio ovvero per avvantaggiare la Società di appartenenza; quel che conta è che essa abbia avuto luogo nell’esercizio dell’attività professionale", venendo meno il principio dell'immedesimazione organica inteso quale modalità di imputazione all’operatore economico della volontà manifestata dalla persona fisica cui ne è affidata la rappresentanza diretta, incidendo in tal senso sull'interpretazione restrittiva che comunemente trova applicazione allorquando trattasi di ipotesi escludente.

(Tar Puglia Sez. I, 7.5.2021, n. 825)


I principi ambientali di equità sociale e di autosufficienza nella gestione dei rifiuti.

Con una recente sentenza, il Consiglio di Stato è intervenuto per dirimere una controversia (promossa a mezzo due distinti ricorsi) concernente le determinazioni ambientali assunte da una regione relative all'adeguamento del piano provinciale dei rifiuti.

Abbiamo affrontato, in precedenza, la tematica del principio di precauzione nei procedimenti di valutazione di compatibilità ambientale a questo link.

Nel caso qui in esamina, la ricorrente, premette il Consiglio di Stato, è un'impresa attiva nel settore del trattamento e smaltimento dei rifiuti, che deduce con un articolato ragionamento l'illegittimità del piano provinciale dei rifiuti adottato dall'Ente regionale sotto diversi profili, tutti idonei ad ingenerare una vera e propria preclusione nell'esercizio dell'attività aziendale.

Nell'esaminare il caso di specie, alla luce delle contestazioni avanzate dalla società, il Consiglio di Stato giunge a definire e circoscrivere l'ambito applicativo di due distinti principi ambientali che trovano nel documento di piano predisposto a livello provinciale una loro autonoma collocazione.

Il primo, quello cd. di "equità sociale" che, genericamente, si pone come strumento di garanzia di equilibrio e che, nello specifico, in relazione agli aspetti ambientali, si attua con il dovere di non gravare il medesimo territorio con l’insediamento di più impianti, di smaltimento e/o trattamento dei rifiuti.

Il secondo, connesso al primo, di "autosufficienza", posto alla base della normativa di settore insieme a quello di "prossimità", secondo il quale occorre permettere che lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti (urbani indifferenziati) avvenga in uno degli impianti idonei più vicini ai luoghi di produzione o raccolta, al fine di ridurre i movimenti dei rifiuti stessi, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti.

Venendo alla decisione assunta dal Consiglio di Stato, entrambi i motivi di appello proposti dalla società sono considerati infondati; le motivazioni di seguito riportate appaiono ricognitive della definizione dei principi ambientali applicabili al caso di specie.

Quanto al primo, il Consiglio di Stato afferma che "... il Piano provinciale per cui è causa prevedeva già il criterio di “equità sociale” ... per decidere dove localizzare gli impianti. Come anche qui ritenuto dal Giudice di I grado, non si può affermare che il criterio in sé sia illogico, ovvero violi principi costituzionali, in particolare il principio di libera iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost ... La stessa parte ... riconosce da un lato che questo principio trova un limite nel contrasto con la “utilità sociale”, e dall’altro lato è del tutto notorio che gli impianti di trattamento rifiuti sono fonte di disagio e di peggioramento delle condizioni ambientali delle zone nelle quali essi si localizzano. La scelta di non gravare ulteriormente un’area ... là dove ... esiste già più di un impianto di questo tipo appare quindi non certo illogica, e quindi non sindacabile in questa sede, trattandosi comunque di scelta discrezionale".

Quanto al secondo principio, precisa il Giudice di secondo grado che "... È infondato anche il terzo motivo di appello, centrato sulla presunta violazione del principio di autosufficienza. Il principio in questione, come va ricordato per chiarezza, all’epoca dei fatti era previsto anzitutto dall’allora vigente direttiva 2006/12/CE del Parlamento e del Consiglio del 5 aprile 2006, che lo prevede al <<considerando>> n.8, per cui <<Occorre che la Comunità stessa nel suo insieme sia in grado di raggiungere l'autosufficienza nello smaltimento dei suoi rifiuti ed è auspicabile che ciascuno Stato membro singolarmente tenda a questo obiettivo>>. Il principio però ... è riferito agli Stati membri, e non agli enti locali minori nei quali essi eventualmente si articolino. Non dispongono in modo diverso neppure le norme nazionali, che riferiscono il principio di autosufficienza ai Comuni, ma limitatamente ai rifiuti urbani, e non ai rifiuti liquidi industriali ... In questo senso è il d. lgs. 3 aprile 2006 n.152 all’art. 182 bis comma 1 lettera a), per cui <<Lo smaltimento dei rifiuti ed il recupero dei rifiuti urbani non differenziati sono attuati … al fine di: a) realizzare l'autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi e dei rifiuti del loro trattamento in ambiti territoriali ottimali…>> Nello stesso senso anche l’art. 182 comma 3, per cui <<È vietato smaltire i rifiuti urbani non pericolosi in regioni diverse da quelle dove gli stessi sono prodotti…>> ...".

(Cons. St. Sez. V, 12.4.2021, n. 2991)


L'avvalimento premiale per conseguire una migliore valutazione dell'offerta tecnica.

Nella disciplina degli appalti pubblici, l'avvalimento è di sicuro uno degli istituti che presenta un ambito applicativo piuttosto esteso, non senza alcune criticità.

In una precedente news qui consultabile è stato affrontato il tema nei suoi aspetti generali; il caso che qui invece si esamina verte su una particolare figura di avvalimento, comunemente definita "avvalimento premiale".

La controversia trae origine da una procedura aperta per l'affidamento, con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, di un appalto misto di forniture e lavori in ambito di sicurezza stradale.

Il disciplinare di gara, nell'indicare i requisiti di capacità economico - finanziaria e tecnico - professionale, prevedeva l'avvalimento, precisando che l'impresa designata quale ausiliaria avrebbe potuto assumere il ruolo di subappaltatore nei limiti dei requisiti prestati.

