La rilevanza dei settlement nel private enforcement antitrust
La rilevanza dei settlement nel private enforcement antitrust
Le procedure di settlement nel contesto delle violazioni antitrust costituiscono un accordo transattivo tra le imprese coinvolte, al fine di chiudere il procedimento istruttorio in modo rapido, spesso con una riduzione della sanzione pecuniaria.
L’ordinamento italiano ha recepito solo di recente l’istituto del settlement con l’art. 34 della Legge 118/2022, che ha introdotto all’art. 14-quater della Legge Antitrust (L. 287/1990) la c.d. “procedura di transazione”. In base a questa disposizione, le imprese coinvolte in violazioni antitrust possono riconoscere la loro partecipazione all’illecito in cambio di una riduzione della sanzione, applicabile non solo ai cartelli (come accade a livello europeo), ma anche agli abusi di posizione dominante. L'AGCM, con Comunicato del 16 maggio 2023, ha delineato le modalità applicative di questo nuovo strumento, in linea con il modello comunitario.
Una delle questioni legate al settlement riguarda il valore probatorio dei settlement nelle azioni di private enforcement, ossia nei procedimenti civili in cui i privati cercano di ottenere il risarcimento del danno subito a causa della violazione del diritto della concorrenza.
Che tipo di rilevanza hanno i settlement ai fini del private enforcement antitrust?
La questione è stata oggetto di una recente pronuncia del Tribunale di Napoli.
Una società di trasporti, che aveva acquistato un autocarro in leasing nel 2003, ha citato in giudizio il produttore dell’autocarro, facendo riferimento a una decisione della Commissione Europea del 2016 che sanzionava alcune case produttrici per partecipazione a un cartello sui prezzi degli autocarri. La decisione, resa a seguito di una procedura di settlement che dunque includeva l’ammissione di responsabilità da parte delle imprese coinvolte.
L’attrice ha sostenuto che, in base al settlement, poteva presumersi il subito un danno economico causato del sovrapprezzo pagato per l'acquisto dell'autocarro, calcolato come la differenza tra il prezzo effettivo e il prezzo che sarebbe stato applicato in condizioni di libera concorrenza
Richiamandosi al D.lgs. 3/2017, che recepisce la Direttiva 2014/104/UE, ha argomentato che la decisione della Commissione Europea costituisce una prova privilegiata della violazione e che l’esistenza del danno cagionato da una violazione del diritto alla concorrenza, consistente in un cartello, si presume (presunzione juris tantum).
Sulla base di tali premesse, la società ha chiesto la condanna della società convenuta al risarcimento dei danni in suo favore cagionati dall'intesa anticoncorrenziale con riferimento al cd. sovrapprezzo.
La convenuta ha eccepito la prescrizione dei diritti risarcitori e ha sollevato questioni di diritto europeo e costituzionale. Ha contestato la rilevanza della decisione della Commissione Europea e la sussistenza di un nesso causale tra l'accordo anticoncorrenziale e i presunti danni reclamati. Inoltre, ha sostenuto che la società attrice avrebbe potuto trasferire il sovrapprezzo ai propri clienti finali, riducendo così il danno subito (c.d. passing on defense).
La Corte, pur riconoscendo l’effetto probatorio della decisione della Commissione per dimostrare la violazione antitrust, ha ritenuto infondata la domanda risarcitoria della società attrice.
Il Tribunale, rifacendosi all'orientamento consolidato in giurisprudenza e confermato di recente dalla Cassazione (Cass. civ., sez. I, 28 febbraio 2024, n. 5232), riconosce che gli addebiti mossi nel contesto di un procedimento di settlement e, in particolare, quelli che siano stati espressamente ammessi dall’impresa coinvolta, possiedono valore probatorio di indizio o persino di principio di prova dell’illecito anticoncorrenziale, in conformità all'articolo 101.1 TFUE. Ciò significa che, in un contenzioso civile per il risarcimento dei danni derivanti da pratiche anticoncorrenziali, gli addebiti accettati nell'ambito del settlement possono essere considerati un indizio significativo della violazione.
L’effetto probatorio trova fondamento nel principio di leale cooperazione (art. 4.3 TUE) e nell’obiettivo di garantire un'applicazione uniforme ed efficace del diritto della concorrenza a livello dell'Unione. Pertanto, i giudici nazionali devono tenere conto della valutazione preliminare della Commissione Europea anche quando si tratta di procedimenti civili per risarcimento danni, integrando le risultanze dell'AGCM come prova privilegiata per accertare la violazione.
Tuttavia, il Tribunale chiarisce che tale valenza probatoria si limita alla verifica dell'esistenza di una violazione antitrust e non estende automaticamente il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, che deve comunque essere provato dal danneggiato. In particolare, in linea con l’art. 7 del d.lgs. 3/2017, il giudice civile può considerare il provvedimento dell'AGCM come prova della natura, della portata materiale, personale, temporale e territoriale della violazione, ma non del nesso di causalità o dell’effettivo danno subito.
La normativa italiana, recependo la Direttiva 2014/104/UE, stabilisce inoltre che, nel caso in cui il convenuto contesti che il danno è stato trasferito a terzi (cosiddetto "passing-on defense"), egli ha l'onere di dimostrare l'entità e l'esistenza di tale trasferimento, anche ricorrendo alla richiesta di esibizione di documenti all'attore o a terzi (D.lgs. n. 3/2017, art. 11). Questa disposizione mira a garantire una difesa equilibrata, permettendo al convenuto di opporre il trasferimento del sovrapprezzo al fine di ridurre l'importo del risarcimento richiesto.
Il Tribunale affronta la questione del "passing on" sollevata dalla parte convenuta, secondo cui il sovrapprezzo derivante dall’illecito anticoncorrenziale è stato trasferito dalla società attrice ai propri clienti a valle. In questo contesto, il Tribunale ha ordinato all'attrice di esibire una serie di documenti contabili e fiscali per consentire l'analisi della formazione dei prezzi dei servizi offerti e verificare l’effettiva incidenza del sovrapprezzo. Nonostante l’ordine di esibizione, l'attrice non ha prodotto la documentazione richiesta, né ha fornito una giustificazione valida per l’omissione.
Richiamando l’art. 8, comma 2, della Direttiva 104/UE e l’art. 6 del D.lgs. 3/2017, il Tribunale ha applicato il principio secondo cui, in assenza di collaborazione nella produzione documentale da parte dell’attrice, il giudice può trarre conclusioni negative, ovvero considerare provati i fatti a cui la prova si riferisce.
Nel caso specifico, il Tribunale ha ritenuto che, data la natura dell’attività dell'attrice, fosse plausibile che il sovrapprezzo fosse stato trasferito interamente ai clienti a valle. Di conseguenza, il Tribunale ha concluso che la domanda di risarcimento dell’attrice fosse infondata, poiché non era stata fornita la prova di un danno economico effettivo derivante dal sovrapprezzo, ritenendo pertanto che il risarcimento non potesse essere liquidato in misura superiore al danno effettivamente subito.
La sentenza del Tribunale di Napoli evidenzia la rilevanza dei settlement come strumenti probatori nel private enforcement antitrust, pur con i necessari limiti. Il valore indiziario del settlement consente di accertare l’esistenza di una violazione, ma non esonera il richiedente dall'onere di dimostrare l’effettivo danno subito e il nesso di causalità. Questo equilibrio permette di sfruttare l'efficacia probatoria delle decisioni antitrust, mantenendo però una rigorosa verifica sull'effettivo pregiudizio economico subito dal danneggiato.
