TEMPI PROCEDIMENTO AGCM

I tempi dei procedimenti AGCM: il caso Apple/Amazon docet

tempiLa violazione dei tempi e dei termini individuati dalla legge per lo svolgimento dei procedimenti innanzi all’AGCM spesso può essere fatale e comportare l’annullamento dei provvedimenti sanzionatori.

È ciò che accaduto con la sentenza del TAR Lazio n. 12507/2022, in cui i giudici hanno annullato il provvedimento dell’AGCM che aveva condannato le società Apple e Amazon al pagamento di una sanzione per condotte anticoncorrenziali.

I giudici hanno annullato il provvedimento perché il relativo procedimento era stato avviato tardivamente, nonché per la brevità deI termini assegnati alle società per presentare le proprie memorie difensive.

Il 22 febbraio 2019, infatti, l’AGCM aveva ricevuto una segnalazione su alcune condotte anticoncorrenziali tenute da Amazon ed Apple; il 21 luglio 2020 l’Autorità aveva poi notificato l’avvio dell’istruttoria alle due società.

Nel novembre 2021 l'AGCM aveva concluso il procedimento, comminando una sanzione pecuniaria di euro 114.681.657 ad Apple e Amazon. Ad avviso dell’AGCM, le due società avevano posto in essere un accordo restrittivo della concorrenza che non permetteva a tutti i rivenditori terzi di prodotti a marchio Apple e Beats di operare sul marketplace Amazon.it, ma solo ad alcuni preventivamente individuati da Apple, ossia i c.d. Apple Premium Resellers (categoria di rivenditori che, all’interno del sistema di distribuzione di Apple, soddisfa i più alti standard di qualità ed investimenti). Secondo l’Autorità l’accordo era così idoneo a ridurre la concorrenza per l’innalzamento di barriere allo sbocco dei mercati della vendita online a danno dei rivenditori non ufficiali, solitamente piccole e medie imprese che effettuano vendite sul web utilizzando i servizi di marketplace, con evidenti effetti negativi per i consumatori e per le imprese. Tale limitazione, dunque, concretizzava una violazione della concorrenza ai sensi dell’art. 101 TFUE.

Con un articolato ricorso, Apple ad Amazon hanno impugnato innanzi al TAR il provvedimento dell’AGCM censurando anche alcuni aspetti procedurali, tra cui:

  1. La tardività dell’avvio del procedimento da parte dell’AGCM. Secondo le ricorrenti, l’Autorità aveva già a disposizioni tutti gli elementi per avviare il procedimento sin dal giorno in cui è stata effettuata la segnalazione (22 febbraio 2019) e nel periodo tra il 22 febbraio 2019 e la data in cui l’avvio del procedimento era stato notificato (luglio 2020), non sarebbe stata svolta alcuna attività istruttoria rilevante.
  2. L’irragionevolezza del termine minimo di 30 giorni dalla chiusura dell’istruttoria per assicurare le difese delle parti. Secondo le società, trattandosi di una vicenda di notevole complessità, l’AGCM avrebbe dovuto concedere un termine superiore a 30 giorni, come fatto peraltro già in passato per casi di analoga complessità.

Il TAR ha accolto le censure delle due società ricorrenti con riferimento proprio ai tempi del procedimento condotto dall’AGCM.

Innanzitutto, il TAR ha analizzato l’applicabilità ai procedimenti AGCM dell'art. 14 della L. 689/1981 in tema di sanzioni amministrative.

La norma stabilisce che “La violazione, quando è possibile, deve essere contestata immediatamente tanto al trasgressore quanto alla persona che sia obbligata in solido al pagamento della somma dovuta per la violazione stessa. Se non è avvenuta la contestazione immediata per tutte o per alcune delle persone indicate nel comma precedente, gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati residenti nel territorio della Repubblica entro il termine di novanta giorni e a quelli residenti all'estero entro il termine di trecentosessanta giorni dall'accertamento”.