Il medesimo disciplinare  stabiliva i criteri di valutazione dell'offerta tecnica ai quali la Commissione giudicatrice avrebbe dovuto attenersi nell'attribuzione dei punteggi, valorizzando alcuni aspetti specifici quali, tra gli altri, le caratteristiche delle forniture proposte dai concorrenti, la qualità dei servizi aggiuntivi offerti, l'organizzazione, la qualifica e l'esperienza dei tecnici impiegati.

Senonché, avverso gli esiti della gara, la società seconda classificata proponeva ricorso innanzi al competente Tar lamentando, in particolare, l'indebito utilizzo che il raggruppamento aggiudicatario avrebbe fatto dell'istituto dell'avvalimento per conseguire un miglior punteggio tecnico (cd. avvalimento premiale).

Lo specifico motivo veniva respinto dal Giudice di primo grado.

La Società, ritenendo errata ed ingiusta la pronuncia, proponeva appello, poi anch'esso comunque dichiarato infondato.

La tesi sostenuta dalla Società appellante si basava, a suo dire, su un illegittimo ed abusivo utilizzo dell'istituto dell'avvalimento il cui ricorso non solo era finalizzato al soddisfacimento dei requisiti partecipativi di cui la controinteressata (aggiudicataria) non era concretamente in possesso, ma anche allo scopo "in tesi avulso dalla funzione tipica dell'istituto" di conseguire una migliore valutazione della propria offerta tecnica.

In particolare, la Società esponeva che nei requisiti messi a disposizione da parte delle ausiliarie sarebbero stati inseriti degli elementi che, lungi dal rappresentare ciò che occorreva per l'accesso alla gara, sarebbero stati utilizzati ai fini premiali nella valutazione dell'offerta tecnica.

Il Consiglio di Stato, nel dirimere la controversia, si sofferma sulla "non sempre inequivoca" elaborazione giurisprudenziale che ha riconosciuto l'utilizzabilità dell'avvalimento premiale anche ai fini del riconoscimento di un maggior punteggio nella valutazione dell'offerta tecnica, ove essa sia formulata tenendo in considerazione le competenze, le risorse e le capacità effettivamente trasferite all'operatore economico ausiliato.

Secondo il Giudice adito, possono distinguersi due orientamenti (solo ipoteticamente contrapposti):

  • il primo, sostanzialmente favorevole in quanto muove dalla considerazione che ciò che è oggetto del contratto di avvalimento entra a far parte organicamente della complessiva offerta presentata dalla concorrente;
  • il secondo, apparentemente preclusivo, di carattere intermedio, che esclude siffatta tipologia di avvalimento nei casi in cui l'elemento di valutazione dell'offerta consista in un requisito soggettivo o curriculare.

Le premesse da cui muove il Consiglio di Stato ruotano attorno alla funzione essenziale dell'istituto, ovvero quella di consentire "nella prospettiva proconcorrenziale del favor partecipationis, l’ampliamento della platea dei potenziali concorrenti alle procedure evidenziali, attraverso l’abilitazione all’accesso di operatori economici che, pur privi dei necessari requisiti, dei mezzi e delle risorse richieste dalla legge di gara, siano in grado di acquisirli grazie all’apporto collaborativo di soggetti terzi, che ne garantiscano la messa a disposizione per la durata del contratto".

Secondo la prospettazione operata dal Consiglio di Stato, appare fisiologico che un operatore, laddove ricorra all'avvalimento al fine di conseguire requisiti di cui è carente, nel formulare la propria offerta egli contempli anche beni prodotti o forniti dall'impresa ausiliaria messi a disposizione da quest'ultima.

Secondo la logica espressa, deve certamente ritenersi precluso che un operatore possa avvantaggiarsi delle esperienze pregresse dell'ausiliaria ovvero di titoli o attributi poiché in tal caso "non corrisponderebbe una reale ed effettiva qualificazione della proposta" poiché tali elementi non qualificherebbero operativamente ed integrativamente il tenore dell'offerta.

Nel precisare i tratti essenziali dell'ammissibilità nelle procedure ad evidenza pubblica dell'istituto dell'avvalimento premiale, il Consiglio di Stato afferma che "... a diversamente opinare, non solo si negherebbe la stessa ratio proconcorrenziale dell’istituto, ma si finirebbe per contraddire il canone di par condicio dei competitori, per i quali non sussistono, sul piano generale, preclusioni di sorta alla possibilità di indicare, nell’offerta, beni prodotti da altre imprese ovvero mezzi, personale e risorse, la cui disponibilità fosse acquisita in forza di contratti di subappalto o di subfornitura o di qualunque altro tipo di contratto idoneo" , pertanto "... non è esatto l’assunto... per cui l’avvalimento rilevi solo ai fini della qualificazione e non anche ... per la valutazione dell’offerta".

(Cons. St. Sez. V, 25.3.2021, n. 2526)


Inadempimento retributivo dei dipendenti: ammissione o esclusione del concorrente?

Una delle problematiche che molto più di frequente ricorre durante l'espletamento di una gara per l'affidamento di un appalto pubblico è certamente la sussistenza di possibili cause di esclusione dei concorrenti.

Certamente, l'art. 80, d.gs. 50/2016 (a questo link una breve disamina delle problematiche sottese affrontate in precedenza) detta le regole fondamentali (e tassative) affinché un operatore economico possa essere escluso dalla gara; tuttavia la giurisprudenza amministrativa, anche in seguito alle indicazioni interpretative fornite dall'Autorità Nazionale Anticorruzione, ha contribuito a circoscrivere n dettaglio tali ipotesi.