Trib. Napoli, Sez. Imprese 26.7.2024, n. 7433
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Green claim nel settore della mobilità: attenzione alle pratiche commerciali scorrette
Green claim nel settore della mobilità: attenzione alle pratiche commerciali scorrette
Tempo fa abbiamo discusso del tema dei green claim, ossia delle pratiche commerciali volte a orientare le scelte dei consumatori verso opzioni più sostenibili, e del fenomeno del greenwashing, che si verifica quando queste comunicazioni vengono utilizzate per creare un'immagine falsamente ecologica di prodotti, servizi o politiche aziendali.
Abbiamo esaminato il loro ruolo nella tutela dei diritti dei consumatori e i rischi per le aziende che ne fanno uso, approfondendo la nuova Direttiva UE 2024/825 sulla “la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione” e di alcune pronunce dell’AGCM che si sono soffermate sul tema.
Torniamo a parlare dell’utilizzo dei green claim, questa volta con riferimento ad alcune tipologie di servizi: i servizi di mobilità.
La pratica commerciale contestata riguarda l'introduzione della clausola denominata “Clean Air Fee” (o “quota aria pulita”) nella piattaforma di prenotazione taxi, che determinava l’addebito di un costo ulteriore del servizio.
Secondo l’AGCM, l’uso di questo claim è risultato ambiguo, suggerendo benefici ambientali vaghi e non verificabili, violando così le norme a tutela del consumatore. La società è stata quindi sanzionata per violazione degli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo, ritenendo che la presentazione di tale costo aggiuntivo fosse ingannevole e non chiara per i consumatori, con una multa di 400.000 euro e obbligata a modificare le informazioni rese al pubblico.
In particolare, il messaggio pubblicitario non spiegava in modo trasparente la natura, le finalità e le modalità di addebito del sovrapprezzo, inducendo i clienti a credere che fosse obbligatorio e legato a vantaggi ambientali non specificati.
L’Antitrust ha concluso che la società non aveva fornito informazioni sufficienti per consentire ai consumatori di prendere decisioni commerciali consapevoli.
La società di servizi ha così proposto un ricorso innanzi al TAR Lazio sostenendo, in buona sostanza, un errore istruttorio dell’Autorità nell’apprezzare i comportamenti contestati, che avevano comportato una qualificazione errata della condotta tenuta.
Il TAR ha ritenuto infondato il ricorso promosso.
L’aspetto d’interesse della pronuncia è la ricostruzione fornita sull’utilizzo dei green claim.
L'Autorità ha ritenuto che la pratica commerciale della società fosse ingannevole perché la "Clean Air Fee" (quota aria pulita) veniva addebitata in modo poco chiaro. L'importo veniva mostrato solo nella seconda schermata dell'app e non era subito evidente che il consumatore potesse evitare il costo scegliendo il pagamento diretto al tassista. Ciò impediva agli utenti di prendere decisioni commerciali consapevoli fin dal primo contatto.
In pratica, la società non ha fornito le informazioni essenziali con sufficiente trasparenza e immediatezza, violando così il diritto del consumatore a conoscere fin da subito tutte le condizioni economiche dell’offerta. L'Autorità ha evidenziato che le informazioni devono essere fornite in modo chiaro e trasparente, soprattutto quando si usano claim come “Clean Air Fee” che suggeriscono benefici ambientali. È stato quindi considerato ingannevole utilizzare tali messaggi senza spiegare in modo comprensibile al consumatore la reale natura del costo aggiuntivo.
Inoltre, l'Autorità ha sottolineato che è irrilevante se il dettaglio della quota fosse presente in una seconda schermata, perché ciò costringeva il consumatore a uno sforzo informativo ulteriore. Le informazioni chiave devono essere presentate subito, altrimenti si crea un “effetto aggancio” che spinge il consumatore a procedere con la transazione senza essere pienamente consapevole delle condizioni.
Per questi motivi, l'Antitrust ha ritenuto la pratica scorretta e ha respinto i tentativi della società di dimostrare la cessazione della condotta illecita e di ridurre la sanzione, considerando che le modifiche proposte non erano sufficienti a eliminare le criticità.
TAR Lazio, Sez. I, 26.9.2024, n. 16702
Spiagge libere nel Lazio: si a chioschi e noleggio attrezzature?
Spiagge libere nel Lazio: si a chioschi e noleggio attrezzature?
Quali sono i servizi che possono essere gestiti sulle spiagge libere? Che differenza c’è tra spiagge libere e spiagge attrezzate?
La gestione delle spiagge libere e le attività consentite su di esse rappresentano un tema di grande rilevanza per i comuni costieri, soprattutto in relazione alla possibilità di affidare tali spazi a privati gestori.
Nella Regione Lazio, il regolamento regionale 19/2016 disciplina tali aspetti delineano le attività consentite sulle spiagge libere e quelle che possono essere svolte nelle spiagge attrezzate.
Il regolamento ha posto non poche problematiche applicative: la Regione Lazio ha espresso una posizione restrittiva, sostenendo che su tali spiagge devono essere garantiti solo i servizi essenziali, escludendo attività commerciali come la somministrazione di cibi e bevande.
Due recenti sentenze del Consiglio di Stato hanno offerto un'interpretazione più ampia, sottolineando l'importanza di garantire un equilibrio tra la libera fruizione del demanio pubblico e la possibilità di offrire servizi aggiuntivi ai bagnanti.
Chiosco bar e noleggio attrezzature su spiaggia libera: il caso
Nel 2018, un comune del litorale laziale affida la gestione delle spiagge libere a privati durante la stagione balneare, per un periodo massimo di tre anni, attraverso una procedura aperta.
Sia gli atti di gara che lo schema di convenzione proposto consentiva ai gestori di installare chioschi-bar temporanei e noleggiare attrezzature da spiaggia come ombrelloni e lettini.
Tuttavia, dopo che le convenzioni erano già state stipulate, il Comune comunica che, sulla scorta di una nuova interpretazione delle norme regionali, doveva ritenersi consentita la gestione su spiaggia libera dei soli servizi essenziali, come l'assistenza ai bagnanti, la pulizia e i servizi igienici, restando escluse le attività commerciali come il chiosco-bar e il noleggio di attrezzature.
Alcuni gestori hanno contestato la decisione davanti al TAR, sostenendo che la convenzione iniziale permetteva tali attività economiche. Il TAR ha respinto in parte il ricorso, ma ha riconosciuto che la modifica dei servizi offerti richiedeva un atto formale da parte del Comune (sentenza TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, 27.1.2020, nn. 1071 e 1074).
La Regione Lazio - temendo che la sentenza potesse creare un precedente per futuri casi simili - ha proposto appello, sostenendo che la normativa regionale non consentiva l’esercizio di attività commerciali sulle spiagge libere.
Secondo la Regione, in particolare, l’art. 6 Reg. reg. 19/2016 non consente di concedere l'uso delle spiagge libere del demanio marittimo per finalità diverse da quelle espressamente previste dalla norma: permettere tali utilizzi renderebbe indistinguibile l'uso delle spiagge libere da quello delle spiagge libere con servizi, che sono invece date in concessione dietro corrispettivo e con specifiche garanzie.
La Regione, in buona sostanza, ritiene possibile offrire il noleggio di attrezzature balneari su suolo demaniale marittimo anche nelle spiagge libere, con l'unico divieto di svolgere attività commerciali di somministrazione di bevande e alimenti.
La normativa regionale: il Reg. reg. 19/2016
Il nodo centrale della controversia riguarda la corretta interpretazione degli art. 5 e 6 del Reg. reg. n. 19/2016 e, dunque, sulle tipologie di attività che possono essere affidate e svolte dai privati sulle spiagge libere.
