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Il divieto di circolazione dei veicoli storici: tutela ambientale o salvaguardia del patrimonio storico?

veicoli storiciIl divieto di circolazione dei veicoli storici: tutela ambientale o salvaguardia del patrimonio storico?

Il Giudice amministrativo ha affrontato una questione nell’ambito della quale l’oggetto del contendere è rappresentato dal provvedimento amministrativo comunale con il quale l’Ente civico avrebbe inteso inibire, sostanzialmente, la circolazione dei veicoli di interesse storico e collezionistico per esigenze di prevenzione dell’inquinamento.

Il caso esaminato dal TAR Campania.

I veicoli storici rappresentano certamente un valore inestimabile del patrimonio artistico nazionale, dell’ingegno umano, della tecnica e del design, tanto è vero che la disciplina del Codice della strada (decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285) prevede una disciplina apposita al fine di coniugare il valore dell’ambiente e di tutela del territorio con quello, di altrettanto rilievo costituzionale, della salvaguardia dei valori storico-culturali (del collezionismo storico; per un approfondimento normativo si rinvia all’interessante approfondimento edito dall’Automobile Club d’Italia).

Non è raro constatare che le Amministrazioni locali, dovendo necessariamente tutelare il patrimonio ambientale e ridurre le emissioni inquinanti - le cui concentrazioni causano rischi per l’uomo e la salute -, specie nel periodo primaverile ed estivo, in cui le città subiscono un incremento significativo di abitanti derivanti dai flussi turistici, sono solite limitare la circolazione di tutte o di alcune categorie di veicoli adducendo motivate esigenze di prevenzione.

Si tratta di una funzione, quella di tutela svolta dall’Ente locale, in linea con la disciplina sovranazionale finalizzata a promuovere azioni virtuose per il miglioramento dell’aria e dell’ambiente, la quale è stata oggetto di una radicale innovazione con il recepimento della direttiva 2008/50/CE, il cui decreto attuativo (d.lgs. 155/2010 e s.m.i.) ha imposto l’adozione misure di prevenzione a più livelli.

La questione controversa sottoposta al Giudice amministrativo muove proprio da tali premesse.

L’Amministrazione, infatti, con l’obiettivo di contenere le emissioni inquinanti nel territorio cittadino, adottava una delibera, cui seguiva l’atto amministrativo applicativo, contenente il divieto di circolazione degli autoveicoli inferiori alla classe Euro 0 ed Euro 1 includendovi anche le “auto d’epoca e/o storiche”, salvo specifiche esenzioni per le forze dell’ordine e di emergenza.

Avverso gli atti amministrativi insorgeva un’associazione di possessori di veicoli d’epoca lamentando la mancata previsione di una specifica esenzione al divieto per gli autoveicoli ed i motoveicoli d’epoca e/o storici affidando il gravame a plurimi motivi di ricorso, tra cui il difetto di istruttoria e di motivazione nella parte in cui l’Ente avrebbe ricompreso tra i veicoli inquinanti quelli di interesse storico o collezionistico omettendo una valutazione circa le caratteristiche degli stessi e l’esiguo numero rispetto alla totalità di quelli circolanti.

La decisione del Tar campano (di accoglimento del ricorso) appare “un inno alla gioia” per gli amanti possessori di tali veicoli.

Ricostruendo la normativa di settore, in particolare quella contenuta all’art. 60 del d.lgs. 285/1992 e s.m.i., il Giudice amministrativo ha colto l’occasione per elencare i cd. veicoli “con caratteristiche atipiche” distinguendo fra:

- i “veicoli d’epoca”, che comprendono “i motoveicoli e gli autoveicoli cancellati dal P.R.A. perché destinati alla loro conservazione in musei o locali pubblici e privati, ai fini della salvaguardia delle originarie caratteristiche tecniche specifiche della casa costruttrice, e che non siano adeguati nei requisiti, nei dispositivi e negli equipaggiamenti alle vigenti prescrizioni stabilite per l'ammissione alla circolazione”: per essi “la relativa circolazione può essere consentita “soltanto in occasione di apposite manifestazioni o raduni autorizzati, limitatamente all'ambito della località e degli itinerari di svolgimento delle manifestazioni o raduni”, purché siano muniti di una particolare autorizzazione rilasciata dal competente ufficio del Dipartimento per i trasporti terrestri nella cui circoscrizione è compresa la località sede della manifestazione o del raduno”;

- i “veicoli di interesse storico o collezionistico”, che includono “tutti i motoveicoli e autoveicoli di cui risulti l’iscrizione in appositi registri ed in possesso dei requisiti di cui all’art. 215 del D.P.R. 495/1992 (Regolamento di attuazione del Codice della strada) tra i quali spiccano: i) “La data di costruzione deve risultare precedente di almeno 20 anni a quella di richiesta di riconoscimento nella categoria in questione.”; ii) “Le caratteristiche tecniche devono comprendere almeno tutte quelle necessarie per la verifica di idoneità alla circolazione del motoveicolo o dell'autoveicolo” con riferimento ai freni, dispositivi di segnalazione acustica, silenziatori e tubi di scarico, segnalazione visiva e d'illuminazione, pneumatici, sospensioni, vetri e specchi retrovisori”.

Orbene, da tale considerazione il Giudice amministrativo ha ricavato l’illegittimità di quei provvedimenti amministrativi che parificano, in punto di regime di circolazione, i veicoli di interesse storico e collezionistico ai veicoli inquinanti meramente appartenenti alle classi di omologazione Euro 0, 1, 2 e 3, non dotati di alcuna iscrizione in registri né muniti di un certificato attestante la storicità.

La motivazione è davvero singolare poiché, a ragion di chi scrive, pare essere un vero e proprio ammonimento dell’Ente per l’eccessiva rigidità di limitazione della circolazione dei veicoli che, con molta probabilità, costituiscono un tassello della “storia del nostro Paese”: “i provvedimenti impugnati non risultano adeguatamente proporzionati rispetto all’obiettivo di contenere e ridurre sul territorio le componenti inquinati in atmosfera. Si aggiunga che il provvedimento comunale appare connotato da eccessiva rigidità, nella misura in cui non contempla deroghe ai divieti di circolazione per la considerazione che i veicoli storici, costituenti una testimonianza diretta del patrimonio storico, tecnico e culturale in senso lato del Paese, hanno bisogno di particolari cure di manutenzione delle varie componenti (meccanica, carrozzeria, ricambi, restauro, selleria, ecc.), in mancanza delle quali verrebbe seriamente compromessa la possibilità di una loro adeguata custodia e conservazione … In questa prospettiva - e pur avendo doverosamente come obiettivo primario quello della salvaguardia del diritto alla salute dei cittadini - una diversa declinazione dei divieti e delle relative deroghe con riguardo ai veicoli d’epoca e di interesse storico o collezionistico sembra più rispondente alla necessità di trovare un punto di equilibrio e di sintesi, che tenga contestualmente conto anche della salvaguardia dei concorrenti valori ed interessi del collezionismo privato”.

Ancora una volta, dunque, emerge che la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini costituisce certamente un obiettivo primario di tutela delle Amministrazioni, ma d’altra parte detta tutela deve essere coniugata e bilanciata con quei valori rilevanti che assumono comunque un peso assolutamente preponderante nella salvaguardia dell’identità storica di una Nazione.

TAR Campania, Napoli, Sez. V, 20 novembre 2024, n. 6388

 

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energie rinnovabili

Energie rinnovabili: il dissenso della Soprintendenza deve essere sempre “costruttivo”.

Energie rinnovabili: il dissenso della Soprintendenza deve essere sempre “costruttivo”.

In materia di energie rinnovabili, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo sancito il principio per cui, allorquando la Soprintendenza è chiamata ad esprimersi per la realizzazione ed esercizio di impianti, è illegittimo il mero dissenso all’approvazione senza che siano espresse le possibili soluzioni concretamente assentibili.