Il tema che viene affrontato è quello relativo all'ipotesi di mancato pagamento delle retribuzioni di maestranze, riferite a situazioni connesse a pubbliche commesse: si tratta in buona sostanza di stabilire se, alla luce del mancato/tardivo pagamento delle retribuzioni, tale circostanza integri un'ipotesi di illecito professionale, sufficiente ad attivare l'onere dichiarativo in capo al concorrente per consentire alla P.A. la valutazione circa l'affidabilità dell'operatore.

La pronuncia qui in commento verte su di una procedura di gara relativa all'affidamento del servizio di refezione scolastica; a seguito dell'ter espletato dalla Stazione appaltante di ammissione e valutazione delle uniche due offerte presentate, l'Amministrazione procede all'aggiudicazione dell'appalto in favore della concorrente prima classificata.

Insorge, tuttavia, la ditta classificata seconda in graduatoria, lamentando, con una serie di motivi, l'illegittimità dell'aggiudicazione disposta dall'Amministrazione.

In particolare, il motivo di ricorso che maggiormente qui interessa è quello proposto in via incidentale dalla società controinteressata che contesta la circostanza secondo la quale la ditta seconda classificata avrebbe omesso di segnalare alla stazione appaltante di trovarsi, sia al momento della partecipazione alla gara sia successivamente, in una situazione di inadempimento retributivo nei confronti dei suoi dipendenti, con specifico riguardo alla gestione di pubbliche commesse, desumibile da numerosi articoli di stampa aventi una rilevanza tale da divenire oggetto di una cospicua diffusione mediatica.

La tesi prospettata dalla società è chiara: tale situazione, annoverabile tra i gravi illeciti professionali nella gestione di precedenti commesse, avrebbe dovuto peraltro comportare l’esclusione della società dalla gara ai sensi dell’art 80, comma 5, lett. c) del d.lgs. n. 50 del 2016.

Il Tar considera la censura infondata.

Richiamando le disposizioni normative applicabili, prima fra tutte l'art. 80, co. 5, lett. c), Codice appalti, il Giudice amministrativo delinea, in via sintetica, le ipotesi che conducono a ritenere colpevole di gravi illeciti professionali un operatore, qualora la condotta sia tale "da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità".

Per giungere alla decisione dello specifico motivo, il Tar opera un richiamo alle linee guida dell’ANAC n. 6 aventi ad oggetto l’indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze significative per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui a tale disposizione normativa, le quali, nel precisare lo specifico onere dichiarativo, chiariscono che l'onere riguarda “tutte le notizie astrattamente idonee a porre in dubbio la loro integrità o affidabilità”, in relazione alle quali è “rimesso in via esclusiva alla stazione appaltante il giudizio in ordine alla rilevanza in concreto dei comportamenti accertati ai fini dell'esclusione” .

Detto ciò, il Giudice ripercorre i fatti che hanno originato la vicenda, precisando che trattasi di un mero ritardo nella corresponsione della retribuzione ai dipendenti, relativamente ad alcune mensilità e della tredicesima, con riferimento, peraltro, a contratti rientranti nell’ambito delle pubbliche commesse.

I passaggi motivazionali espressi dal Tar calabrese appaiono significativi: "anche a considerare l’indirizzo giurisprudenziale che interpreta in senso più lato l’onere dichiarativo – fino, cioè, a ricomprendervi tutti i precedenti dell'impresa astrattamente ascrivibili alla fattispecie (atteso che, come osservato in giurisprudenza, affinché la stazione appaltante possa valutare effettivamente l'esistenza del suddetto requisito di partecipazione è necessario che essa abbia a disposizioni quante più informazioni possibili e di dette informazioni debba farsi carico l'operatore economico ... e dunque, solo per esemplificare, il pregresso inadempimento nei confronti della stazione appaltante anche in assenza di effetti risolutivi, risarcitori o sanzionatori tipizzati dal legislatore ... ovvero le accertate omissioni retributive quale ragione sufficiente per l’apprezzamento di inaffidabilità della concorrente ... può comunque ritenersi che circostanze fattuali addotte dalla controinteressata (che, si soggiunge opportunamente, sono suffragate unicamente da articoli di stampa recanti anche dichiarazioni di esponenti politici e rappresentanti sindacali) non siano annoverabili tra i gravi illeciti professionali di cui all’art. 80, c. 5, lettera c) del d.lgs. n. 50 del 2016 soggetti ad obbligo di dichiarazione in quanto potenzialmente compromettibile l’affidabilità dell’impresa e, specularmente, non è censurabile il comportamento addebitato alla stazione appaltante che, pervenuta a conoscenza di tali fatti, non avrebbe assunto alcuna determinazione in merito".

Del resto, prosegue la pronuncia in commento, "anche l’assenza di segnalazione all’ANAC ed il fatto che siano assenti ulteriori elementi qualificanti ... consente di inferire che quanto contestato possa ben rientrare nel novero delle criticità temporanee in cui possono imbattersi le imprese per mancanza di liquidità".

Infine, il Giudice amministrativo, nel concludere sul punto, precisa altresì che "costituisce un dato della comune esperienza il fatto che ... il frequente ritardo con cui le amministrazioni committenti onorano i propri debiti nei confronti delle ditte appaltatrici finisce per potersi ribaltare sulla liquidità a disposizione di queste ultime e pregiudica la regolarità del pagamento delle spettanze alle maestranze, senza che tale circostanza, per ciò solo, costituisca indice di quella grave inaffidabilità che genererebbe un obbligo di segnalazione nella partecipazione alle gare".

Una pronuncia molto attuale, ove si consideri che il tema dei ritardi dei pagamenti della P.A. costituisce un problema da sempre oggetto di discussione.

(Tar Calabria Sez. I, 4 marzo 2021, n. 465)


La disciplina dei criteri ambientali minimi prevista dall'art. 34 del Codice appalti.

Gli appalti attraverso i quali la Pubblica amministrazione acquisisce ben e/o servizi, sempre più con maggiore frequenza, prevedono che i beni e/o servizi siano rispondenti a particolari caratteristiche tecnico-funzionali.