Dopo aver dato atto del contrasto giurisprudenziale in merito all’applicabilità o meno della disciplina delle sanzioni amministrative alle sanzioni comminate dall’AGCM, il TAR ha tuttavia ritenuto che il termine decadenziale previsto dall'art. 14 della L. 689/1981 non trova diretta applicazione nei procedimenti antitrust in relazione alla durata della fase istruttoria.

Ciononostante, secondo il TAR, la non applicabilità diretta del termine di cui all'art. 14 in parola “non può giustificare il compimento di un’attività preistruttoria che si prolunghi per un lasso di tempo totalmente libero da qualsiasi vincolo e ingiustificatamente prolungato”. I procedimenti condotti dall’AGCM, infatti, sono pur sempre dei procedimenti amministrativi che, dunque, rispondono ai principi sanciti nella L. 241/1990, ossia ai principi di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, oltre che al dovere di attribuire certezza al professionista sottoposto al procedimento.

Sussiste pertanto l'obbligo per l'Autorità di accertare una violazione del diritto antitrust e di applicare le relative sanzioni procedendo all'avvio della fase istruttoria entro un termine ragionevolmente congruo, “a pena di violazione dei principi di legalità e buon andamento che devono sempre comunque contraddistinguerne l'operato”.

Resta fermo, ricorda il TAR, che ai fini del giudizio di congruità del tempo di accertamento dell'infrazione, ciò che rileva, quale termine iniziale, non è la notizia del fatto ipoteticamente sanzionabile ma l'acquisizione della piena conoscenza della condotta illecita.

Dall’esame dello svolgimento dei fatti, il TAR ha rilevato come tra la data di ricezione della segnalazione e l’avvio dell’istruttoria l’AGCM non aveva svolto alcuna attività rilevante.

In tale lasso di tempo, infatti, l’AGCM dovrebbe acquisire tutte le informazioni necessarie per tratteggiare gli elementi-base dell'illecito e, quindi, decidere se avviare o meno la successiva fase istruttoria. Ferma restando la complessità della vicenda, tale fase preistruttoria deve comunque avvenire in un lasso di tempo limitato “a distanza di vari mesi - ma non di vari anni - dalla segnalazione della possibile infrazione”.

Secondo i giudici, dunque, nel caso di specie, tenuto conto che l'Autorità ha deliberato l'avvio dell'istruttoria solo il 21 luglio 2020, a distanza di circa un anno e mezzo dalla segnalazione, e che in tale lasso di tempo non sono state compiute attività di particolare complessità che giustificassero la dilazione, l’avvio del procedimento antitrust è da considerarsi tardivo.

Il TAR ha altresì ritenuto fondata la censura delle società concernente la violazione del diritto di difesa a causa del termine eccessivamente ridotto assegnato alle parti per presentare le proprie osservazioni conclusive.

L’art. 14 del d.P.R. n. 217/1998 che regola i procedimenti antitrust prevede, infatti, un termine inderogabile minimo di 30 giorni dalla chiusura dell’istruttoria per consentire alle parti di controdedurre sulle risultanze istruttorie dell’AGCM.

Nel caso di specie, era stato assegnato un termine di 30 giorni, con scadenza in agosto, successivamente prorogato di 15 giorni.

Tuttavia, secondo il TAR, la complessità delle analisi svolte dall’Autorità e l’importo della sanzione irrogata, che è risultata una delle più alte applicate dall’Autorità, avrebbe richiesto maggior tempo alle società per controdedurre alle osservazioni dell’AGCM.

Precisa la Sezione, infatti, che ponendo a paragone il tempo assegnato alle parti per le osservazioni con la durata della fase preistruttoria (17 mesi) e istruttoria (16 mesi, dal luglio 2020 al novembre 2021), si manifestava un evidente compressione del diritto di difesa: “Lo spazio difensivo assicurato nel caso di specie deve quindi ritenersi inidoneo a garantire l’effettivo esplicarsi del contraddittorio”.