L’art. 5 del Regolamento disciplina le c.d. spiagge libere con servizi. Secondo tale norma, le spiagge libere devono offrire vari servizi, tra cui noleggio di attrezzature da spiaggia, punti di ristoro, servizi igienici accessibili, docce, percorsi per persone con disabilità, dispositivi per il risparmio idrico ed energetico, e aree attrezzate per la pulizia e il salvataggio.
Secondo il comma 2 dell’art. 5, su tali spiagge è possibile svolgere attività commerciali (come la vendita di giornali e articoli da mare), offrire servizi di ristoro, organizzare attività di intrattenimento, sport e svago, e predisporre spazi per animali da compagnia.
L’art. 6 del Regolamento stabilisce invece che “Al fine di assicurare i servizi di assistenza, pulizia, salvataggio e altri servizi ritenuti necessari, i Comuni possono stipulare convenzioni di cui all’articolo 7, comma 1 lettera b) e possono consentire l'installazione, per il periodo della stagione balneare, di strutture di superficie coperta massima di 25 metri quadrati realizzate in materiali ecocompatibili e di facile rimozione, e comunque nel rispetto della normativa vigente.”
La norma prescrive altresì il divieto di preposizionamento delle attrezzature balneari. L'organizzazione dei servizi non deve mai ostacolare la libera fruizione delle spiagge. Se questo divieto viene violato tre volte, è considerata una grave inadempienza che può portare alla risoluzione della convenzione da parte del Comune.
La questione principale è capire quali tipologie di servizi possono dirsi rientranti nella locuzione "altri servizi ritenuti necessari" consentiti dall’art. 6 del Regolamento.
La decisione del Consiglio di Stato e l’interpretazione del Reg. reg. n. 19/2016
Secondo il Consiglio di Stato, la locuzione "altri servizi ritenuti necessari" contenuta nell’art. 6 del Regolamento impone di estendere l'ambito delle attività consentite oltre a quelle espressamente menzionate (assistenza, pulizia, salvataggio).
Al fine di stabilire cosa comprendano i "servizi ritenuti necessari" è necessario avere chiara la differenza tra “spiaggia libera" (destinata alla libera fruizione dei bagnanti, dove l'occupazione dell'arenile deve essere temporanea e legata alla balneazione) e la "spiaggia attrezzata" (dove i servizi sono offerti a pagamento da un concessionario) o la spiaggia in "concessione balneare" (dove il concessionario può installare strutture amovibili per i propri clienti).
Il tratto comune tra i diversi tipi di spiagge – secondo i Giudici - è il dovere dell'ente pubblico di tutelare il bene demaniale per un uso sostenibile e sicuro, garantendo l'accesso libero a tutti i membri della collettività, nel rispetto di eventuali vincoli di sicurezza, salute e ambiente, e di eventuali diritti di esclusiva nelle concessioni balneari volte a consentire la fruizione dei servizi di balneazione e di ristoro dietro pagamento di un compenso.
Pertanto, prosegue il Collegio, la distinzione tra i "servizi ritenuti necessari" e le altre attività non consentite su una "spiaggia libera" non deve basarsi sul loro contenuto o carattere commerciale, ma piuttosto sulle diverse modalità di fruizione del bene demaniale. Ciò implica, dunque, che, mentre il noleggio di attrezzature come ombrelloni, sedie, lettini, canoe e pedalò è strettamente legato alla libera fruizione della spiaggia e non è vietato, l'apertura di attività commerciali fisse, come un chiosco bar, richiede un diverso titolo concessorio poiché può precludere la libera fruizione dell'arenile.
In sostanza, in assenza di un divieto normativo espresso, non vi sono ragioni per vietare l'attività di noleggio di attrezzature (ombrelloni, sedie, lettini o piccoli natanti) area pubblica, dato che i cittadini possono già collocare e utilizzare temporaneamente tali oggetti sull'arenile se ne hanno la proprietà o il possesso.
L'interpretazione restrittiva proposta dalla Regione appellante, concludono i giudici, non trova supporto in alcuna norma specifica e non può essere giustificata da esigenze generali di tutela ambientale o di pubblica fruizione delle spiagge libere. Al contrario, tale interpretazione rischierebbe paradossalmente di favorire in modo indebito e anticoncorrenziale gli stabilimenti balneari e i concessionari di spiagge attrezzate, i quali, grazie alla concessione, possono svolgere attività economiche e commerciali in esclusiva. Inoltre, questa posizione finirebbe per avvantaggiare in modo anacronistico quei fruitori delle spiagge pubbliche che possono permettersi di acquistare e trasportare autonomamente cibi, bevande e attrezzature come ombrelloni, sedie e sdraio, a discapito di chi preferirebbe acquistare o noleggiare tali beni direttamente sul posto.
Considerazioni diverse vanno svolte, secondo i giudici, per la somministrazione di alimenti e bevande sulla spiaggia libera. Sebbene questa attività commerciale sia generalmente consentita, nella fattispecie in esame, questa non viene svolta in maniera itinerante, ma tramite l'occupazione permanente di un'area del demanio pubblico, sottraendola così alla libera fruizione dei bagnanti durante le ore dedicate alla balneazione. Per tale occupazione permanente è quindi necessario un apposito provvedimento concessorio che autorizzi l'uso di quella specifica porzione di area demaniale.
Cons. St., Sez. VI, 7.8.2024, n. 7029
Cons. St., Sez. VI, 7.8.2024, n. 7031
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Continuità del possesso dell’attestazione SOA: si applica solo all’aggiudicatario?
Il principio di continuità del possesso dei requisiti richiede che l’aggiudicatario mantenga tali requisiti in modo continuativo e ininterrotto dal momento della gara fino alla completa esecuzione del contratto.
Ma come si applica questo principio agli altri concorrenti?
Se, dopo l’aggiudicazione, il secondo in graduatoria subentra ma ha perso temporaneamente i requisiti, deve essere escluso?
Una recente sentenza del TAR Lazio chiarisce un punto importante: il principio di continuità si applica diversamente a seconda che si tratti dell’aggiudicatario o di un altro concorrente.
Partiamo dal caso.
Nell’ambito di una procedura aperta bandita nel novembre 2022, il disciplinare di gara richiedeva tra i requisiti di capacità professionale e tecnica il possesso di attestazione SOA nella categoria OS4 (impianti elettromeccanici trasportatori) per la classifica V.
A seguito di un ricorso promosso dalla seconda graduata, nel 2024 il TAR aveva annullato l’aggiudicazione, con conseguente caducazione del contratto nelle more stipulato e diritto della seconda graduata al subentro nell’esecuzione del servizio.
La commissione aveva così riaperto la gara e riesaminato la graduatoria. Tuttavia, in sede di verifica dei requisiti, la commissione ravvisava un presunto difetto di qualificazione al concorrente subentrante.
In particolare, dopo aver consultato il database delle attestazioni SOA tramite il portale dell’ANAC, aveva rilevato che l’attestazione SOA alla V emessa nel febbraio 2022 e presentata in sede di ammissione alla gara era stata sostituita nel novembre 2023 da una nuova attestazione SOA recante la qualificazione nella classifica IV-bis, inferiore a quella prevista dal bando.
In sede di chiarimenti, la concorrente aveva specificato di essere in possesso del requisito di partecipazione, in quanto nel gennaio 2024 era stata rilasciata un’ulteriore attestazione SOA nella classifica V richiesta dal bando.
La Commissione giudicatrice, tuttavia, non condividendo le argomentazioni della concorrente, la escludeva “a causa della soluzione di continuità nel possesso del requisito minimo di ammissione richiesto” dal disciplinare di gara.
La concorrente ha così impugnato il provvedimento di esclusione sostenendo che il principio di necessaria continuità dei requisiti di partecipazione si atteggia diversamente a seconda che si tratti di aggiudicatario o di altri concorrenti.