Si tratta di una chiara applicazione della previsione ex art. 34 del Codice appalti che stabilisce espressamente che le stazioni appaltanti contribuiscono al conseguimento degli obiettivi ambientali previsti dal Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione "attraverso l’inserimento, nella documentazione progettuale e di gara, almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi adottati con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare"

Nel sistema di pubblico acquisto, il legislatore ha previsto delle soluzioni standardizzate definite criteri ambientali minimi (C.A.M).

Essi sono solitamente definiti come un'insieme di requisiti previsti per le varie fasi del processo di acquisto, volti a individuare la soluzione progettuale, il prodotto o il servizio migliore sotto il profilo ambientale lungo il ciclo di vita, tenuto conto della disponibilità di mercato.

Il (neo) Ministero della transizione ecologia (ex Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare) fornisce a questo link una serie di informazioni inerenti i criteri ambientali minimi e le diverse categorie merceologiche in riferimento all'oggetto dell'affidamento.

La sentenza oggetto del presente contributo consente di esaminare come opera il sistema dei C.A.M. nell'ambito di una gara d'appalto.

La questione sottoposta all'esame del Giudice ammnistrativo verte su di una procedura di gara relativa all'affidamento della fornitura e posa in opera di attrezzature e arredi per una struttura sanitaria.

Alla procedura partecipano due operatori economici: la parte ricorrente, ovvero la società seconda classificata, insorge avverso le determinazioni assunte dall'Ente pubblico di aggiudicazione della fornitura in favore di altro operatore deducendo una serie di motivi, due dei quali interessano l'applicazione proprio dei criteri ambientali minimi.

La disciplina di gara non indicava, espressamente, l'applicazione dei criteri ambientali, bensì una serie di caratteristiche riconducibili a quelle tipiche stabilite dai C.A.M.

Con il primo motivo, in particolare, la società ricorrente contesta il mancato possesso in capo all'aggiudicataria del requisito dei criteri ambientali minimi ai prodotti oggetto dell'offerta (trattasi di prodotti d'arredo nello specifico) facendo leva sul principio della eterointegrazione quanto all'osservanza dei criteri ambientali minimi ex art. 34 Codice appalti.

Il secondo motivo, invece, verte sulla violazione del decreto ministeriale 11 gennaio 2017 (relativo all'adozione dei criteri ambientali minimi per gli arredi per interni, per l'edilizia e per i prodotti tessili) che, a ragion della ricorrente, impone ai fini della verifica dei prodotti ai criteri ambientali minimi specifici documenti, mentre nella procedura di gara in questione la stazione appaltante avrebbe esaminato solo ed esclusivamente una dichiarazione di impegno del concorrente e certificati non corrispondenti alla documentazione puntualmente prevista nel citato decreto.

La decisione assunta dal Tar campano è risultata favorevole per la ricorrente e, dunque, il ricorso fondato.

Nell'esaminare la questione, il Giudice amministrativo opera preliminarmente un richiamo al procedimento cautelare dello stesso giudizio, nell'ambito del quale era stato ritenuto che i C.A.M. erano elementi essenziali dell'offerta, la cui sussistenza era da verificarsi in un tempo antecedente all'aggiudicazione e come presupposto di questa.

Confermando il principio espresso in fase cautelare, per poter qualificare esattamente la natura giuridica dei C.A.M., il Tar opera preliminarmente una distinzione tra requisiti di partecipazione ed esecuzione, osservando in maniera puntuale che "... i criteri ambientali minimi non possono essere qualificati in senso proprio come requisiti, né di partecipazione, né di esecuzione; non di partecipazione, dal momento che questi afferiscono al concorrente, sia in quanto operatore economico (cd. requisiti generali), sia quale imprenditore del settore (cd. requisiti speciali); i requisiti di esecuzione sono invece condizioni soggettive ed oggettive dell’appaltatore, previsti onde assicurare il puntuale adempimento di obbligazioni inerenti al contratto pubblico per cui è stata indetta gara; in tal senso, essi sono esigibili non in capo al concorrente, e quindi fin dal momento della gara, ma solo dall’appaltatore ed al momento della stipulazione, essendo solo tale soggetto colui che deve assicurare la corretta esecuzione delle prestazioni contrattuali; l’esigenza di una verifica successiva alla conclusione della gara è ascrivibile ad esigenze di economia procedimentale, diversamente costituendo un ingiustificato aggravamento del procedimento un accertamento preventivo relativo a tutti i concorrenti, nonché al rispetto del principio di proporzionalità e di favor partecipationis; invero, costituirebbe un onere eccessivo imporre a chi è semplice concorrente il possesso di condizioni e requisiti che si rivelerebbero privi di concreta utilità in caso di mancata aggiudicazione ...".

Venendo poi alla disamina del caso, il Tar afferma che "si è in presenza di elementi essenziali dell’offerta, ossia di caratteristiche qualitative che la norma impone debbano essere possedute dalle cose oggetto di fornitura, nel caso di specie arredi ed attrezzature che, sebbene appartenenti ad un genus, devono essere identificate, presentate e comprovate come qualitativamente idonee dal punto di vista del soddisfacimento dei criteri ambientali minimi".

Nel giungere alla conclusione, il Giudice amministrativo acclara, dunque, l'illegittimità del provvedimento di aggiudicazione, disponendone l'annullamento, poiché la staziona appaltante non aveva preventivamente verificato l'osservanza dei criteri ambientali minimi relativamente ai beni che costituivano l'oggetto dell'offerta della società.

(Tar Campania Sez. II, 8.3.2021, n. 1529)


L'art. 95 Codice appalti, l' indicazione dei costi della sicurezza e l'uso della modulistica di gara.

Quando un'amministrazione indice un appalto pubblico, la disciplina di gara può prevedere un vincolo di utilizzazione dei moduli predisposti dalla stessa Stazione appaltante, modelli - tipo che ciascun concorrente può utilizzare per rendere le informazioni richieste dai documenti di gara e modificarli a seconda delle proprie esigenze.