Le questioni giuridiche oggetto di disputa.

A prescindere che si tratti di piccoli, medi o grandi interventi per la realizzazione ed esercizio di impianti energetici, l’autonomia energetica e gli investimenti in tali settori comportano seri problemi ogni qualvolta l’intervento volto all’adeguamento tecnologico si ponga in contrasto (anche solo apparente) con la salvaguardia dei valori paesaggistici.

La normativa sovranazionale è volta a potenziare l’impiego di fonti rinnovabili, essendo la produzione di energia un’attività di interesse pubblico che contribuisce allo sviluppo economico.

È d’obbligo anche considerare che l’evoluzione tecnologica ha radicalmente modificato gli assetti costruttivi tanto da ritenere, a titolo esemplificativo, che la presenza di impianti fotovoltaici sulla sommità degli edifici, innovando gli immobili per tipologia e morfologia, non è più percepita come un fattore di disturbo visivo, bensì come un’evoluzione dello stile costruttivo accettato dall’ordinamento e dalla sensibilità collettiva.

La questione affrontata dal Giudice amministrativo pone una comparazione tra due distinti interessi di matrice ambientale coinvolti: la produzione di energia e la salvaguardia dei valori paesaggistici, interessi che trovano collocazione proprio nel procedimento amministrativo ove ne viene garantita la pubblicità e trasparenza della loro valutazione.

Nell’ambito di un procedimento richiesto da un operatore economico privato per la realizzazione ed esercizio di un impianto agrivoltaico integrato ecocompatibile di medie dimensioni, finalizzato al rilascio di autorizzazione unica ex art. 12, d.lgs. 387/2003 e s.m.i., durante la fase istruttoria propedeutica alla conferenza di servizi decisoria, la Soprintendenza beni culturali ed ambientali rendeva un primo parere negativo, costringendo la società proponente a modificare il progetto al fine di risolvere le criticità geomorfologiche.

A fronte di tale rielaborazione progettuale, la Soprintendenza rendeva un nuovo parere ai sensi dell’art. 146, d.lgs. 42/2004 e s.m.i., ritenendo il progetto “incompatibile con la tutela paesaggistica ed archeologica che pertanto non può essere approvato”.

Il realizzando impianto, infatti, ricadeva in area sottoposta a vincolo e che l’unico rimedio per superare le criticità sarebbe stata la delocalizzazione in altra area.

Avverso tale parere è insorta la società proponente, impugnando, tra l’altro, il verbale della conferenza di servizi, lamentando l’illegittimità per plurimi profili di diritto, tra cui la violazione del principio del dissenso costruttivo e del contemperamento degli interessi costituzionali, oltre il vizio motivazionale.

Pronunciandosi sulla questione, il Tar ha ben evidenziato l’evoluzione interpretativa degli interessi di matrice ambientale che sono coinvolti nei procedimenti amministrativi complessi, fornendo un’interpretazione evolutiva delle previsioni normative alla luce dei dettami forniti dall’Unione europea sullo sviluppo sostenibile e delle energie rinnovabili.

A ragion del Giudice amministrativo, infatti, le censure formulate dalla società ricorrente risultano fondate posto che il nuovo parere reso dalla Soprintendenza si pone in termini del tutto negativi senza, rispettivamente, evidenziare la rielaborazione progettuale e le modifiche apportate dal proponente dopo il primo diniego e, secondariamente, non reca alcuna reale indicazione per superare il dissenso espresso.

Si riscontra, dunque, la violazione del principio del dissenso costruttivo nel parere espresso dall’Organo.

Riguardo tale principio, l’orientamento giurisprudenziale prevalente ha costantemente affermato che “non è possibile emettere un diniego all’intervento edilizio, senza indicare al proponente le possibili soluzioni edificatorie assentibili. Tale diniego si pone, infatti, in contrasto con il principio di leale collaborazione, il quale impone alla Soprintendenza di esprimere un dissenso costruttivo, evidenziando le modifiche o le prescrizioni in ragione delle quali il progetto possa eventualmente superare il vaglio, indicando quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far conseguire all'interessato l'autorizzazione paesaggistica”.

La pronuncia in commento si arricchisce di un’ulteriore precisazione, utile a comprendere la portata innovativa del principio: “la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici del bene paesaggio”.

Nel caso di specie, la Soprintendenza, nel nuovo parere, non ha fatto emergere le nuove risultanze dell’istruttoria ed i relativi approfondimenti cui era chiamata la stessa in ragione della rimodulazione del progetto: l’Amministrazione, invero, si è limitata ad una formula generica e stereotipata che si concretizza nell’affermazione che sull’area sussiste un vincolo paesaggistico apposto, senza un approfondimento specifico (anzi, affermando apoditticamente che considerato che “la vigenza stessa del vincolo esclude qualunque possibilità di realizzazione dell’impianto”), malgrado la normativa di settore non preveda alcun automatismo tra la sussistenza di un vincolo paesaggistico e la realizzazione degli impianti energetici.

È ormai noto che non può ritenersi sufficiente il generico richiamo all’esistenza del vincolo per impedire la realizzazione di un intervento, essendo al contrario necessario, da parte della Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, un apprezzamento di compatibilità da condurre sulla base di rilevazioni e di giudizi puntuali sull’effettiva consistenza e a localizzazione dell’intervento, al fine di confermare o escludere la concreta compatibilità dello stesso con i valori tutelati nello specifico contesto di riferimento.

Tali elementi, applicati al settore energetico, consentono di operare un bilanciamento degli interessi coinvolti in modo da garantire sempre e comunque lo sviluppo sostenibile e la promozione di iniziative imprenditoriali, specie nel settore delle energie rinnovabili.

TAR Sicilia, Sez. V, 26 agosto 2024, n. 2482

 

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comunicati anac, responsabilità erariale, legal team

La natura dei comunicati dell’ANAC in un caso di responsabilità erariale.

comunicati anac, responsabilità erariale, legal teamLa natura dei comunicati dell’ANAC in un caso di responsabilità erariale.

Qual è la natura dei comunicati ANAC in un sistema in cui l’interpretazione delle leggi e la risoluzione delle singole controversie in materia d’appalti e, più in generale, di contrattualistica pubblica è demandata all’Autorità giurisdizionale amministrativa?

Una stazione appaltante può non applicarli e, quindi, disattenderli?

La problematica è stata incidentalmente affrontata in un’interessante pronuncia resa dalla Sezione regionale della Liguria della Corte dei Conti nell’ambito di un procedimento sorto in relazione a presunti comportamenti illeciti da parte di alcuni funzionari/responsabili dei servizi riferiti all’omessa procedura ad evidenza pubblica di assegnazione del servizio di illuminazione pubblica di un Comune.

Le questioni affrontate dal Giudice contabile.

La vicenda è alquanto particolare e sorge allorquando viene ad essere contestata, da parte della Procura erariale, la condotta di alcuni responsabili/funzionari di un’Amministrazione che, a seguito di un’indagine della Guardia di Finanza orientata a verificare il rispetto delle prescrizioni del codice dei contratti pubblici riguardo la gestione degli impianti di illuminazione pubblica, ravvisava un’ipotesi di responsabilità amministrativa in danno del Comune per ipotesi di danno erariale discendente da affidamenti di servizi pubblici illegittimi e privi di gara pubblica.

Dai fatti di causa e dall’attività istruttoria espletata emergevano presunti profili di responsabilità a carico dei Responsabili dell’area tecnica e di quella finanziaria allorquando l’Ente civico, con propria determinazione, procedeva ad un affidamento del servizio di manutenzione straordinaria utilizzando la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara.

Affidamento che avveniva previa valutazione dell’affidabilità tecnica e finanziaria del contraente prescelto in luogo di altro operatore che, viceversa, aveva presentato un minor costo di gestione ma nessuna affidabilità.