Per l’aggiudicatario, è necessario mantenere i requisiti dal momento della gara fino alla definitiva esecuzione del contratto; per gli altri concorrenti i requisiti devono persistere fino all’aggiudicazione.
Seguendo questa interpretazione, la ricorrente sosteneva di essere in possesso del requisito di qualificazione, avendo mantenuto i requisiti di partecipazione dall'inizio della gara fino alla stipula del contratto e alla consegna dell'appalto in capo al soggetto poi escluso a seguito del ricorso al TAR.
In altre parole, la temporanea mancanza della certificazione SOA dopo l’aggiudicazione poi annullata dal TAR non dovrebbe influire, in quanto il principio di continuità dei requisiti si applica solo all’aggiudicatario.
Il TAR ha accolto il ricorso.
Secondo i giudici, il mancato possesso temporaneo della qualificazione SOA non viola il principio di continuità dei requisiti.
Il TAR ha preliminarmente ricordato come secondo giurisprudenza consolidata, i requisiti di ammissione devono essere presenti dalla domanda di partecipazione fino alla conclusione della procedura di gara per garantire trasparenza e certezza del diritto.
Tuttavia, questo principio deve essere bilanciato con i principi di ragionevolezza e proporzionalità, soprattutto in caso di sopravvenuto annullamento dell’aggiudicazione, sicchè “la pur accertata discontinuità nel possesso del requisito, tanto più laddove esso non appartenga all’ambito dei presupposti soggettivi di partecipazione legislativamente tipizzati, non è suscettibile di determinare l’esclusione del partecipante alla gara, quando – vuoi per la durata dell’interruzione, vuoi per altre ragioni – essa non abbia concretamente determinato alcun vulnus all’esigenza dell’Amministrazione di instaurare rapporti contrattuali con soggetti affidabili e qualificati” (così Cons. St, Sez. III, 24 giugno 2021, n. 4844).
Secondo il TAR, dunque, il principio di continuità nel possesso dei requisiti subisce dei temperamenti nei casi in cui la stessa impresa aggiudicataria sia stata temporaneamente sprovvista dei requisiti di partecipazione, nonché nei confronti delle imprese non aggiudicatarie.
Sicché, quando la gara è stata aggiudicata ed il contratto stipulato, “deve differenziarsi la posizione dell’aggiudicatario da quella delle imprese concorrenti collocatesi in posizione non utile. Mentre per il primo, il momento contrattuale costituisce l’appendice negoziale e realizzativa della procedura ed impone il mantenimento, giusto quanto chiarito dalla Plenaria, dei requisiti richiesti e dichiarati in sede di partecipazione, per le seconde la procedura è da considerarsi terminata: l’offerta formulata non è più vincolante nei confronti dell’amministrazione e cessa quel rapporto che si era instaurato con la domanda di partecipazione” (Cons. St., Sez. III, 6.3.2017, n. 1050)
Nel caso di specie, la pendenza del ricorso giurisdizionale, non poteva di per sé comportare l’obbligo di mantenere nella fase processuale il possesso dei requisiti, la cui ratio invece è legata alla necessità di assicurare all’amministrazione l’interlocuzione con operatori in via permanente affidabili, capaci e qualificati. Dopo l’aggiudicazione, tali esigenze di tutela vengono evidentemente meno rispetto alla posizione delle imprese non aggiudicatarie e, in caso di impugnazione del provvedimento conclusivo della procedura, persiste l’interesse dell’Amministrazione al rispetto del principio di continuità limitatamente alla posizione dell’aggiudicatario.
Nel caso di specie, alla riapertura della procedura di gara, avvenuta nel febbraio 2024, la ricorrente era nuovamente in possesso della qualificazione richiesta. Peraltro, il periodo di mancanza della qualificazione è stato breve e non ha compromesso l'affidabilità e la qualificazione dell’impresa.
Risulta dunque rispettato il principio del possesso dei requisiti: alla riapertura della gara in conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione, anche le imprese non aggiudicatarie devono essere in possesso dei requisiti richiesti dalla lex specialis.
Diversamente, infatti, chiosa il TAR, sarebbe irragionevole pretendere “la continuità del possesso per un periodo indefinito (in quanto necessariamente legato alla durata del giudizio), durante il quale non c’è alcuna competizione, alcuna attività valutativa dell’amministrazione e, per giunta, alcun impegno vincolante nei confronti dell’amministrazione”.
Ciò che conta, in definitiva, è che a seguito alla riapertura della gara in conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione, anche le imprese non aggiudicatarie siano in possesso dei requisiti richiesti dalla lex specialis.
TAR Lazio, Sez. IV-ter, 15.5.2024, n. 9614
Project financing: attenzione alla qualificazione delle stazioni appaltanti
Con il parere n. 9/2024 l’ANAC chiarisce alcuni aspetti fondamentali in merito all’applicazione della disciplina del partenariato pubblico-privato contenuta nel Codice 36/2023.
Il caso e i quesiti rivolti all’ANAC
Un’azienda ospedaliera intenzionata a realizzare un nuovo ospedale attraverso partenariato pubblico-privato è sprovvista della qualificazione come stazione appaltante per il settore dei lavori pubblici. L’ Azienda chiede all’Autorità se la mancanza della qualificazione della stazione appaltante consente comunque di avviare una procedura di affidamento di un partenariato e se, la circostanza che l’opera non sia stata inserita nel programma triennale delle esigenze, costituisce un ostacolo alla realizzazione dell’opera e all’avvio della procedura.
La valutazione preliminare di convenienza e fattibilità
Secondo l’ANAC, la valutazione preliminare di convenienza e fattibilità del progetto da finanziare con risorse private costituisce un adempimento preliminare necessario e non derogabile.
In base agli art. 174 e 175 del d.lgs. 36/2023, infatti, le caratteristiche del partenariato pubblico privato e della complessità di tale istituto, impongono, una fase preliminare di valutazione della convenienza e fattibilità dell’operazione, rimessa alla specifica competenza della stazione appaltante.
Tale aspetto è espressamente sancito dall’art. 175, comma 2, d.lgs. 36/2023, secondo cui “il ricorso al partenariato pubblico-privato è preceduto da una valutazione preliminare di convenienza e fattibilità. La valutazione si incentra sull’idoneità del progetto a essere finanziato con risorse private, sulle condizioni necessarie a ottimizzare il rapporto tra costi e benefici, sulla efficiente allocazione del rischio operativo, sulla capacità di generare soluzioni innovative, nonché sulla capacità di indebitamento dell’ente e sulla disponibilità di risorse sul bilancio pluriennale. A tal fine, la valutazione confronta la stima dei costi e dei benefici del progetto di partenariato, nell’arco dell’intera durata del rapporto, con quella del ricorso alternativo al contratto di appalto per un arco temporale equivalente”.
La norma, dunque, spiega l’ANAC, ha l’obiettivo di garantire che la scelta di avvalersi dello strumento del PPP sia basata su approfondite valutazioni in ordine alla sua convenienza e fattibilità, ed evitare da un lato che si intraprendano iniziative non realizzabili e dall’altro che, prendendo in considerazione tutti gli aspetti dell’operazione economica, dette iniziative risultino non convenienti per l’amministrazione.
In tale contesto, secondo l’Autorità, assume rilevanza anche l’art. 63, comma 5, del D.Lgs. 36/2023, che definisce il sistema di qualificazione come il meccanismo che assicura: a) la capacità di progettazione tecnico-amministrativa; b) la capacità di gestire e monitorare l'intero processo di affidamento; c) la capacità di controllo sull'adempimento contrattuale, incluso il collaudo.