Il tema dell'uso della modulistica è stato affrontato in una precedente news (consultabile a questo link).

Solitamente, i moduli sono resi sia in formato editabile (es. word), sia in formato non editabile.

Il Consiglio di Stato di recente è intervenuto a dirimere una controversia promossa da un operatore economico avverso la determinazione assunta da un'amministrazione per l'affidamento di un appalto di fornitura di veicoli speciali, lamentando, in particolare, l'erroneità della sentenza di primo grado con riguardo all'omessa indicazione da parte dell'aggiudicataria degli oneri di sicurezza aziendali ex art. 95, co. 10, d.lgs. 50/2016 nell'ambito di una procedura aperta indetta ai sensi dell'art. 60, Codice dei contratti pubblici.

Il giudice ha espressamente escluso che l'affidamento oggetto del contendere potesse essere ricondotto ad una fornitura senza posa in opera, ipotesi particolare che, per espressa volontà del legislatore, esonera l'offerente dall'indicazione degli oneri di sicurezza aziendale ex art. 95, co. 10, Codice dei contratti pubblici: "Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera ...". L'affidamento, viceversa, avendo ad oggetto la fornitura di veicoli dotati di particolari accorgimenti tecnici, secondo la ricostruzione dell'organo giudicante, necessitava di manodopera e, dunque, dell'indicazione degli oneri di sicurezza aziendali.

Il giudice amministrativo si è soffermato sul terzo dei tre motivi di censura, con il quale la società appellante ha sostenuto che la sentenza di primo grado era da considerarsi errata nella parte in cui il Giudice ha affermato che vi fosse un'impossibilità materiale per l'aggiudicataria di assolvere all'obbligo di legge in considerazione dell'espresso vincolo di utilizzazione del modulo predisposto dall'Amministrazione.

Il Consiglio di Stato, ritenendo fondato l'appello, ha rilevato prioritariamente che nel caso di specie il modulo di offerta economica ove il concorrente avrebbe dovuto menzionare i costi della sicurezza era in formato modificabile, tanto è vero che l'operatore appellante aveva correttamente modificato il documento, compilandolo con la specificazione dei propri oneri di sicurezza aziendali.

A sostegno della propria decisione il giudice ha operato un richiamo alla pronuncia resa dall'Adunanza Plenaria che, con riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia del 2 maggio 2019, ha stabilito in materia di costi della manodopera e oneri della sicurezza che i principi generali degli appalti pubblici (certezza del diritto, parità di trattamento e trasparenza) non ostano ad una normativa nazionale che impone l'esclusione dell'offerta senza possibilità di soccorso istruttorio qualora l'operatore economico abbia omesso di indicare, separatamente, i costi della manodopera anche nell'ipotesi in cui "l'obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d'appalto", perchè tale possibilità di esclusione è prevista chiaramente dalla normativa nazionale; viceversa, se le disposizioni di gara non consentono agli operatori economici di indicare nelle loro offerte economiche i costi, in tal caso deve ritenersi ammissibile l'istituto del soccorso istruttorio.

Tra l'altro, il Consiglio di Stato ha confermato che l'automatismo espulsivo correlato al mancato scorporo nell'offerta economica dei costi inerenti alla manodopera e alla sicurezza interna derivanti dal combinato disposto degli artt. 95, co. 10, e 83, co. 9, Codice dei contratti pubblici, "è conforme al diritto europeo".

Il principio che il Giudice ha espresso nel caso si specie a sostegno della fondatezza del ricorso è il seguente: "Né rileva che, nel caso di specie, il bando non prevedesse espressamente l’obbligo di sperata evidenziazione dei costi in questione, essendo a tal fine sufficiente, in virtù del principio di eterointegrazione della lex specialis ad opera della lex generalis, che nella documentazione di gara fosse riportata una dicitura per cui per quanto non espressamente previsto nel bando, nel capitolato e nel disciplinare di gara dovesse farsi applicazione delle norme del Codice dei contratti pubblici (e quindi anche dell'art. 95, comma 10).… Sotto distinto profilo, nella fattispecie in esame non è dato ravvisare alcuna oggettiva impossibilità d’includere i predetti costi in offerta, dal momento che la modulistica di gara consentiva certamente una loro puntuale indicazione ... Deve, per tal via, escludersi, in conformità ai principi richiamati, la possibilità di recuperare l’omissione attraverso l’attivazione del soccorso istruttorio".

(Cons. St. Sez. V, 22 febbraio 2021, n. 1526)


L'art. 83 e i requisiti tecnico - professionali "ridotti" per le imprese neocostituite nell'affidamento dei servizi di raccolta differenziata.

Il caso che qui si esamina muove dall'obiezione sollevata da un operatore economico nell'ambito di una procedura ad evidenza pubblica indetta per l'affidamento dei servizi di igiene urbana di un comune siciliano, servizi relativi alla raccolta differenziata porta a porta nello specifico, da aggiudicarsi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.

La tematica, sotto altri profili, è stata affrontata anche in una precedente news consultabile a questo link.

Si tratta di un tema, quello del possesso dei requisiti partecipativi, particolarmente dibattuto nell'ipotesi in cui all'affidamento concorrono imprese di nuova costituzione.

Se per un verso il legislatore ha previsto nell'ordinamento dei contratti pubblici diversi strumenti di compartecipazione, per altro verso, ci si interroga se tali operatori, benché privi di esperienza, possa concorrere autonomamente senza rischiare l'esclusione.

Il caso esaminato offre numerosi spunti riflessivi.