Orbene, prescindendo dagli aspetti di merito della vicenda (culminata con l’esclusione di qualsiasi responsabilità a carico dei Responsabili comunali), appare peculiare la ricostruzione operata dal Giudice contabile che, nel vagliare l’ipotesi di danno erariale, fonda la propria motivazione sull’operato dell’Ente, il quale si era discostato dal contenuto del Comunicato del Presidente ANAC avente ad oggetto “Indicazioni operative … per l'affidamento del cd. "servizio luce" e dei servizi connessi per le pubbliche amministrazioni” pubblicato in data 14 settembre 2016.

A seguito di numerose segnalazioni pervenute riguardo le modalità di affidamento del servizio di illuminazione pubblica, trattandosi di un servizio pubblico locale di rilevanza economica, con il Comunicato in parola, in particolare, l’Autorità aveva fornito indicazioni alle Amministrazioni circa la procedura da seguire alla stregua del previgente quadro normativo.

Il tratto essenziale della pronuncia qui in commento si rinviene nella parte in cui il Giudice contabile si interroga sulla natura e sulla portata di detto Comunicato, giungendo ad asserire che “non ha un generale potere interpretativo ed efficacia erga omnes” e, dunque, il contenuto può essere disatteso e non applicato dalla stazione appaltante.

A rigor del vero, il Collegio giudicante ha ritenuto legittima la condotta assunta dall’Ente civico che, discostandosi dal contenuto del Comunicato ANAC, era libera di disattenderlo in ragion della particolarità del caso (ovvero peculiarità del luogo, proprietà delle strutture ed economicità delle operazioni).

Si legge, nella pronuncia, che “sembra tuttavia necessario anzitutto premettere che ANAC, nel vigente quadro normativo interno, non ha un generale potere interpretativo ad efficacia erga omnes. Gli atti da questa emanati, aventi la forma di semplici “comunicati”, seppure autorevoli, per pacifica giurisprudenza amministrativa, possono senz’altro essere disattesi e non applicati dalla stazione appaltante. Nel nostro sistema costituzionale, infatti, l’interpretazione delle leggi e la risoluzione delle singole controversie (in materia d’appalti e, più in generale, di contrattualistica pubblica) sono demandate esclusivamente all’autorità giurisdizionale amministrativa, vale a dire che il giudice amministrativo è l’unico soggetto dell’Ordinamento deputato a risolvere i contenziosi, applicando la propria funzione ermeneutica del diritto … per quello che qui interessa, va senz’altro affermata la natura di meri pareri dei comunicati del Presidente dell’ANAC, privi, in generale, di qualsivoglia efficacia vincolante per le stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti l’interpretazione della normativa in tema di appalti”.

La differenza tra atti vincolanti e non: la legittimità dell’Ente di discostarsi dall’orientamento di ANAC.

Riferendosi al previgente Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 50/2016 e s.m.i.), il Giudice contabile chiarisce che “il Codice degli appalti, pubblici approvato con D.lgs. 50 del 2016, ha previsto per la relativa attuazione, in completa rottura rispetto al sistema precedente, non più un’unica fonte regolamentare avente forma e sostanza di regolamento governativo bensì una pluralità di atti, di natura eterogenea, tra cui, per quello che qui interessa, le linee guida approvate dall’ANAC. Tali linee guida, costituendo una novità assoluta nella contrattualistica pubblica, si distinguono in vincolanti (vedi ad es. art. 31 comma 5, D.lgs. 50/2016) e non vincolanti, quest’ultime invero molto più frequenti e … assimilabili - secondo una tesi - alla categoria di stampo internazionalistico della c.d. “soft law … oppure - seconda altra opzione - alle circolari intersoggettive interpretative con rilevanza esterna, operando il Codice appalti un rinvio formale alle linee guida (es. art. 36 comma 7, D.lgs. 50/2016) … Diversamente dalle linee-guida, per la cui formazione è previsto un percorso procedimentalizzato e partecipato … i comunicati del Presidente dell’ANAC sono dunque pareri atipici e privi di efficacia vincolante per la stazione appaltante e gli operatori economici”.

Osservando il contenuto del nuovo Codice dei contratti pubblici può agevolmente asserirsi che l’Autorità non è stata privata del generale potere di emettere pareri inerenti all’interpretazione della normativa in tema di appalti, ragion per cui la pronuncia in commento può verosimilmente ritenersi attuale nonostante sia riferita al previgente sistema degli appalti pubblici.

Ciò che appare essenziale è che la responsabilità erariale, per essere esclusa, deve presupporre una condotta dell’Amministrazione ispirata alla buona fede e alla correttezza delle modalità di affidamento dei servizi pubblici.

Corte dei Conti Sez. Liguria, 29 agosto 2024, n. 78

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Fatture Commerciali: sono sufficienti per provare il corrispettivo dovuto all’appaltatore?

Fatture Commerciali: sono sufficienti per provare il corrispettivo dovuto all’appaltatore?

Fatture Commerciali: sono sufficienti per provare il corrispettivo dovuto all’appaltatore? Le fatture commerciali emesse non costituiscono un elemento sufficiente per ritenere provato il quantum del corrispettivo di lavori eseguiti in un appalto.

È il principio giurisprudenziale che è ormai consolidato in materia in ossequio al correlato onere della prova che governa tutti i rapporti contrattuali ed i discendenti obblighi posti a carico delle parti.

I fatti: il contenzioso sui lavori eseguiti.

A seguito dell’espletamento del procedimento di accertamento tecnico preventivo conclusosi senza alcun accordo conciliativo tra le parti, tra più imprese scaturiva una lite innanzi al Giudice ordinario nell’ambito della quale la Committente, previo accertamento di asseriti difetti costruttivi e progettuali e conseguente inadempimento delle imprese esecutrici di lavori di realizzazione di un fabbricato da destinare a civile abitazione (appalto privato), chiedeva al Tribunale adito la condanna delle imprese esecutrici e la risoluzione del contratto, nonché il risarcimento di tutti i danni subiti.

Le singole imprese esecutrici, in qualità di convenute, si opponevano alle richieste e, al contempo, una di esse, chiedeva la condanna al pagamento di somme quale residuo dovuto per la realizzazione di alcune opere specifiche (realizzazione opere di sistemazione del piazzale esterno).

A seguito dei primi due gradi di giudizio, nei quali la Committente veniva condannata al pagamento di somme, la controversia giungeva innanzi al Giudice della Cassazione che, con un’articolata motivazione, accoglieva alcuni motivi di ricorso, pronunciando alcuni principi di fondamentale importanza nel settore dei rapporti commerciali e, incidentalmente, negli appalti di lavori.

La decisione della Corte.

La Corte muove dal principio secondo cui “In tema di contratto di appalto, l’appaltatore che chieda il pagamento del proprio compenso ha l’onere di dimostrare la congruità della somma pretesa, con riferimento alla natura, all’entità e alla consistenza delle opere realizzate, non costituendo idonee prove dell’ammontare del credito le fatture emesse dal medesimo appaltatore, poiché si tratta di documenti fiscali provenienti dalla parte stessa, né la contabilità redatta dal direttore dei lavori o dallo stesso appaltatore, a meno che non risulti che essa sia stata portata a conoscenza del committente e che questi l’abbia accettata senza riserve”.

A ragion della Cassazione, infatti, il richiamo delle sole fatture commerciali emesse dall’impresa esecutrice non avrebbe potuto costituire elemento sufficiente per ritenere provato il quantum del corrispettivo preteso.

E ciò perché, precisa la Corte, “la fattura commerciale, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale ed alla funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto, si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione, indirizzata all’altra parte, di fatti concernenti un rapporto già costituito, sicché, quando tale rapporto sia contestato (quantomeno in ordine alla quantificazione della pretesa), non può costituire valido elemento di prova delle prestazioni eseguite ma, al più, un mero indizio”.