Nelle concessioni tramite finanza di progetto, dunque, la valutazione preliminare di convenienza, che coincide con la progettazione, include l'analisi di aspetti giuridici, contabili e finanziari. Le proposte di concessione devono dunque presentare il progetto di fattibilità, la bozza di convenzione, il piano economico-finanziario certificato e i dettagli del servizio. L'ente concedente valuta poi la fattibilità entro 90 giorni, chiedendo eventuali modifiche per l'approvazione. Secondo l'art. 193, comma 3, è il progetto così approvato che viene posto a base per la gara.
Quindi, la valutazione preliminare va oltre la semplice programmazione degli acquisti e rientra nella fase di progettazione tecnico-amministrativa, che deve essere affidata a soggetti qualificati.
La qualificazione della stazione appaltante
Proprio in ragione della necessità che la valutazione preliminare sia affidata a soggetti qualificati, per valutare le proposte di Partenariato Pubblico Privato (PPP), compresa dunque la valutazione preliminare ai sensi dell'art. 193 d.lgs. 36/2023, è richiesta la qualificazione in tutte le fasi di progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti.
Gli articoli 62 e 63 del Codice, dunque, stabiliscono chiaramente che la qualificazione è essenziale per gestire la progettazione, l'affidamento e l'esecuzione di contratti di partenariato pubblico-privato (PPP), ossia attività che devono essere svolte da enti che possiedano specifiche qualificazioni, a causa della complessità giuridica, economica e tecnica che caratterizza i contratti di PPP.
In particolare, poi, il comma 5 dell'articolo 174 del Codice sottolinea che solo enti qualificati possono stipulare contratti di PPP, richiedendo competenze specialistiche per gestirli adeguatamente. Questo è confermato dalla Relazione Illustrativa del Codice, che descrive i contratti di PPP come particolarmente complessi e necessitanti di una gestione esperta.
In tale contesto, proprio la delibera n. 441/2022 dell'Autorità, che stabilisce le linee guida per il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti e delle centrali di committenza, ribadisce che la qualificazione è obbligatoria per chi intende gestire contratti di PPP. Questo si riflette anche nella regolamentazione dettagliata, come mostrato dall'Allegato II.4 del Codice, che impone specifici livelli di qualificazione per assicurare la corretta esecuzione di questi contratti.
L'art. 62, comma 18, del d.lgs. 36/2023, specifica ulteriormente che la progettazione, l'affidamento e l'esecuzione di contratti di PPP devono essere gestiti da soggetti con un livello di qualificazione definito dall'art. 63, comma 2, lettere b) e c), confermando la necessità di un'alta specializzazione.
In sintesi, il Codice richiede che ogni fase del processo di PPP sia condotta da enti con la dovuta qualificazione, senza possibilità di suddivisione del procedimento tra diverse entità non qualificate. Ciò assicura che la complessità dei contratti di PPP sia gestita con la massima competenza e professionalità, nel rispetto delle normative vigenti e a tutela degli interessi pubblici coinvolti.
Parere ANAC 28 febbraio 2024, n. 9
Green claims e greenwashing: attenzione alle pratiche commerciali scorrette
Green claims o enviromental claim sono sempre più diffusi nelle strategie di marketing e nelle pratiche commerciali delle aziende.
Tuttavia l’utilizzo non corretto di tali pratiche rischia di sfociare nel c.d. greenwashing, con conseguente rischio di sanzioni da parte dell’AGCM per l’adozione di pratiche commerciali scorrette.
Il tema è di assoluta attualità non solo nella gestione delle dinamiche concorrenziali e promozionali delle aziende ma anche perché è al centro delle stesse politiche dell’Unione Europea.
In questo articolo vediamo come nell’ambito della tutela del consumatore il tema del green claim e del greenwashing assumono un ruolo importante e quali sono i rischi per le aziende che utilizzano tali pratiche, attraverso l’analisi di un recente provvedimento dell’AGCM in cui si è trattato di questi temi.
Green claims e greenwashing: di cosa si tratta
Il concetto di green claim o environmental claim si riferisce alle pratiche commerciali promozionali fatte da aziende e organizzazioni riguardo l'impatto ambientale dei loro prodotti, servizi o pratiche operative. Si tratta di affermazioni che possono riguardare vari aspetti della sostenibilità, come l'efficienza energetica, l'utilizzo di risorse rinnovabili, la riduzione delle emissioni di carbonio, la gestione dei rifiuti, le politiche di approvvigionamento sostenibile e le iniziative per la conservazione dell'ambiente.
Tali pratiche commerciali sono tese essenzialmente ad a influenzare le scelte di acquisto dei consumatori verso opzioni più sostenibili.
Quando la divulgazione di informazioni di questo tipo è utilizzata per dare l'impressione che i prodotti, servizi o politiche aziendali siano più ecologici o sostenibili di quanto lo siano in realtà si parla di greenwashing.
Il greenwashing può avvenire attraverso diverse forme, attraverso pubblicità, packaging, comunicati stampa e report aziendali. Un classico esempio di greenwashing si ha quando le aziende utilizzano termini come "eco-friendly", "verde" o "naturale" senza fornire prove concrete o dettagli su ciò che rende il loro prodotto o servizio ecologico.
Il greenwashing costituisce una pratica idonea ad ingannare i consumatori, portandoli a prendere decisioni di acquisto basate su informazioni false o fuorvianti. Ciò può anche distorcere il mercato a svantaggio delle aziende che effettivamente investono in pratiche sostenibili.
Green claims: il caso sottoposto all’attenzione dell’AGCM
AGCM ha di recente multato una nota azienda di allevamenti avicoli e produttrice di mangimi per aver divulgato messaggi ingannevoli in merito alla sostenibilità ambientale della propria produzione. Due le pratiche commerciali finite sotto la lente d’indagine dell’Antitrust:
- l’utilizzo di asserzioni sul sito web circa la sostenibilità ambientale dell’attività imprenditoriale ed i progetti di compensazioni di emissioni nocive per l’ambiente;
- asserzioni sul sito web in cui veniva dichiarata l’integrale produzione agricola mediante materie prime di origine biologica e totalmente di origine italiana;
Secondo la segnalazione del Codacons, l’azienda avrebbe divulgato promesse di sostenibilità che risultavano ben lontane dal modo di fare impresa: in altre parole, un caso di greenwashing.
A valle dell’istruttoria effettuata, l’Autorità non ha rilevato la presenza di elementi tali da far ritenere ingannevoli le affermazioni di sostenibilità ambientale fatte dall’azienda, in particolare rispetto agli impegni e alle attività contenute nel Bilancio di sostenibilità 2021 dell’azienda.
Al contrario, invece, sono state ritenute scorrette ed ingannevoli le dichiarazioni effettuate sul sito web della società in merito all’integrale produzione agricola delle derrate usate per la produzione dei mangimi biologici e l’origine totalmente italiana delle materie prime per l’alimentazione degli animali.
La società aveva di fatto ammesso l’acquisto sul mercato di parte delle derrate/materie prime in quanto quelle coltivate (direttamente o indirettamente) risultavano insufficienti a coprire il fabbisogno del proprio mangimificio biologico e che le predette derrate/materie prime non erano esclusivamente di origine italiana.
Tali affermazioni, secondo l’Autorità, si rivelano del tutto ingannevoli e idonee ad indurre in errore il consumatore riguardo alle caratteristiche – anche in termini di sicurezza, salubrità e qualità – dei prodotti avicoli e a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti assunto.
Tali condotte, dunque, sono contrarie all’obbligo di diligenza professionale che incombe sulla società, specie in considerazione delle sue rilevanti dimensioni ed esperienza nel settore avicolo, nonché della natura di società ‘benefit’.
L’AGCM ha così ritenuto sussistente la violazione degli artt. 20, comma 2 e 21, comma 1, lett. b) del Codice del consumo. L’art. 20 del Codice vieta infatti le pratiche commerciali scorrette idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio di un dato prodotto.