Spiega a tal proposito il TAR come il termine per le difese viene assegnato con la comunicazione delle risultanze istruttorie e, quindi, è necessario consentire alle parti interessate di mettere a punto i propri scritti difensivi dopo avere avuto conoscenza di tutti gli elementi ritenuti dall’Autorità rilevanti per l’adozione del provvedimento finale: per tale motivo l’art. 14 del d.P.R. 217/1998 stabilisce che alle parti è assegnato un termine minimo di 30 giorni prima della chiusura della fase istruttoria per presentare memorie scritte e documenti. La previsione di un minimo, e non di un massimo, fa sì che l’Autorità possa modulare tale termine in base alla complessità del caso. La prassi dell’Autorità sembra peraltro essere quella di assegnare un termine sensibilmente maggiore del minimo previsto, soprattutto nei casi di accertamenti più complessi.

Nella specie, invece, il termine di 30 giorni assegnato appariva “già di per sé del tutto insufficiente al fine di replicare ad una contestazione dispiegata in un documento di oltre 100 pagine”, anche considerando che nel periodo di agosto, pur non essendo espressamente prevista una vera e propria sospensione feriale, è “indubitabilmente molto più arduo raccogliere eventuali documenti da produrre a confutazione di quelli acquisiti ed utilizzarli per dispiegare le argomentazioni difensive”.

In conclusione, dunque, il TAR ha ritenuto tale termine breve ingiustificato a fronte della durata complessiva e della rilevanza del procedimento, concluso dopo circa due anni e mezzo dalla segnalazione e tre dalla conclusione dell’accordo.

AGCM, provvedimento n. 29889/2021 pubblicato sul Bollettino dell’Autorità n. 47/2021

TAR Lazio, Sez. I, 3.10.2022, n. 12507


Google ADS gratuiti per i portali del Ministero degli affari esteri: il via libera dell’ANAC

Con il parere del 20 luglio 2022, l’ANAC ha prestato parere positivo all’offerta di Google di fornire gratuitamente al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale dei crediti pubblicitari nell’ambito del Google Ads Crisis Relief Program, per promuovere i portali Viaggiare Sicuri e Dove Siamo Nel Mondo nelle ricerche effettuate dagli utenti tramite il motore di ricerca Google e riferite a viaggi all’estero.

I due portali, infatti, rappresentano due punti di riferimento importanti per reperire o fornire informazioni ufficiali sui paesi esteri. In particolare, il portale Viaggiare Sicuri fornisce informazioni ufficiali e consigli sulla situazione dei diversi paesi e sugli eventuali rischi per la sicurezza dei connazionali che si trovano o che intendono recarsi all’estero, mentre il portale Dove Siamo Nel Mondo è lo strumento dell’Unità di Crisi della Farnesina tramite il quale i cittadini italiani possono “registrarsi” prima di partire, fornendo gli elementi necessari per essere rintracciati e ricevere informazioni utili in caso di emergenza.

Rendere tali portali maggiormente visibili a coloro che cercano online informazioni per i propri viaggi o spostamenti all'estero permette evidentemente di garantire l'interesse pubblico a che i cittadini siano adeguatamente informati e, dunque, a prevenire possibili inconvenienti che possono accadere a coloro che si recano in determinati paesi del mondo.

Le ragioni giuridiche della percorribilità di una simile operazione sono da rinvenirsi, secondo l’Autorità, nel fatto che nel caso di specie non può parlarsi né di un contratto di appalto, né di contratto di sponsorizzazione.

Sia il contratto di appalto, che il contratto di sponsorizzazione, infatti, sono contratti a titolo oneroso.

Più precisamente, non sarebbe possibile parlare di un contratto di appalto poiché manca nel caso di specie il carattere sinallagmatico o comunque la controprestazione: è del tutto assente nell’iniziativa proposta da Google qualsiasi tipo di utilità o vantaggio a favore dell’operatore economico sia in termini economici che in termini di pubblicità. Allo stesso modo non risultano evidenziate controprestazioni a carico del Ministero.