Un ulteriore elemento ha consentito di giungere a tale decisione.

Infatti, nel giudizio, non è stata addotta alcuna argomentazione sulla specifica accettazione delle fatture e sul loro inserimento nelle scritture contabili della Committente, rilevante peraltro ai soli fini della dimostrazione dell’esistenza del contratto (an) da cui traeva origine l’obbligazione rivendicata.

Pertanto, si ricava che “l’appaltatore che chieda il pagamento del proprio compenso ha l’onere di dimostrare la congruità della somma, con riferimento alla natura, all’entità e alla consistenza delle opere, non costituendo idonee prove dell’ammontare del credito le fatture emesse dal medesimo appaltatore, poiché si tratta di documenti fiscali provenienti dalla parte stessa”.

Analoga conclusione vale per il consuntivo riportante le voci delle opere eseguite ove redatto dal solo appaltatore.

Non costituisce, infatti, idonea prova del credito dell’appaltatore (quantum) la contabilità redatta dal direttore dei lavori (o dallo stesso appaltatore), a meno che non risulti che essa sia stata portata a conoscenza del Committente e che questi l’abbia accettata senza riserve, pur senza aver manifestato la sua accettazione con formule sacramentali, oppure che il direttore dei lavori, per conto del Committente, abbia redatto la relativa contabilità come rappresentante del suo cliente e non come soggetto legato a costui da un contratto di prestazione d’opera professionale, che gli fa assumere la rappresentanza del committente limitatamente alla materia tecnica.

Tutti questi elementi conducono a ritenere che ogni qualvolta oggetto della controversia sia una pretesa di carattere economico connessa a lavori eseguiti nell’ambito di un appalto (privato nel caso di specie, ma non si esclude l’estensione all’ipotesi di un appalto pubblico, seppur con alcune limitazioni), colui che agisce in giudizio è tenuto a provare le caratteristiche intrinseche delle prestazioni effettivamente eseguite, senza limitarsi alle fatture commerciali che, come evidenziato, assumono caratteristiche e finalità diverse dalla dimostrazione effettiva dei lavori svolti.

Cass. Civ., Sez. II, 23 maggio 2024, n. 14399


Requisiti speciali servizi e forniture

Requisiti speciali servizi e forniture: quando la mera iscrizione nel registro delle imprese non è sufficiente

Requisiti speciali servizi e fornitureLa mera contemplazione di un’attività nell’oggetto sociale, la quale esprime soltanto la misura della capacità di agire di una società, indicando i settori - potenzialmente illimitati - nei quali la stessa potrebbe (in astratto) operare non è sufficiente a soddisfare il possesso del requisito di idoneità professionale ove è richiesta l’iscrizione nella camera di commercio di una determinata attività.

È quanto affermato dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, nell’ambito di una lite insorta per l’affidamento della gestione del servizio di visite dei siti culturali comunali aperti al pubblico.

A rigor del vero, con una pronuncia che si discosta dall’orientamento giurisprudenziale prevalente, sebbene il requisito dell’iscrizione dell’attività nel registro della camera di commercio risulterebbe posseduto dall’aggiudicataria entro i termini di scadenza per la presentazione delle candidature, ciò non sarebbe sufficiente ad attestarne il possesso.

I fatti: il possesso del requisito dell’idoneità professionale.

Un’Amministrazione comunale indiceva una procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi di gestione delle visite dei siti culturali comunali aperti al pubblico prevedendo, quale criterio di aggiudicazione, quello del minor prezzo, in ossequio a quanto previsto dall’art. 108, comma 3, d.lgs. 36/2023.

All’esito della selezione venivano ammessi alla partecipazione solo due operatori economici, di cui la prima classificata indicava in sede di offerta economica, quale ribasso, quello del 53,67%, a fronte dell’altro operatore che, invece, formulava un ribasso decisamente inferiore (ovvero pari al 12,60%).

Vista la diversità, l’Amministrazione richiedeva chiarimenti all’offerente posto che la lex specialis di gara prevedeva che la percentuale di ribasso offerta in sede di gara avrebbe dovuto tenere in considerazione la quota del 30% obbligatoriamente da riconoscere all’Ente per ogni biglietto venduto.

Avviato il dialogo procedimentale tra l’Impresa e la Stazione appaltante per chiarimenti, concluso positivamente, a seguito dell’aggiudicazione insorgeva la ditta seconda classificata lamentando, oltre all’illegittima modifica postuma dell’offerta economica dell’aggiudicataria, anche il possesso del requisito speciale dell’idoneità professionale, che, stando al contenuto della lex specialis, avrebbe dovuto essere attestato mediante iscrizione alla camera di commercio per una categoria attinente all’oggetto dell’appalto pena l’esclusione, insieme ad ulteriori rilievi critici.

La decisione del TAR sulla scorta del nuovo Codice dei contratti pubblici.

Il Giudice amministrativo siciliano, con una pronuncia destinata a lasciare il segno, ha ritenuto meritevole di favorevole apprezzamento il motivo di ricorso basato sulla carenza del requisito di idoneità professionale in capo all’aggiudicataria, acclarando, dunque, l’illegittimità dell’aggiudicazione disposta dall’Ente.

Ricostruendo i dettagli della vicenda, il Tar ha preliminarmente esaminato le attività che l’aggiudicataria era abilitata a svolgere entro il termine di scadenza della presentazione delle offerte, constatando che originariamente il concorrente era abilitata allo svolgimento dell’attività di cura e manutenzione di aree verdi, salvo poi, in data successiva alla pubblicazione del bando di gara, aggiungere, alla sua precedente iscrizione nel registro delle imprese, l’attività secondaria di gestione delle visite guidate.

Il Giudice amministrativo aggiunge un ulteriore dettaglio fattuale della vicenda, certamente degno di nota: “L’anzidetto requisito [iscrizione nel registro delle imprese dell’attività di gestione delle visite guidate], dunque, risulterebbe essere posseduto dall’aggiudicataria entro i termini di scadenza per la presentazione delle candidature ai fini della partecipazione alla selezione”.

Con una motivazione alquanto complessa e sostanzialistica, discostandosi dal diverso orientamento giurisprudenziale (eminentemente formale), il Giudice amministrativo giunge a ritenere insufficiente l’iscrizione nel registro delle imprese al fine di attestare il possesso del requisito dell’idoneità professionale in capo all’operatore economico “posto che la sua funzione deve essere ritenuta quella di certificare il possesso di competenza ed esperienza professionale effettiva, e non solo potenziale, nello svolgimento del servizio oggetto di gara”.

Facendo leva sulla finalità della certificazione camerale, richiamando il nuovo Codice di cui al d.lgs. 36/2023, il Tar siciliano ha evidenziato che essa “è finalizzata a selezionare ditte che abbiano una esperienza specifica nel settore interessato dall’appalto. Quando tale prescrizione si specifica nel senso che occorre dimostrare l’iscrizione per una definita attività … ciò significa che, attraverso la certificazione camerale, deve accertarsi il concreto ed effettivo svolgimento … di una determinata attività”.

Chiaramente, nessuna rilevanza può assumere la mera iscrizione nel registro delle imprese di un’attività conferente a quella oggetto della gara o la mera contemplazione dell’oggetto sociale che “esprime la misura della capacità di agire della società”.

Occorre accertare, secondo la prospettiva del Tar, il concreto ed effettivo svolgimento dell’attività.

Il principio di diritto sancito dal Giudice amministrativo appare la sintesi di un quadro ben più complesso: “l’iscrizione nella camera di commercio per un’attività rientrante tra quelle contemplate dall’avviso di gara … avvenuta solo dopo la pubblicazione del bando e in assenza … di qualsivoglia esperienza concreta e pregressa, non può essere ritenuta sufficiente per integrare il possesso del … requisito di idoneità professionale”.