A sua volta, l’art. 21, comma 1, lett. b) definisce pratica commerciale ingannevole quella che contiene “informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio” e che, “in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. È dunque ritenuta idonea a trarre in errore il consumatore figura, in base alla lett. b) della norma, la falsa o artata rappresentazione di alcuni elementi, tra cui: “le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l'esecuzione, la composizione, gli accessori, l'assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l'idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l'origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto”.
L’Autorità ha così condannato l’azienda ad una multa pari ad euro 100.000,00.
Green claims e concorrenza: scenari futuri nel contesto europeo
Dalla lettura del provvedimento emerge chiaro come la crescente attenzione dei consumatori per le questioni ambientali stia influenzando sempre più le loro decisioni economiche, rendendo la sostenibilità un fattore chiave di competitività nel mercato.
La particolare sensibilità che oggigiorno i consumatori hanno sulle tematiche ambientali impone un approccio trasparente e onesto delle aziende nella comunicazione dei benefici ambientali dei loro prodotti o servizi. La veridicità dei green claims, infatti, non solo rafforza la fiducia dei consumatori ma è anche un obbligo legale, la cui violazione può comportare sanzioni significative, come accaduto nel provvedimento dell’AGCM.
Dei rischi del greenwashing per i consumatori – e non solo - ne è ben consapevole anche l’Unione europea: a fronte del significativo impegno nella lotta al cambiamento climatico e alla salvaguardia dell’ambiente, proprio all’interno del programma European Green Deal, l’Unione ha promosso numerose misure volte a contrastare il fenomeno del greenwashing, ponendo l’attenzione sull’importanza delle informazioni fornite ai consumatori, ai quali devono essere fornite prove concrete delle affermazioni ambientali e spronando l’utilizzo di certificazioni riconosciute e affidabili.
In tale contesto si inscrive l'adozione della Direttiva UE 2024/825 sulla “la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell'informazione”.
La finalità della direttiva, si legge nel Considerano (1), è quella di “contrastare le pratiche commerciali sleali che impediscono ai consumatori di compiere scelte di consumo sostenibili, quali le pratiche associate all'obsolescenza precoce dei beni, le dichiarazioni ambientali ingannevoli ("greenwashing"), i marchi di sostenibilità o gli strumenti di informazione sulla sostenibilità non trasparenti e non credibili”.
La diffusione del greenwashing ha poi condotto l’Unione europea a proseguire l’iter legislativo della proposta di sulla Direttiva c.d. Green Claims, il cui obiettivo è proprio quello di individuare norme comuni che le imprese sono tenute a rispettare per garantire a veridicità delle proprie asserzioni “green”.
Il quadro descritto impone alle aziende di prestare attenzione, dunque, non solo nell’adottare pratiche di business veramente sostenibili, ma anche alla trasparenza e alla veridicità delle affermazioni commerciali veicolate, essenziali per promuovere una maggiore responsabilizzazione per le tematiche della transizione verde e della sostenibilità ambientale.
Provvedimento AGCM n. 31025 – Bollettino n. 4/2024
Soccorso istruttorio nel d.lgs. 36/2023: vecchi principi, nuove regole
Il soccorso istruttorio nel d.lgs. 36/2023 è disciplinato dall’art. 101. La norma, pur distinguendosi dall'art. 83, comma 9, del d.lgs. 50/2016, incorpora e rende sistematici i principi e le prassi consolidate dalla giurisprudenza, valorizzando la funzione partecipativa e correttiva dell’istituto.
Partendo da un semplice comma, infatti, la giurisprudenza ha dato corpo e sostanza all’istituto, facendone prevalere la finalità partecipativa e pro-concorrenziale (dello sviluppo dell’istituto del soccorso istruttorio e degli aspetti pratici ed applicativi ne ha parlato lungamente l’Avv. Rosamaria Berloco, nel suo libro “Soccorso istruttorio negli appalti pubblici”).
Sotto l’aspetto applicativo, dunque, la prima giurisprudenza formatasi sulla scorta del nuovo testo normativo conferma che “la disciplina in materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici stabilisce l’obbligatorietà dell’attivazione del soccorso istruttorio (ricavabile dall’uso del modo indicativo: «la stazione appaltante assegna») per integrare di ogni elemento mancante la documentazione trasmessa e sanare ogni omissione, inesattezza o irregolarità della domanda di partecipazione, con la sola esclusione della documentazione che compone l’offerta tecnica e l’offerta economica” (TAR Umbria, Sez. I, 23 dicembre 2023, n. 758).
Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi sono le nuove chiavi di lettura che il Codice 36/2023 attribuisce all'istituto del soccorso istruttorio.
La prima è facilmente evincibile dallo stesso incipit dell’art. 101, che subordina l’attivazione del soccorso istruttorio all’assenza della documentazione del FVOE.
Come noto, una delle innovazioni più rilevanti apportate dal Codice 2023 riguarda la digitalizzazione dei contratti pubblici: in tale ottica, il soccorso istruttorio assume un ruolo centrale nell'assolvere ai principi di efficienza e trasparenza. L’istituto, dunque, deve essere interpretato alla luce dei principi e delle regole di digitalizzazione dell’intero ciclo di vita dei contratti pubblici stabilite dal nuovo codice (di cui si è lungamente parlato anche in questo video).
Una seconda chiave interpretativa deve essere rintracciata nei principi che oggi il Codice include nei primi 12 articoli: come spiega la stessa Relazione illustrativa al Codice redatta dal Consiglio di Stato, i principi assolvono “una funzione di completezza dell’ordinamento giuridico e di garanzia della tutela di interessi che altrimenti non troverebbero adeguata sistemazione nelle singole disposizioni.”
Una lettura del soccorso istruttorio alla luce dei principi codificati nel nuovo Codice viene offerta già dalla giurisprudenza: ne costituisce un valido esempio la sentenza del TRGA Bolzano n. 316/2023.
Nel caso sottoposto all’attenzione del Tribunale, una Amministrazione aveva indetto una procedura aperta per l’affidamento dei servizi di collaudo tecnico amministrativo, collaudo statico, collaudo tecnico funzionale degli impianti e collaudo antincendio, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Nella lex specialis era stato richiesto ai concorrenti di indicare la composizione del gruppo di lavoro. Per sopperire ad eventuali carenze e/o omissioni, la lex specialis consentiva l’attivazione del soccorso istruttorio e la possibilità per la stazione appaltante di richiedere ai concorrenti eventuali chiarimenti rispetto al contenuto delle dichiarazioni da presentare.
Il RTP collocatosi al secondo posto della graduatoria, aveva omesso di indicare nella documentazione amministrativa il professionista incaricato di eseguire il collaudo statico ed era incorso, dunque, in un errore materiale.
La stazione appaltante, tuttavia, non aveva attivato alcun soccorso istruttorio. Al contrario, era stato attivato il soccorso istruttorio nei confronti di un altro RTP – poi risultato aggiudicatario – consentendogli di produrre un documento contenente l’indicazione degli esecutori della prestazione oggetto dell’appalto.
Tra le varie censure, parte ricorrente lamentava la violazione della disciplina sul soccorso istruttorio, affermando che l’istituto in esame non costituisce una mera facoltà della stazione appaltante, quanto più un onere procedimentale finalizzato a sanare eventuali irregolarità ovvero omissioni riguardanti la documentazione presentata dagli operatori economici, che potrebbero pregiudicare loro la possibilità di qualificarsi come aggiudicatari all’esito della procedura di gara. A parere del ricorrente, dunque, dovrebbe pertanto essere concessa indistintamente a tutti gli operatori economici l’opportunità di sanare meri errori materiali attraverso l’istituto considerato.