L’iniziativa, dunque, non sembra riconducibile nello schema tipico del contratto d’appalto e, quindi, nel campo di applicazione del d.lgs. 50/2016.

Allo stesso modo non potrebbe parlarsi di contratto di sponsorizzazione, ossia del contratto atipico disciplinato dall’art. 19 del Codice dei contratti pubblici, mediante il quale un soggetto (detto sponsee o sponsorizzato) assume, dietro corrispettivo (o altre utilità), l’obbligo di associare a proprie attività il nome o il segno distintivo di altro soggetto (detto sponsor o sponsorizzatore), divulgandone così l'immagine o il marchio al pubblico.

Secondo i chiarimenti dalla giurisprudenza e richiamati anche dall’Autorità, benché il contratto di sponsorizzazione rientri tra i c.d. contratti esclusi – che non impongono l’adozione delle regole sancite dal Codice dei contratti -, non si tratta comunque di un contratto a titolo gratuito, in quanto alla prestazione dello sponsor corrisponde l’acquisizione del diritto all’uso promozionale dell’immagine del bene pubblico da parte dello stesso.

Secondo l’Autorità, l’iniziativa che coinvolge Google e il Ministero degli Affari esteri sarebbe diversa, in quanto la prestazione di Google si configura come gratuita tourt court, non essendo previsto a fronte dell’offerta del credito pubblicitario avanzata dalla società, alcuna prestazione da parte dell’amministrazione, in termini di pagamento di somme o di pubblicità, né alcuna utilità a vantaggio della società, ossia alcuno sfruttamento dell’iniziativa a fini pubblicitari o di promozione dell’immagine da parte della società offerente.

In tal senso, a fronte della disponibilità di Google di mettere a disposizione gratuitamente alcuni spazi pubblicitari del proprio portale, normalmente a pagamento, dando massima visibilità ai siti del Ministero, l’Amministrazione ricevente non prevede di fornire alcun ritorno pubblicitario a Google.

Precisa in proposito l’Autorità, che la mancata applicazione del codice dei contratti pubblici all’iniziativa in questione non viola, né le direttive europee, né i principi comunitari indicati nell’art. 30 del Codice e, in particolare, il principio di par condicio.

L’iniziativa, infatti, non deve essere riservata in via esclusiva a Google: l’amministrazione deve riservarsi il diritto di poter aderire, anche contestualmente, ad eventuali ulteriori proposte di analogo tenore di altri operatori web o social network.

Peraltro, specifica l’Autorità, trattandosi di una iniziativa non riconducibile al contratto di appalto, non dovrebbe essere posto alcun vincolo a carico del Ministero che possa condurre nel tempo a fenomeni di lock-in e, in generale, alla successiva necessità per la stessa amministrazione di avvalersi di servizi offerti dalla società in relazione alla prestazione resa.

In conclusione, tuttavia, l’ANAC raccomanda al Ministero di agire pur sempre nel rispetto dei criteri e dei principi sanciti dall’art. 1 della l. 241/1990, ossia ai criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e, in particolare, nel rispetto del principio di trasparenza,  per cui all’iniziativa deve essere garantita adeguata pubblicità, con riguardo alla conclusione dell’accordo con la società offerente.

Parere consultivo ANAC 20 luglio 2022, n. 39


iva

Caro materiali e IVA sulla compensazione prezzi. I chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate.

Uno dei temi più dibattuti in ordine al pagamento della compensazione dei prezzi richieste in base al meccanismo di cui all’art. 1-septies del d.l. 73/2021 attiene all’applicazione del regime IVA.

Due recenti interventi dell’Agenzia delle Entrate forniscono chiarimenti di non poco conto.