Il disciplinare di gara prevedeva, infatti, che il concorrente, per poter essere ammesso alla partecipazione, avrebbe dovuto dichiarare il possesso di una particolare capacità tecnica - professionale basata su due elementi (piuttosto ricorrenti negli appalti di servizi di igiene urbana) ovvero di aver eseguito nell'ultimo triennio:

  1. servizi analoghi a quelli oggetto di affidamento in o più comuni per un determinato numero di abitanti;
  2. un servizio specifico di raccolta rifiuti porta a porta in uno o più comuni per una popolazione complessivamente servita di un dato numero di abitanti, per un periodo continuativo di almeno 12 mesi e con una percentuale di raccolta differenziata media annua pari o superiore al 65%.

La stazione appaltante chiariva, a seguiva di un interpello, che il requisito del servizio "di punta" (n. 2) poteva essere dimostrato anche mediante la somma di più contratti con soggetti pubblici diversi., purchè nello stesso ambito temporale.

Un concorrente partecipava alla gara e successivamente risultava ammesso alla fase successiva di apertura e valutazione delle offerte tecniche, dichiarando il possesso degli specifici requisiti, poi comprovati (in parte) mediante esibizione di certificato di regolare esecuzione di servizi analoghi svolti per un periodo inferiore a quello prescritto dalla disciplina di gara.

A sostegno della dichiarazione resa, l'operatore affermava che trattandosi di società operante nel settore oggetto della gara solo dal 2018, il requisito della durata temporale dell'effettuazione del servizio di raccolta differenziata media non poteva essere rapportata all'anno, bensì doveva essere ridotta proporzionalmente; diversamente, il bando di gara era da ritenersi illegittimo perchè posto in violazione dei principi generali finalizzati a garantire la possibilità di concorrere alle gare d'appalto delle nuove imprese e di tutela del favor partecipationis.

L'Amministrazione, tuttavia, a seguito di verifica eseguita presso le amministrazioni ove i servizi (dichiarati) erano stati precedentemente svolti, disponeva l'esclusione del concorrente per mancata comprova del possesso dei requisiti.

Il giudizio di primo grado si concludeva con sentenza che, in parte acclarava il ricorso inammissibile, in parte lo rigettava nel merito.

La società, tuttavia, proponeva appello innanzi all'Organo siciliano di secondo grado deducendo molteplici profili di illegittimità fra i quali, quello centrale, concernente  la decisione con cui il Giudice di primo grado, riguardo i requisiti di capacità tecnico - professionali, che non aveva ritenuto valida l'interpretazione dedotta dalla società ricorrente in quanto "contraddice la necessità di assicurare che tra i partecipanti alla gara vi siano concorrenti con sufficiente esperienza e adeguate prestazioni e finirebbe per favorire imprese prive di adeguata professionalità, poiché ad absurdum un’impresa neocostituita potrebbe aggiudicarsi l’appalto dimostrando il raggiungimento del 65% della raccolta differenziata anche solo per un mese (o anche frazioni temporali inferiori)".

Secondo l'appellante, la deduzione del TAR sarebbe errata in quanto "non tiene conto del fatto che la riduzione in maniera proporzionale del requisito richiesto è finalizzata a garantire la partecipazione degli operatori economici da poco tempo operanti sul mercato così da aumentare la possibilità di scelta della Pubblica amministrazione".

Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Sicilia, tuttavia, ha ritenuto non fondato il motivo, così da rigettarlo, affermando la piena legittimità della previsione del bando che prevedeva i requisiti relativi alla capacità tecnica.

Il Collegio, in particolare, ha ritenuto opportuno precisare che l'art. 83, Codice appalti, che disciplina i criteri di selezione, relativamente ai requisiti di capacità tecnico - professionali, opera una distinzione tra appalti di lavori e di servizi/forniture: in quest'ultimi il legislatore non ha contemplato un sistema unico di qualificazione, per cui "ne consegue la necessità di determinare per ogni singola gara i requisiti di capacità economica e professionale richiesti in ragione dello specifico oggetto della fornitura o del servizio".

Tra l'altro, rileva il medesimo Organo di giustizia, mentre la capacità economica - finanziaria è caratterizzata "da una previsione normativa specifica che ha l'effetto di limitare espressamente il margine di scelta discrezionale assegnato alla P.A.", relativamente ai requisiti tecnici la discrezionalità riservata alla stazione appaltante è più ampia, ma soggiace al principio generale secondo cui "cui i bandi di gara possono prevedere requisiti di capacità particolarmente rigorosi, purché non siano discriminanti e abnormi rispetto alle regole proprie del settore ... Il che in punto di adeguatezza corrisponde a un corretto uso del principio di proporzionalità nell’azione amministrativa: le credenziali e le qualificazioni pregresse debbono infatti ... essere attentamente congrue rispetto all’oggetto del contratto ...".

Sulla base di tale assunto il Giudice amministrativo ha ritenuto "logico e proporzionato il requisito speciale del raggiungimento del 65% di raccolta differenziata in 12 mesi attesa la natura del contratto, essendo il requisito finalizzato ad individuare operatori che attestino una pregressa esperienza, che consenta di ritenere che l’esigenza della collettività sarà adeguatamente soddisfatta".

Obblighi di risultato che si ricavano direttamente dalle disposizioni contenute nel codice dell'ambiente e relative agli aspetti specifici dell'attività di raccolta differenziata e alla programmazione che compete alle pubbliche amministrazioni.

Con ciò, il Giudice amministrativo ritiene non condivisibile l'interpretazione "alternativa" offerta dal concorrente ovvero di operare una sorta di riduzione "temporale" dei requisiti; ciò che sorprende è la motivazione espressa nella pronuncia in commento "... spetta solo alla legge di gara individuare eventuali modalità per consentire anche ai nuovi operatori economici di partecipare, e non può essere lasciato al singolo partecipante l’individuazione di criteri reputati in linea con le norme che regolano i pubblici contratti".

Si tratta di un'affermazione tutt'altro che generica: è agevole dedurre infatti che, secondo la prospettazione operata dal Supremo Consiglio, può ritenersi ammissibile nel sistema degli appalti pubblici la possibilità che una stazione appaltante preveda specifiche modalità atte a consentire ai nuovi operatori economici di partecipare, autonomamente, alle procedure di gara, senza il pieno possesso dei requisiti partecipativi.