Nell’accogliere la censura, il Collegio ha evidenziato come la ratio del soccorso istruttorio e del soccorso procedimentale è quella di evitare che meri errori materiali possano compromettere l’interesse pubblico a stipulare il contratto di appalto con l’operatore economico che ha presentato l’offerta migliore. Il soccorso istruttorio, dunque, costituisce corollario del c.d. principio di risultato – espressamente disciplinato nell’art. 1 del d.lgs. 36/2023 - che deve considerarsi quale criterio-guida dell’azione amministrativa, ai fini della individuazione del concorrente più idoneo all’esecuzione delle prestazioni che costituiscono oggetto del contratto.
La logica che deve guidare, dunque, la lettura dell’istituto è quella volta a privilegiare la sostanza sulla forma, consentendo di integrare o precisare documentazione già presentata, a condizione che ciò non comporti modifiche sostanziali all'offerta o conferisca un vantaggio competitivo indebito.
Il Tribunale valorizza così il soccorso istruttorio nell'ottica del principio di risultato, sottolineandone la funzione di strumento volto a consentire la partecipazione più ampia e qualificata alle procedure di gara, con l’obiettivo di massimizzare la concorrenza e l'efficienza nell'assegnazione di contratti pubblici, principi oramai cristallizzati a partire dalla giurisprudenza più risalente.
(TRGA Bolzano, 25.10.2023, n. 316)
Concessioni balneari: indicazioni dall’AGCM sul contenuto dei bandi
Con un recente parere l’AGCM si è espressa in merito ad una procedura di affidamento delle concessioni demaniali marittime nel Comune di Jesolo, fornendo alcune importanti indicazioni per le Amministrazioni alle prese con la redazione di nuovi bandi.
L’Autorità ha innanzitutto accolto favorevolmente la scelta del comune di avviare delle procedure di evidenza pubblica da parte del Comune, soprattutto in considerazione dello scenario normativo attuale, che abbiamo più volte ampiamente descritto (per scaricare il nostro Paper gratuito sulle Concessioni Balneari clicca qui).
Secondo l’Autorità, uno dei punti di forza della procedura è rappresentato dalla scelta operata dal Comune di richiedere ai partecipanti la presentazione di un programma di investimenti e un piano economico-finanziario.
Non mancano tuttavia le criticità.
Innanzitutto, secondo l’Autorità, il procedimento dovrebbe svolgersi d’ufficio, su iniziativa del Comune, e non, dunque, su istanza di parte, su iniziativa degli operatori interessati a divenire concessionari.
Altro elemento di criticità rilevato dall’Autorità, attiene alla necessità di individuare, sin dall’atto di avvio della procedura, in maniera oggettiva, trasparente non discriminatoria e proporzionata, tutti i criteri che lo stesso intende valutare ai fini dell’assegnazione delle concessioni demaniali marittime, con il relativo punteggio massimo attribuibile.
La necessità di individuare precisi criteri, spiega l’Autorità, trova il proprio referente normativo nella stessa direttiva Bolkestein, che impone l’indicazione dei criteri di valutazione delle istanze ricevute. La stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021, proprio con specifico riguardo ai criteri da utilizzare nel bando di gara, hanno ricordato che detti criteri “dovrebbero dunque riguardare la capacità tecnica, professionale, finanziaria ed economica degli operatori, essere collegati all’oggetto del contratto e figurare nei documenti di gara”. Tra i criteri individuati per valutare la capacità tecnica e professionale potranno essere individuati anche criteri il grado di “valorizzare l’esperienza professionale e il know how acquisito da chi ha già svolto attività di gestione di beni analoghi (e, quindi, anche del concessionario uscente, ma a parità di condizioni con gli altri)”.
Dal punto di vista generale, dunque, tali criteri devono rispettare la par conidico tra i concorrenti e non possono costituire ostacoli per l’accesso al settore da parte di nuovi operatori economici.
Sulla scorta di tali considerazioni, l’autorità ha chiesto di modificare la norma che subordina l’ammissione della domanda solo nel caso in cui sia compatibile con i vincoli di carattere territoriale, urbanistico, ambientale, nonché quella che attribuisce preferenza alle domande proposte dalle strutture ricettive vicine.
Con riferimento alla prima norma, l’Autorità ha precisato che la presenza di vincoli ambientali e paesaggistici non può tradursi tout court in un ostacolo al libero dispiegarsi delle dinamiche concorrenziali: ove l’amministrazione consenta l’assegnazione di una concessione in un’area sottoposta a tale tipologia di vincolo, tale scelta non può pregiudicare il libero spiegarsi della concorrenza.
Quanto alla norma che attribuiva preferenza alle domande delle strutture ricettive degli arenili prospicienti, l’Autorità ha precisato come tale previsione, riconoscendo un vantaggio a priori a determinati soggetti, indipendentemente dal contesto concorsuale, è suscettibile di tradursi in una limitazione della concorrenza e, pertanto, dovrebbe essere sostituita con una disposizione che preveda la piena equipollenza tra le domande dei diversi aspiranti.
Su tale aspetto, ricorda l’AGCM, l’art. 12, comma 2, della direttiva 2006/123/CE, vieta in ogni caso di prevedere una procedura di rinnovo automatico della concessione, sicché ogni prescrizione di simile tenore si pone in contrasto con la normativa europea.
A ritenere ammissibile la norma contenuta della documentazione di gara, dunque, si determinerebbe una chiusura del mercato alla concorrenza per un lungo periodo, pari a ulteriori dieci anni rispetto ai cinque previsti, impedendo di cogliere i benefici derivanti dal periodico affidamento mediante procedure competitive delle concessioni balneari.
Infine l’AGCM ha precisato che al fine di non vanificare il ricorso a procedure concorrenziali di assegnazione, le concessioni dovrebbero avere una durata limitata, commisurata al valore della concessione e alla sua complessità organizzativa. Gli investimenti, dunque, dovrebbero essere proporzionati alla durata della concessione, la quale, a sua volta, non dovrebbe eccedere il tempo ragionevolmente necessario per il recupero degli investimenti autorizzati dall’ente concedente in sede di assegnazione della concessione e un’equa remunerazione del capitale investito.
Come tutelare gli investimenti del concessionario uscente? Per l’AGCM il valore di eventuali investimenti effettuati dal gestore uscente e non ancora ammortizzati al temine della concessione, per i quali non è possibile la vendita su un mercato secondario, può essere posto a base d’asta nella successiva procedura selettiva. In tal modo, l’esigenza di rimborsare i costi non recuperati sopportati dal concessionario uscente risulterebbe compatibile con procedure di affidamento coerenti sia con i principi della concorrenza, sia con gli incentivi ad effettuare gli investimenti.
Parere AGCM AS1930 – Bollettino n. 49 del 27 dicembre 2023
Servizi noleggio senza conducente: i regolamenti comunali possono limitare l’attività d’impresa?
Spesso i regolamenti comunali possono limitare l’attività d’impresa, potendo “allargare” o “restringere” le maglie imposte dalla normativa statale e, dunque, determinare il mercato locale.
Nel settore dei servizi per la mobilità, ciò accade di frequente: il Codice della strada assegna infatti ai comuni un ruolo significativo nella gestione della viabilità cittadina e, dunque, del relativo mercato dei servizi per la mobilità.
L’esercizio di tali poteri da parte dei singoli comuni, sebbene esercitato entro i limiti predeterminati dalla normativa statale, fa sì che siano tutt’altro che infrequenti i casi in cui determinati servizi o determinate modalità di esercizio dei servizi siano differenti a seconda del territorio comunale in cui vengono svolti.
Fino a che punto i comuni possono imporre restrizioni e vincoli all’attività d’impresa liberalizzata?