La considerazione conclusiva espressa dal Giudice amministrativo pone in evidenza la peculiarità del caso che, a ragion di chi scrive, risiede in due distinti aspetti, tali da giustificare una decisione di tale portata: il primo, ovvero la non corretta pianificazione dell’istituto dell’avvalimento di cui aveva fatto ricorso l’operatore economico originariamente aggiudicatario (l’operatore non aveva fruito dell’iscrizione camerale dell’impresa ausiliaria, bensì del solo fatturato pregresso e dei servizi “di punta” prestati) e, secondariamente, il breve lasso di tempo intercorso tra l’inserimento dell’attività specifica nel registro delle imprese e la scadenza del termine di presentazione delle offerte.

Operando un parallelismo sulla scorta di quanto sancito dal previgente codice dei contratti pubblici, potrebbe venire in rilievo la causa giustificativa prevista per la dimostrazione della capacità economica e finanziaria, laddove si riteneva ammissibile per l’operatore economico dimostrare il possesso di tale capacità nella misura delle informazioni disponibili, anche laddove l’attività fosse stata avviata nel triennio precedente; un parallelismo, si badi bene, utile solo a dare una chiave di lettura ancor più sostanzialistica ad una pronuncia, quella oggetto del presente contributo, alquanto innovativa.

TAR Sicilia Catania, Sez. III, 10 aprile 2024, n. 1355

 


amministratore di fatto

Chi è l'amministratore di fatto? Gli indici rilevatori secondo la Cassazione

amministratore di fattoChi è l'amministratore di fatto? L’amministratore di fatto, quale figura che interviene all’interno degli organi societari apicali, assume un ruolo decisivo nell’ambito della disciplina del nuovo Codice dei contratti pubblici.

In precedenza, sulla scorta del previgente codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 50/2016, abbiamo esaminato un interessante questione relativa ai profili penali di un ex amministratore di società ed i relativi rimedi che, per scongiurare un’esclusione, la Società interessata sarebbe tenuta ad adottare (le cd. misure self cleaning); per un approfondimento di un tema che presenta molteplici aspetti d’attualità è possibile consultare la news integrale a questo link.

L’amministratore di fatto nel nuovo Codice dei contratti pubblici

Nel nuovo Codice dei contratti pubblici l’amministratore di fatto diviene una figura cardine.

Si pensi, infatti, che tra gli obblighi dichiarativi di cui all’art. 94 relativi alle cause di esclusione automatiche, il comma 3, sub. h), stabilisce espressamente che l’esclusione dell’operatore economico per i reati di cui ai commi 1 e 2 avviene “se la sentenza o il decreto oppure la misura interdittiva … sono stati emessi nei confronti … h) dell’amministratore di fatto”.

Per la prima volta, dunque, il legislatore ha introdotto un preciso “compito” in capo all’operatore economico concorrente che, lungi dal concretizzarsi nel rendere una mera dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione, rappresenta, invero, l’individuazione di un elemento di fatto rilevante per l’Amministrazione e l’affidamento dell’appalto e, quindi, per il rapporto che si andrà ad instaurare.

Tale affermazione si ricava dalla relazione di accompagnamento del Codice che, nell’osservare che occorre una particolare attenzione verso quelle figure aziendali (es. dirigenti) che possano esercitare il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo del candidato o dell’offerente, si è precisato che il riferimento espresso all’amministratore di fatto “sembra in realtà elidere a monte le preoccupazioni sottese … non a caso, la giurisprudenza recente si è saldamente orientata … con riferimento anche alla figura del <<gestore di fatto>>, o del <<socio sovrano>>”.

Gli indici rivelatori dell'amministratore di fatto

Dunque, si pone un problema di raccordo tra le discipline ed il quesito di partenza è il seguente: quando ricorre un amministratore di fatto di una società?

L’individuazione di tale figura consentirà di rendere correttamente le dichiarazioni di gara.

La risposta è fornita da un’interessante pronuncia resa dalla Corte di Cassazione penale, la quale è stata investita di una vicenda alquanto complessa che ha visto il soggetto interessato (imputato del reato di bancarotta fraudolente) disconoscere il ruolo attribuito, invece, dalla Corte territoriale adita in secondo grado.

Prescindendo dagli aspetti fattuali della vicenda, la Corte di Cassazione, ripercorrendo l’iter dei fatti e la decisione gravata, si è soffermata sulla corretta attribuzione della qualifica di amministratore di fatto, asserendo che ai fini della configurabilità, è necessaria la presenza di “elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttiva in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare”.

Dunque, secondo il Giudicante, l’esatta configurazione della figura apicale presuppone un coinvolgimento di tale figura nel ruolo operativo della Società: la Corte, tuttavia, non si sofferma solo su tale inciso.

Per un verso, infatti, ha precisato che l’accertamento della qualifica di “amministratore di fatto” costituisce oggetto di una “valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità” a condizione che sia “sostenuta … da congrua e logica motivazione”. In altre parole, ove l’accertamento sia avvenuto da parte del Giudice sulla scorta di una congrua e logica motivazione si può validamente ritenere che si tratti di una valutazione insindacabile.

Per altro verso, richiamando la giurisprudenza di legittimità che si è ripetutamente pronunciata sul tema, ha esposto quali sono gli elementi “sintomatici” tali da cui poter trarre la qualifica di “amministratore di fatto” di un soggetto, individuando, tra gli altri, l’atto di conferimento di una procura generale “ad negotia” quando questa “per l’epoca del suo conferimento e per il suo oggetto, concernente l’attribuzione di autonomi e ampi poteri, sia sintomatica della esistenza del potere di esercitare attività gestoria in modo non episodico o occasionale ovvero sia seguita dall’attivazione dei poteri conferiti con la procura stessa”.

Amministratore di fatto e prospettive di tutela

Si badi bene che, anche alla luce di tali elementi, la qualifica di amministratore di fatto, probabilmente, rappresenta uno dei più complessi e dibattuti istituti che col nuovo Codice dei contratti pubblici tornerà certamente d’attualità, non senza problematicità.

Non a caso la prospettiva del nuovo legislatore appare più rigorosa poiché ritiene che la valutazione dell’affidabilità morale e professionale di un operatore economico non possa ritenersi disgiunta dallo scrutinio comprensivo della condotta di quei soggetti che, di fatto, assumono un ruolo decisivo sul piano organizzativo e tecnico dell’impresa. Ci sia aspetta, dunque, anche un’inversione di rotta della stessa giurisprudenza amministrativa che, in un recente passato, ha demandato all’amministrazione la comprova della rilevanza del punto di rottura dell’affidamento ove connesso alla figura dell’amministratore di fatto (si veda, Cons. Stato Sez. IV, 3 febbraio 2022, n. 768).

Corte Cass. penale, Sez. V, 26 ottobre 2023, n. 4816

 


Conflitto di interessi: quando c'è responsabilità erariale?

Conflitto di interessi: quando c'è responsabilità erariale?

Il conflitto di interessi nella pubblica amministrazione è un tema sempre più d’attualità, specie quando è la magistratura contabile a doverne definire l’ambito applicativo ed i relativi confini.

Allorquando trattasi di vicende attinenti a procedimenti ad evidenza pubblica, il riferimento normativo privilegiato può rinvenirsi certamente nell’art. 16, d.lgs. 36/2023 (in armonia con il principio della fiducia); per i fatti oggetto della vicenda che qui analizziamo, invece, nell’abrogato art. 42, d.lgs. 50/2016 e s.m.i.