Si tratterebbe, in buona sostanza, dell'applicazione del principio di più ampia partecipazione alle gare anche da parte delle imprese di nuova costituzione, da conciliarsi, nondimeno, con quello di assicurare che l’appalto sia eseguito da soggetto dotato di adeguata esperienza e professionalità.

Certamente, prosegue il Consiglio di Giustizia, "gli interessi delle imprese di nuova costituzione possono essere soddisfatti attraverso l’avvalimento, di cui l’odierna appellante non ha fatto uso".

Nel giungere alla conclusione, si tratta di una pronuncia che, certamente, pone l'attenzione sulla problematica della partecipazione a gara delle imprese neo costituite che, risultando prive dei requisiti di capacità tecnico - professionali relativi all'esperienza pregressa, necessitano di strumenti alternativi che prescindano dall'impiego di forme partecipative di tipo "associativo".

(C.G.A.R.S. 2.2.2021, n. 70)


Il divieto di abbandono dei rifiuti ex art. 192 del Codice dell'ambiente ed il ripristino ambientale.

La questione dell'abbandono incontrollato di rifiuti e degli obblighi di ripristino ambientale che gravano sul responsabile costituiscono un tema sempre attuale alla luce del quadro particolarmente complesso della disciplina della gestione dei rifiuti e, in generale, di quella ambientale.

In questa precedente news, in tema ambientale, è stata affrontata la questione dei lavori di bonifica (intesa quale operazione complessa di ripristino ambientale), analizzando gli aspetti amministrativi della partecipazione ad una procedura ad evidenza pubblica.

Il caso che qui si esamina verte, in particolare, su di un'ordinanza di smaltimento di un deposito d rifiuti; la particolarità sta nel fatto che il destinatario di tale provvedimento amministrativo è la Curatrice fallimentare della società fallita, la quale impugna innanzi al Tribunale amministrativo prima, al Consiglio di di Stato poi, l'ordine di rimozione dei rifiuti asserendo l'insussistenza di un obbligo di rimozione.

La questione giunge innanzi all'Adunanza plenaria su richiesta del Consiglio di Stato al fine di chiarire se a seguito della dichiarazione di fallimento perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell'art. 192, d.lgs. 152/2006, pur se il curatore fallimentare gestisce in proprio il patrimonio del bene della società fallita e ne ha disponibilità materiale.

Al di là del caso specifico e degli aspetti che abbracciano anche la disciplina fallimentare, degli obblighi giuridici cui era tenuta la società fallita in particolare,, il Giudice amministrativo opera una ricostruzione dell'istituto dell'abbandono dei rifiuti in guisa con i principi ambientali, prevenzione e responsabilità in particolare, di derivazione europea.

L'art. 192 del Codice dell'ambiente sancisce il divieto generale di abbandono dei rifiuti, anche nell'ipotesi di deposito incontrollato di materiali sul suolo e nel suolo; la violazione del divieto comporta, oltre all'applicazione delle sanzioni ivi previste, l'obbligo della rimozione all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi . La previsione legislativa prevede che il sindaco provvede con ordinanza alle operazioni necessarie, fissando il termine entro cui provvedere, decorso il quale si procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate.

Detta disposizione prevede una cd. esimente "interna", dovendosi configurare una responsabilità nei casi in cui la violazione dell'obbligo sia imputabile a titolo di dolo o colpa.

In estrema sintesi, dunque, al generale divieto di abbandono e di deposito incontrollato la legge riconnette gli obblighi di rimozione, di avvio al recupero oppure smaltimento ed il ripristino dello stato dei luoghi.

Prescindendo dalla sfera soggettiva sul quale grava l'obbligo, la soluzione alla questione passa necessariamente dall'enunciazione del principio, di derivazione comunitaria, in forza del quale, per la salvaguardia dell'ambiente, i rifiuti devono essere rimossi quando è cessata l'attività che li ha originati.

Si tratta, in questo caso, di stabilire su quale soggetto grava l'obbligo di rimozione, nell'ipotesi in cui l'imprenditore sia fallito e la gestione del patrimonio sia sottoposta ad un curatore.

Orbene, il giudice amministrativo muove le considerazioni distinguendo tra il soggetto che ha prodotto materialmente i rifiuti, da colui che ne abbia materialmente acquisita la detenzione o la disponibilità giuridica, prescindendo dalla natura giuridica del titolo sottostante.

Muovendo dal principio "chi inquina paga", che costituisce regola generale in materia ambientale, nonché dalla normativa comunitaria, si è solito affermare che i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti.

L'iter motivazionale appare appare complesso, ma al contempo, rispondente al nesso di causalità tra condotta e danno contestato: "... poiché l’abbandono di rifiuti e, più in generale, l’inquinamento, costituiscono ‘diseconomie esterne’ generate dall’attività di impresa (cd. “esternalità negative di produzione”), appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell’imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell’ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento. Seguendo invece la tesi contraria, i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il principio comunitario "chi inquina paga",

Da tale assunto, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato giunge a fissare il principio secondo il quale sia logico ritenere che ricada sulla curatela fallimentare "l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all'art. 192 d.lgs. n. 152-2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare".

Cons. St. Ad. Plen. 26.1.2021, n. 3


La valutazione di impatto ambientale ex art. 19, d.lgs. 152/2006 è espressione di ampia discrezionalità.

La valutazione di impatto ambientale è, per definizione, un procedimento amministrativo finalizzato all'individuazione, descrizione e quantificazione degli effetti che un determinato progetto potrebbe avere sull'ambiente, inteso come insieme delle risorse naturali, e sulle attività antropiche in esso presenti, al fine di accertare la sostenibilità ambientale del singolo intervento e realizzare la migliore mediazione possibile tra le esigenze funzionali dell'intervento stesso e l'impatto che la sua esecuzione effettivamente produce.