Un recente parere dell’AGCM offre degli interessanti spunti in merito, focalizzandosi sulle regole previste a livello statale per l’esercizio dell’attività di noleggio senza conducente e sui poteri dei comuni di dettare delle regole per l’accesso al mercato.
Il contenuto del Regolamento
Il Regolamento comunale sottoposto all’attenzione dell’Autorità conteneva alcune prescrizioni relative all’esercizio dell’attività di noleggio di veicoli senza conducente. In particolare, il Regolamento ha introdotto tre prescrizioni peculiari, su cui l’Autorità ha espresso il proprio parere.
Innanzitutto, il Regolamento prevede una distanza minima tra gli esercizi, in caso di apertura di una nuova attività o di spostamento di un’attività già esistente.
Viene poi individuato un numero massimo di veicoli per ciascuna tipologia utilizzabili da ogni attività, determinando quindi anche la specifica composizione del parco veicoli di ogni esercizio. Tuttavia tale restrizione si applica esclusivamente ai nuovi esercizi, atteso che per coloro che esercitano già tale attività è possibile mantenere i veicoli in uso.
Il regolamento poi prevede un numero massimo complessivo di quadricicli a motore da utilizzare per il noleggio su tutto il territorio comunale, che possono essere adibiti unicamente al noleggio per “escursioni guidate effettuate dal titolare dell’impresa, da un familiare collaboratore o da un suo dipendente”.
Il parere dell’AGCM
Secondo l’Autorità, il Regolamento comunale in esame introduce previsioni che ostacolano l’accesso e l’esercizio dell’attività di noleggio di veicoli senza conducente, ponendosi così in contrasto con i principi di liberalizzazione e concorrenza, nazionali e comunitari, vigenti in materia, oltre che con lo stesso art. 41 Cost.
L’Autorità ricorda come a livello statale, l’art. 84 del Codice della strada precisa che un veicolo si intende adibito a locazione senza conducente “quando il locatore, dietro corrispettivo, si obbliga a mettere a disposizione del locatario, per le esigenze di quest’ultimo, il veicolo stesso”.
L’attività di noleggio senza conducente è un’attività liberalizzata, che può essere avviata mediante la presentazione di una SCIA innanzi al SUAP del comune nel cui territorio è ubicata la sede legale dell’impresa e al comune nel cui territorio è presente ogni singola articolazione commerciale dell’impresa.
Con riferimento alle distanze minime individuate dal Regolamento, l’Autorità spiega come l’art. 34, comma 2, del D.L. 201/2011 (c.d. Salva Italia - L. 214/2011), ha previsto l’abrogazione di una serie di restrizioni disposte dalla norma statale, tra cui le limitazioni relative alle “distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate all’esercizio di una attività economica”:
Il decreto in parola, infatti, ha stabilito in via generale che “la disciplina delle attività economiche è improntata al principio di libertà di accesso, di organizzazione e di svolgimento, fatte salve le esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione di previ atti amministrativi di assenso o autorizzazione o di controllo, nel rispetto del principio di proporzionalità”.
A parere dell’AGCM, dunque, la previsione di distanze minime tra le attività commerciali impedisce, di fatto, l’adeguamento della struttura del mercato alle esigenze dei consumatori.
Pertanto, in assenza di una motivazione legata alla tutela di interessi generali e superiori – assente nel Regolamento in questione -, simili restrizioni sono assolutamente contrarie non solo alla legge statale ma anche ai principi di liberalizzazione e concorrenza.
Con riferimento ai limiti quantitativi dei veicoli, applicabili esclusivamente ai “nuovi esercizi”, l’Autorità ha rilevato come tali restrizioni avrebbero quale unico fine quello di tutelare economicamente le imprese già operanti nel mercato, limitando i nuovi esercizi e creando di fatto una riserva in favore delle sole imprese già attive nel mercato. Una simile previsione, dunque, finisce per distorcere la concorrenza e introduce una ingiustificata discriminazione tra operatori economici attivi nel medesimo mercato.
Quanto alla prescrizione relativa al numero massimo di quadricicli a motore adibiti unicamente al noleggio per “escursioni guidate effettuate dal titolare dell’impresa, da un familiare collaboratore o da un suo dipendente”, l’Autorità ha ritenuto che tale norma fosse finalizzata a disciplinare l’esercizio delle attività di noleggio di veicoli con conducente (c.d. NCC). In altre parole, nel disciplinare le regole per il noleggio senza conducente, il Regolamento avrebbe imposto agli operatori effettuare il noleggio di alcune tipologie di veicoli per una specifica finalità e unicamente predeterminandone il guidatore.
Una simile imposizione, dunque, finisce per porsi in contrasto con l’art. 84 del Codice della strada, che prevede che il noleggio senza conducente avviene “per le esigenze” del locatario del veicolo, lasciando quindi libero tale ultimo soggetto di decidere la finalità del noleggio. Allo stesso tempo, spiega l’Autorità, tale prescrizione si pone in contrasto non solo con i principi posti a tutela della concorrenza, ma anche con le stesse finalità del Regolamento comunale in esame, il quale ha come scopo quello di disciplinare le sole attività di noleggio senza conducente.
Bollettino n. 46/2023 – Parere AS1928
Micromobilità in sharing: esclusa l'applicazione del codice dei contratti pubblici
Come si individuano gli operatori che gestiscono i servizi di mobilità in sharing? In assenza di puntuali riferimenti normativi, i comuni hanno dato accesso al mercato della micromobilità cittadina tramite strumenti normativi differenti.
Ne abbiamo parlato diffusamente nel nostro Paper Smart mobility: un dialogo in continua evoluzione, scaricabile gratuitamente a questo link.
La domanda che spesso gli operatori e le amministrazioni si pongono è la seguente: per l’individuazione degli operatori si applica il codice dei contratti pubblici?
Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 2 maggio 2023 n. 4368 (che abbiamo commentato qui), aveva già avuto modo di chiarire che le procedure comparative per l’assegnazione del servizio di monopattini elettrici in sharing non hanno né natura concessoria, né rappresentano un appalto di servizi, per cui resta esclusa l’applicazione della disciplina del Codice dei Contratti Pubblici.
Tale conclusione è stata di recente confermata dal Consiglio di Stato nella sentenza del 3 novembre 2023, n. 9541.
La pronuncia trae origine da una procedura indetta dal Comune di Bari per l’individuazione di operatori interessati a svolgere il servizio di noleggio di monopattini elettrici con sistema di free floating sul territorio comunale.
In questo caso i giudici hanno precisato che il servizio di noleggio di monopattini elettrici non è servizio pubblico mancando, nella fattispecie, quantomeno uno dei requisiti essenziali del servizio pubblico, ossia l’assunzione del servizio da parte dell’amministrazione, presupposto anche dell’eventuale affidamento a terzi.
Il servizio rientra, pertanto, tra le attività imprenditoriali svolte da privati tendenzialmente liberalizzate, così come descritte dalla nota direttiva 2006/123/CE, c.d. direttiva Bolkenstein.
Il servizio di noleggio monopattini è un servizio rivolto al pubblico indistinto degli utenti, per cui trova applicazione l’art. 9 della direttiva 2006/123/CE, “in base al quale queste attività sono soggette alla previa autorizzazione qualora lo richiedano ragioni imperative d’interesse generale, che nella specie possono essere rappresentate dalla tutela della sicurezza della circolazione stradale e dalla tutela degli stessi utenti che noleggiano i monopattini elettrici”.
L’arresto del Consiglio di Stato, dunque, conferma che il servizio in esame costituisce una attività imprenditoriale liberalizzata svolta dai privati.
Cons. St., Sez. V, 3.11.2023, n. 9541