L’art. 42, comma 2, d.lgs. 50/2016 e s.m.i., con valenza anche nella fase esecutiva dei contratti pubblici, dispone che “Si ha conflitto d’interesse quando il personale di una stazione appaltante o di un prestatore di servizi che, anche per conto della stazione appaltante, interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di concessione. In particolare, costituiscono situazioni di conflitto di interesse quelle che determinano l’obbligo di astensione previste dall’articolo 7 del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62”. Al successivo comma 3 è esplicitato che il personale che versa nelle ipotesi di cui al precedente comma 2 è tenuto a darne comunicazione alla stazione appaltante, ad astenersi dal partecipare alla procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni e che la mancata astensione costituisce “fonte di responsabilità disciplinare a carico del dipendente pubblico”.

Sussiste un preciso obbligo di vigilanza in capo alla stazione appaltante affinché essa accerti che gli adempimenti prescritti dalla norma siano puntualmente rispettati; viceversa, secondo le previsioni della disciplina generale del procedimento amministrativo, il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endo-procedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi.

Si tratta di una serie di previsioni che, in alternativa al tradizionale modello sanzionatorio fondato su forme di tutela repressiva, è ispirata ad anticipare proprio la soglia di tutela dell’azione amministrativa con lo scopo di prevenire i fenomeni legati alla corruzione (si badi bene, non vi è una necessaria coincidenza tra conflitto di interessi e corruzione) e che nel settore delle procedure ad evidenza pubblica garantisce la parità di trattamento degli operatori economici.

Così descritto lo scenario giuridico di riferimento, quale è stato il motivo che ha originato il procedimento innanzi alla magistratura contabile nei confronti di un responsabile amministrativo?

La narrativa dei fatti presenta degli aspetti peculiari che possono così di seguito essere riassunti.

La lite, infatti, attiene all’accertamento della sussistenza di una responsabilità erariale per una (presunta) condotta dolosa causativa di un danno per un Comune cagionato, secondo la prospettazione della procura, dalla mala gestio di un rapporto amministrativo avente ad oggetto un’area del cimitero comunale; al dipendente comunale convenuto in giudizio, infatti, veniva contestato di aver percepito denaro dalla famiglia e di aver adottato un successivo atto di concessione (in favore di un terzo, prossimo congiunto) illegittimo in quanto viziato da conflitto di interesse ed in difetto di procedura comparativa, omettendo di darne avviso pubblico.

L’assenza della procedura selettiva avrebbe causato, dunque, un vantaggio patrimoniale ingiusto in capo alla responsabile del settore amministrativo, dando origine, altresì, ad un procedimento penale.

La pronuncia del giudice contabile è puntuale ed articolata allo stesso tempo, ed è riassumibile in meno di 8 parole: “Il conflitto di interessi non risulta pienamente dimostrato”.

L’elemento motivazionale che qui rileva sotto tale profilo poggia su due elementi: il provvedimento amministrativo (atto concessorio della cappella in favore di terzi) era illegittimo perché basato su una concessione cimiteriale priva di effetti perché scaduta; nel corso della trattazione del giudizio era emerso, altresì, che non sussisteva alcun diritto dei parenti della responsabile convenuta riguardo alla cappella al momento della condotta, parentela non rientrante nella nozione di “prossimi congiunti” di cui all’art. 307 c.p.

L’ulteriore profilo meritevole di richiamo è la questione dell’omessa avvio della procedura comparativa: correttamente la Corte ha ravvisato, anche in tal caso, l’assenza di comprova della condotta foriera del danno, precisando che “eventuali privati che si fossero ritenuti lesi sotto il profilo della concorrenza, per non aver potuto ottenere la cappella in concessione, avrebbero ben potuto impugnare dinanzi al TAR la determina … per farla annullare per carenza di previa procedura comparativa ed ottenere così piena soddisfazione dei loro diritti”.

Assume, conclusivamente, un rilievo particolare il principio di diritto dedotto dalla Corte, che suona come un eco alla correttezza dell’operato svolto dal convenuto nel caso di specie: “La mera rilevazione di un conflitto di interessi potenziale non basta, quindi, a dimostrare la sussistenza di un danno erariale, ove il medesimo non si sia tradotto in una concreta lesione del principio di concorrenza”.

Non può sottacersi che la vicenda presenta notevoli spunti riflessivi in una tematica, quella del conflitto di interessi, che deve sorreggere sempre e comunque l’attività e l’organizzazione amministrativa; tuttavia, come ben evidenziato dal Giudice contabile, occorre pur sempre dimostrare la sussistenza di un danno erariale secondo i tradizionali criteri onde garantire l’efficienza della tutela giudiziale e la salvaguardia degli interessi pubblici.

Corte dei Conti Sez. giuris. Umbria, 8 gennaio 2023, n. 1


Il Green Public Procurement (GPP) e la transizione ambientale

green public procurementIl Green Public Procurement (GPP), letteralmente acquisti pubblici verdi, costituisce uno strumento di politica ambientale che favorisce lo sviluppo di un mercato di prodotti e servizi a ridotto impatto ambientale contribuendo, in maniera significativa, al raggiungimento degli obiettivi principali delle strategie europee che fanno leva sull’economia circolare.

Introdotto in Italia nel 2008 con il cd. “Piano d’azione nazionale GPP”, il GPP si inserisce nella strategia del consumo e produzione sostenibile attraverso l’adozione di quelli che, comunemente, sono definiti criteri ambientali minimi, differenziati per categoria, e che trovano nella Pubblica amministrazione il soggetto deputato a promuoverne l’utilizzo mediante gli acquisti.

Sin dall’approvazione del Libro Verde “Gli appalti pubblici nell’Unione Europea” del 1996, la Commissione europea ha mostrato una crescente attenzione verso la politica di protezione dell’ambiente negli appalti pubblici, considerando che “la tutela dei valori ambientali può avvenire nel quadro delle prescrizioni tecniche riguardanti le caratteristiche dei lavori, delle forniture o dei servizi oggetto degli appalti, vale a dire delle specifiche tecniche che gli organismi acquirenti devono indicare nei documenti generali degli appalti e dalle quali i partecipanti devono conformarsi, secondo quanto disposto dalle direttive” (sub par. 5.49).

Dette politiche si innestano nello strumento del Green Public Procurement – GPP, definito come “l’approccio in base al quale le Amministrazioni Pubbliche integrano i criteri ambientali in tutte le fasi del processo di acquisto, incoraggiando la diffusione di tecnologie ambientali e lo sviluppo di prodotti validi sotto il profilo ambientale, attraverso la ricerca e la scelta dei risultati e delle soluzioni che hanno il minore impatto possibile sull’ambiente lungo l’intero ciclo di vita”.

Come si scorge nella definizione, beni e servizi devono essere valutati tenendo in considerazione l’intero ciclo di vita, dalla composizione dei materiali fino alle modalità di utilizzo e smaltimento o riciclo.

Successivamente, la Commissione ha elaborato la comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo COM(2003) del 18/6/2003, ponendo l’esigenza di integrazione delle esigenze ambientali negli appalti pubblici attraverso appositi piani di azione, allo scopo di “dare impulso politico al processo di attuazione delle misure necessarie a favorire una maggiore considerazione degli aspetti ambientali negli appalti pubblici e alle iniziative di sensibilizzazione, consentendo agli Stati membri di scegliere le soluzioni che più si adattano al loro quadro politico e al livello già raggiunto, e permettendo contemporaneamente lo scambio delle migliori pratiche in materia” (par. 5.1, riquadro 3, lett. a)).

Sulla scorta di tale comunicazione, è stato poi approvato il “Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione”, atto d’origine dei cd. CAM.

Dei criteri ambientali minimi abbiamo ripetutamente affrontato gli aspetti critici che si rinvengono da un quadro normativo particolarmente complesso; in questa news, ad esempio, abbiamo esaminato la questione della portata escludente della clausola inerente i CAM in un appalto di servizi manutentivi.

La vicenda giudiziale che qui si affronta, invece, merita una riflessione che va ben oltre la questione di merito affrontata dal Giudice amministrativo campano, poiché involge proprio l’importanza della promozione degli strumenti del GPP negli appalti pubblici e degli obiettivi che, tramite esso, si devono perseguire, nonché il ruolo che l’Amministrazione è chiamata a svolgere affinché la transizione ambientale sia realmente compiuta.