Si tratta, quindi, di una procedura complessa che trova applicazione riguardo quelle proposte progettuali (o modifiche a impianti già esistenti) che possono avere impatti ambientali significativi e negativi: esso è espressione del principio di precauzione di derivazione comunitaria.

La disciplina è contenuta, prevalentemente, nel Titolo III del d.lgs. 152/2006 e s.m.i., il Codice dell'ambiente, integrata dalla normativa regionale per taluni aspetti di dettaglio.

Il tema della procedura di valutazione di impatto ambientale è stato affrontato anche in questa news.

Il caso che qui si affronta consente di analizzare uno degli aspetti più dibattuti dell'istituto, ovvero quello concerne le valutazioni tecniche espresse dagli enti preposti durante la conferenza di servizi, soggetti chiamati ad esaminare il progetto e le relative ripercussioni prima dell'adozione del provvedimento definitivo, valutazioni che costituiscono certamente gli elementi imprescindibili per una decisione sufficientemente ponderata.

La vicenda trae origine da un ricorso proposto da un operatore economico proprietario di un giacimento di cava con finalità estrattive; nell'ambito del procedimento amministrativo autorizzativo, l'Ente regionale manifestava la necessità di sottoporre a procedura di V.I.A. il progetto definitivo per l'esercizio dell'attività estrattiva.

L'iter istruttorio di verifica della compatibilità ambientale si concludeva con esito positivo; tuttavia, la società istante decideva di impugnare dinanzi al Tribunale amministrativo regionale l'esito favorevole del procedimento, poiché il giudizio in ordine alla compatibilità del progetto imponeva il rispetto di specifiche prescrizioni.

Innanzitutto, il Giudice amministrativo opera una ricostruzione precisa dell'istituto della valutazione di impatto ambientale affermando che  l'intervento in oggetto era stato sottoposto a V.I.A. in quanto "ricompreso nell'Allegato IV alla Parte II al d.lgs. n. 152 del 2006, e appartenente alla categoria progettuale punto 8, lett. t) e tipologia progettuale «modifiche o estensioni di progetti di cui all'allegato III o all'allegato IV già autorizzati, realizzati o in fase di realizzazione, che possono avere notevoli ripercussioni negative sull'ambiente ... tipologia progettuale "Cave e torbiere".

Si tratta, in particolare, del richiamo dell'allegato tecnico al d.lgs. 152/2006 e s.m.i. che individua, con estremo rigore, le categorie di progetti che, per la loro approvazione, devono essere sottoposti alla procedura di compatibilità ambientale.

Il T.A.R., nella disamina del caso, giunge tra l'altro a precisare la funzione tipica della V.I.A. ovvero "quella di esprimere un giudizio sulla compatibilità di un progetto valutando il complessivo sacrificio imposto all'ambiente rispetto all'utilità socio - economica perseguita, che non è dunque espressione solo di discrezionalità tecnica, ma anche di scelte amministrative discrezionali, con la conseguenza della sottrazione di talune scelte al sindacato del G.A. se non laddove ricorrano evidenti profili di illogicità, irragionevolezza o errore di fatto".

Nell'affrontare la disciplina, il Giudice di primo grado giunge col delineare l'aspetto significativo della procedura di compatibilità ambientale ovvero la natura intrinseca delle scelte operate dai soggetti chiamati ad esprimere un parere nel corso dell'iter di valutazione della compatibilità del progetto, definendo inoltre il ruolo che assume il Giudice nell'ambito delle valutazioni espresse: "la valutazione di impatto ambientale (V.I.A.) si caratterizza quale giudizio espressione di ampia discrezionalità oltre che di tipo tecnico, anche amministrativa, sul piano dell'apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all'interesse all'esecuzione dell'opera ... Il sindacato del giudice amministrativo in subiecta materia, come noto, è limitato alla manifesta illogicità, incongruità, travisamento o macroscopici difetti di motivazione o di istruttoria ... Difatti, le valutazioni tecniche complesse rese in sede di V.i.a. sono censurabili per macroscopici vizi di irrazionalità proprio in considerazione del fatto che le scelte dell'amministrazione, che devono essere fondate su criteri di misurazione oggettivi e su argomentazioni logiche, non si traducono in un mero a meccanico giudizio tecnico, in quanto la valutazione d'impatto ambientale, in quanto finalizzata alla tutela preventiva dell'interesse pubblico, presenta profili particolarmente elevati di discrezionalità amministrativa, che sottraggono al sindacato giurisdizionale le scelte effettuate dall'amministrazione che non siano manifestamente illogiche e incongrue".

Con tale affermazione, il Giudice amministrativo evidenzia quindi che le valutazioni rese nel corso dell'iter autorizzativo sono dotate di ampia discrezionalità amministrativa, ragion per cui il sindacato del giudice è limitato esclusivamente ove sussistano macroscopici difetti di motivazione o di istruttoria.

Esaminate le singole censure, il T.A.R. si sofferma su uno degli aspetti oggetto del contenzioso ovvero la previsione di un obbligo in capo al proponente di stipulare una convenzione con l'Ente provinciale al fine di prevedere un contributo congruo per la manutenzione della viabilità di accesso alla cava per il tratto di competenza dell'Ente provinciale medesimo.

Orbene, accogliendo lo specifico motivo di ricorso, il Giudice amministrativo giunge condivisibilmente ad affermare che "... la citata prescrizione si risolve in una duplicazione, seppur con riferimento ad uno specifico tratto di strada, dell’onere aggiuntivo già previsto dall’art. 34 del Codice della strada specificamente per l’indennizzo dell’usura delle strade. La prescrizione, inoltre, non trovando giustificazione in alcuna fonte normativa, si pone in contrasto con l’art. 23 Cost. per cui nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge".

(TAR Umbria Sez. I, 13.1.2021, n. 7)