La controversia, infatti, è relativa ad un appalto che ha ad oggetto un servizio di global service relativo ai beni di proprietà di una Pubblica amministrazione, nell’ambito della quale il ricorrente censura proprio la lex specialis di gara, lamentando la condotta dell’Amministrazione che, a suo dire, concretamente, non avrebbe proceduto a dare concreta ed articolata applicazione alle regole ambientali.

Da tale premessa, il Giudice amministrativo ha colto l’occasione per svolgere un excursus dell’evoluzione della disciplina, confermando la “valenza cogente delle prescrizioni in tema di criteri ambientali minimi”, salvo poi interrogarsi sul contenuto dell’obbligo delle stazioni appaltanti e, quindi, di stabilire quale attività è ad esse imposte in ossequio agli obblighi normativi.

Il Giudice amministrativo ha sancito, innanzitutto, che non è sufficiente un mero richiamo alla normativa, bensì, l’importanza delle politiche ambientali del GPP e delle finalità ad esse collegate richiede un maggior sforzo (sempre inteso in termini di doverosità) da parte della Pubblica amministrazione in chiave di attuazione del principio del risultato, fissato dall’attuale art. 1, d.lgs. 36/2023, che può valere “come criterio orientativo per i casi … in cui debba essere risolto il dubbio sulla sorte della legge di gara”.

Così si esprime, infatti, il Giudice amministrativo: “Detto principio … può essere declinato in termini che pongano l’accento sull’esigenza di privilegiare l’effettivo e tempestivo conseguimento degli obiettivi dell’azione pubblica, prendendo in considerazione i fattori sostanziali dell’attività amministrativa, escludendo che la stessa sia vanificata, in tutti quei casi in cui non si rinvengano obiettive ragioni che ostino al suo espletamento … In altri termini, nell’analisi dei casi concreti va considerata l’esigenza di garantire il conseguimento dell’obiettivo dell’azione pubblica (con il riconoscimento del prioritario interesse al pronto raggiungimento delle finalità dell’appalto)”.

Muovendo da tale considerazione, ben si può delineare l’importanza del GPP nell’attuazione delle politiche di transizione ambientale: se la Pubblica amministrazione rappresenta il soggetto deputato, in via prioritaria, a perseguire gli obiettivi di miglioramento della sostenibilità ambientale, ben si comprende come ad essa viene chiesto di operare in maniera concreta ed attuale affinché le misure normative siano impattanti nell’apparato organizzativo e produttivo del Paese e, dunque, nel sistema di acquisto di beni e servizi collettivi. Viceversa, ove l’Ente pubblico dovesse disattendere il rispetto del principio di tutela ambientale in disarmonia con i discendenti obblighi comunitari, ciò si risolverebbe in un’alterazione del libero gioco della concorrenza e delle pari opportunità di accesso al mercato delle piccole e medie imprese e, nondimeno, nella violazione del principio della fiducia che, oggi più che mai, governa l’operato amministrativo.

TAR Campania, Sez. I, 15 gennaio 2024, n. 377


Requisiti soggettivi del proponente di un impianto di produzione di energia rinnovabile: quali sono?

La risposta al quesito è offerta da un’interessante pronuncia del Tar Campania che, nell’ambito di una controversia insorta tra il Comune ove l’impianto dovrebbe sorgere e l’Ente regionale, è stato investito di una controversia afferente il provvedimento di autorizzazione integrata ambientale per la realizzazione di un impianto di produzione di biometano con successivo compostaggio per l’ottenimento di compost.

La realizzazione di impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile (biometano nel caso qui affrontato), al pari di quelli di gestione dei rifiuti, risentono sempre della cd. “sindrome nimby”, un acronimo anglosassone che denota come le collocazioni impiantistiche di tale genere sono sempre sfavorite rispetto al luogo ove si vive (qui il link della precedente news in cui affrontiamo il tema del principio di prossimità).

Nel caso che qui esaminiamo, invece, il Giudice amministrativo si interroga sui requisiti soggettivi che un operatore economico deve possedere per poter realizzare e gestire un impianto per la produzione di biometano con una successiva fase di compostaggio per l’ottenimento di compost di qualità (per un approfondimento su cosa sia il compost si rinvia a questo link).

Il motivo della censura che merita l’approfondimento è quello delle caratteristiche soggettive attinenti il cd. “proponente” ovvero colui che ha proposto la realizzazione dell’impianto e, a seguito dell’autorizzazione, preposto alla relativa gestione: secondo l’Amministrazione comunale, infatti, nel caso esaminato dal Tar campano, sarebbe controversa la legittimità degli atti autorizzativi rilasciati dalla Regione poiché la Società difetterebbe dei requisiti necessari per lo svolgimento dell’attività di gestione e produzione di energia da fonti rinnovabili.

Secondo la prospettiva dell’Ente civico, la Società, laddove interessata a richiedere l’autorizzazione per la produzione dell’energia (bioetanolo), svolgendo attività di servizi di ingegneria e non anche la gestione di impianti produttivi, sarebbe priva del requisito richiesto dall’art. 12, d.lgs. 387/2003 e s.m.i., il quale prescriverebbe che l’autorizzazione integrata ambientale provenga ineludibilmente da chi rivesta anche la qualità di “gestore” di analogo impianto.

Secondo il Tar campano, le censure non possono essere accolte visto che l’errore di fondo risiede nell’applicare alla disciplina autorizzativa-ambientale quella delle procedure ad evidenza pubblica.

La ricostruzione operata dal Giudice amministrativo pone in risalto il principio della libera iniziativa economica, pervenendo ad un’interpretazione condivisibile e corretta della complessa normativa di settore: ed infatti, così si esprime il Tar campano: “va rilevato che l’assunto ricorsuale non è affatto confermato dal dato testuale del D.Lgs. 387/2003 che, all’opposto … si riferisce al “proponente” allorquando, nell’ambito della disciplina afferente alla realizzazione di impianti alimentati a biomassa, ivi inclusi gli impianti a biogas e gli impianti per produzione di biometano di nuova costruzione, richiede che tale soggetto dimostri, nel corso del procedimento e comunque prima dell'autorizzazione, la disponibilità del suolo su cui realizzare l'impianto. A ben vedere … non si rinviene alcun riferimento specifico ai requisiti del “gestore” … dovendosi all’opposto rilevare che nella nomenclatura generale riportata dall’art. 1 del citato d.lgs. tale terminologia è riferita al gestore della rete (GSE) e di rete (distributore con obbligo di connessione dei terzi), e, dunque, a figure ben diverse e distinte dall’operatore economico che gestisce il singolo impianto di biometano.

 Cade, dunque, l’indimostrato assunto attoreo per cui il “gestore” sarebbe “(unico) destinatario della disciplina. Non esiste alcun riferimento ad un soggetto diverso” … Tale diversa terminologia, del resto, appare del tutto coerente con i principi di libertà dell’iniziativa economica, non potendosi estendere alla fase di “prima richiesta” i requisiti del gestore …  che presuppongono un impianto già esistente”.

Ad analoghe considerazioni si addiviene ove si consideri che anche le linee guida regionali alla predisposizione e presentazione della domanda di autorizzazione integrata ambientale definiscono il “proponente” come “il soggetto pubblico o privato che elabora il piano, programma o progetto soggetto alle disposizioni del presente decreto”; e il “gestore” come “qualsiasi persona fisica o giuridica che detiene o gestisce, nella sua totalità o in parte, l'installazione o l'impianto oppure che dispone di un potere economico determinante sull'esercizio tecnico dei medesimi”, sottendendo tali definizioni il riferimento a soggetti distinti, senza che vi sia necessità che il proponente, all’atto della domanda, figuri anche come “gestore”.

Si ricava che alcun requisito soggettivo in tal senso sussiste nella normativa vigente ispirata, altresì, al principio di proporzionalità tesa ad evitare che requisiti elevati di qualificazione possano pregiudicare, in astratto, il rilascio delle autorizzazioni uniche ambientali.

Dunque, dalla citata pronuncia emerge chiaramente che la distinzione fa leva, per un verso, sulle caratteristiche proprie degli operatori economici coinvolti nei procedimenti amministrativi complessi, per altro verso, su un principio, quello di libertà di iniziativa economica (per come apprezzabile dalla Costituzione), la cui corretta interpretazione ed applicazione non potrà mai tradursi in una ingiustificata limitazione della libertà ed esercizio di attività lavorativa laddove compatibile con la tutela ambientale.

Tutela, come ormai emerge nella prassi, che necessita di regole stringenti, ma che non può sfociare in un divieto assoluto, pena lo sviluppo del tessuto produttivo, economico e sociale, oltre che ambientale di sviluppo sostenibile.

TAR Campania Sez. V, 25 settembre 2023, n. 5193


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Abbandono o deposito di rifiuti: chi provvede alla rimozione?

In caso di abbandono o deposito incontrollato dei rifiuti in un terreno o in un'area è alquanto complicato individuare il soggetto cui compete di procedere alla rimozione e smaltimento dei rifiuti.

La giurisprudenza amministrativa, ogni qualvolta è stata chiamata a dirimere controversie concernenti l'abbandono di rifiuti, ha da sempre espresso un principio chiave: la tutela dell'ambiente apprestata dall'ordinamento giuridico impone un obbligo di ripristino dei luoghi al fine di scongiurare che l'evento dannoso possa arrecare un pregiudizio serio ed irreparabile all'ambiente, oltre che alle generazioni future.

In precedenza, ci siamo occupati di come l'ordinamento giuridico si preoccupi di tutelare il cd. "diritto ad un ambiente salubre" (qui il link per una consultazione integrale della notizia) in un'ottica di prospettiva di crescita economica e sociale dell'uomo in generale.

Nel caso che qui affrontiamo, invece, torniamo a discutere del tema delle responsabilità proprie allorquando su di un'area privata (l'esatta qualificazione del sito non varia anche qualora il bene sia pubblico) viene riscontrata la presenza di rifiuti abbandonati o depositati illecitamente.

In questi casi, solitamente, l'Autorità preposta alla vigilanza è tenuta ad emanare un ordine di ripristino mediante rimozione e smaltimento dei rifiuti: nel caso esaminato, l'ordine è emesso da parte del Sindaco del Comune ove insiste l'area in forza dei poteri di ordinanza contingibile ed urgente ex art. 50, d.lgs. 267/2000 e s.m.i., recante "Competenze del sindaco e del presidente della provincia" trattandosi di un esempio classico di emergenza sanitaria o di igiene pubblica in relazione "all'urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente".

I destinatari di tale ordine, solitamente, sono quei soggetti che risultano titolari di diritti reali di godimento dei beni ove l'abbandono o il deposito si è verificato, salvo il caso in cui il trasgressore sia prontamente individuato (caso ancora diverso è quello della la società che esercita l’attività pericolosa, dichiarata fallita, di cui abbiamo parlato in questa news).

Orbene, nel caso esaminato l'ordinanza individuava quali soggetti obbligati alle operazioni di rimozione e smaltimento dei rifiuti, sia i comproprietari del terreno, sia il gestore della rete elettrica, quale titolare di una servitù di elettrodotto.

A fronte dell'ordinanza sindacale, le parti insorgevano innanzi al Giudice amministrativo, reclamando l'illegittimità dell'ordine di rimozione e smaltimento dei rifiuti per diversi ordini di motivi, di cui:

  • uno concernente il difetto di partecipazione dei soggetti interessati nel corso dell'istruttoria, i quali eccepivano la violazione del principio del contraddittorio desumibile dall'art. 192, comma 3, d.lgs. 152/2006 e s.m.i., per l'accertamento di eventuali responsabilità derivanti dall'abbandono dei rifiuti;
  • un altro il difetto di istruttoria poiché, a ragion del gestore della rete, esso era da ritenersi estraneo agli addebiti mossi dall'Ente civico.

Il giudice amministrativo, previo richiamo della normativa di settore, ha ritenuto fondato il ricorso, annullando di conseguenza gli atti e provvedimenti impugnati.

Occorre osservare che l’art. 192, comma 3, d.lgs. 152/2006 e s.m.i., disciplina il divieto di abbandono dei rifiuti, stabilendo in termini generali che "l'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati" e, specificatamente, che “Fatta salva l’applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.

Dal dato testuale della disposizione emerge che:

  • alla rimozione dei rifiuti è tenuto il responsabile dell’abbandono o del deposito dei rifiuti;
  • in via solidale è tenuto il proprietario o chi abbia a qualunque titolo la disponibilità ove ad esso sia imputabile l’abbandono dei rifiuti a titolo di dolo o colpa;
  • non è configurabile una responsabilità oggettiva a carico del proprietario o di coloro che a qualunque titolo abbiano la disponibilità dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti.

Sulla scorta di tali considerazioni, il Giudice amministrativo ha acclarato che "Si deve ... censurare l’operato dell’Amministrazione ogni qualvolta essa ometta di dedurre, in concreto e in assenza di accertamenti eseguiti in contraddittorio con i soggetti interessati, profili di responsabilità a titolo di dolo o colpa in capo al soggetto sanzionato, essendo essi necessari per imporre l’obbligo di rimozione dei rifiuti".

Dunque, secondo la prospettiva del Tar pugliese, l'ordinanza di rimozione dei rifiuti (ed il potere amministrativo esercitato) soggiace a due elementi fondamentali:

  • non è sufficiente, ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento, il presupposto della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la sussistenza dell’elemento psicologico;
  • è necessario l’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.

L'assenza di tali condizioni determina, nel caso di specie, l'illegittimità dell'ordine di rimozione ove riferito, specificatamente, al gestore della rete elettrica, titolare di un diritto di servitù che si occupa della corretta manutenzione e del funzionamento dell'impianto di trasporto dell'energia. Il Tar, in particolare, ha evidenziato, anche sulla scorta della tipologia dei rifiuti presenti nell'area (residui di opere edili che, come tali riconducibili ad attività svolta da terzi), che l'esistenza di una posizione giuridica (servitù di elettrodotto) non costituisce prova della colpevolezza.

Il Giudice amministrativo ha ritenuto insufficiente quanto acclarato dall'Ente lil quale si è limitato ad allegare un generico riferimento alla posizione del gestore della rete quale titolare di diritti reali, nonché di soggetto responsabile della rimozione completa dei rifiuti abbandonati nelle aree individuate sul suolo, evidenziando, quanto all'elemento psicologico della colpa, che "non può ravvisarsi nel fatto che la società abbia la gestione dell’elettrodotto sotto al quale insiste la porzione di terreno sul quale sono stati trovati i rifiuti (circostanza invero nemmeno tracciata nell’atto impugnato, ma desumibile dagli atti di causa). Infatti ... l’obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato".

Appare evidente, pertanto, che la condotta omissiva descritta dall'art. 192 Codice dell'ambiente, affinché sia legittimamente configurabile, necessita di un accertamento o una dimostrazione dell'elemento psicologico che impone una completa istruttoria e un'esauriente motivazione che, nel caso evidenziato, sono stati omessi e disattesi.

La rigidità di tale interpretazione, per un verso, depone a favore di coloro che sono "non colpevoli" dell'abbandono dei rifiuti, per altro verso, rischia di pregiudicare la tutela ambientale nei casi in cui diviene difficile individuare, con estremo rigore, l'autore dell'illecito dell'abbandono.

TAR Puglia Sez. I, 15.2.2023, n. 309