Con un primo intervento del 12 marzo 2022, in risposta all’interpello avanzato dal MIMS (Interpello n. 956-83/2022 presentato il 12.1.2022), l’Agenzia si è espressa in merito all’applicazione del regime IVA alle erogazioni delle somme del Fondo ministeriale e, dunque, alle movimentazioni di somme di denaro che intercorrono tra il Ministero e le committenti che hanno presentato istanza di accesso al Fondo per far fronte alle istanze di compensazione presentate delle imprese appaltatrici.

Sul punto l’Autorità ha sostenuto che “l’erogazione delle predette somme non integri il presupposto oggettivo ai fini dell’IVA di cui all’articolo 3 del citato d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto non si ravvisa un rapporto di natura sinallagmatica; infatti, dette somme vengono erogate dal Ministero istante nei confronti dei soggetti di cui al richiamato articolo 1-septies, comma 7, del citato decreto legge n. 73 del 2021 (stazioni appaltanti), in assenza di alcuna controprestazione da parte di quest’ultimi e di alcun obbligo di effettuare prestazioni di servizi nei confronti dell’ente erogatore. In mancanza di qualsiasi rapporto di natura sinallagmatica, come innanzi precisato, dette somme si configurarsi “mere” movimentazioni di denaro e, come tali, escluse dall’ambito applicativo dell’IVA, ai sensi del citato articolo 2, terzo comma, lettera a), del d.P.R. n. 633 del 1972, che prevede la non rilevanza all’IVA delle “cessioni che hanno per oggetto denaro o crediti in denaro”.

Come correttamente rilevato dall’Agenzia, tra il MIMS e le stazioni appaltanti non intercorre nessun rapporto contrattuale o sinallagmatico. Di qui la conclusione dell’Agenzia, per cui le somme erogate dal Fondo in favore delle stazioni appaltanti sono esenti dall’applicazione del meccanismo dell’IVA.

Più delicata, ed invero meno condivisibile, è stata invece la risposta fornita dall’Agenzia delle Entrate in merito al quesito relativo all’applicabilità del regime IVA alle somme che la stazione appaltante corrisponde in favore degli appaltatori a titolo di compensazione.

Con il parere del 13.7.2022, l’Agenzia ha infatti ritenuto che le somme erogate dalle stazioni appaltanti nei confronti dell’appaltatore sono soggette ad IVA.

Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha  dapprima ribadito che le somme che il Ministero eroga in favore delle stazioni appaltanti che hanno effettuato accesso al Fondo Ministeriale di cui al comma 8 dell’art. 1-septies del d.l. 73/2021 non sono soggette ad IVA, trattandosi di mere movimentazioni di denaro e non essendo ravvisabile in tal caso alcun rapporto sinallagmatico. Analogamente, precisa l’Agenzia, non sono soggette ad IVA le movimentazioni di denaro relative alle somme erogate alle stazioni appaltanti a valere sul Fondo di cui all’art. 1-septies, comma 8, le cui richieste vengono avanzate ai sensi dell’art. 26, comma 4 del c.d. decreto Aiuti (d.l. 50/2022, conv. In L. 91/2022).

Quanto invece alle somme erogate dalle stazioni appaltanti in favore degli appaltatori, queste assumono “natura di integrazione dell’originario corrispettivo stabilito per l’esecuzione dell’opera e del servizio e come tale risultano rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto”. E ciò, segnatamente in ragione del fatto che l’art. 13 del D.P.R. 633/1972 nel sancire il principio di onnicomprensività del corrispettivo, specifica che la base imponibile delle cessioni di beni e di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore di lavoro secondo le condizioni contrattuali a cui si sommano le integrazioni direttamente connessi ai corrispettivi dovuti ad altri soggetti.

Nella corposa motivazione del Parere, nel richiamare alcune circolari della stessa Agenzia, nonché le pronunce della Corte di Giustizia, l’Agenzia spiega che nei casi in cui sussiste un nesso di reciprocità tra le prestazioni del rapporto che lega le parti, la prestazione di denaro si qualifica come corrispettivo e l'operazione deve essere regolarmente assoggettata ad imposta. Diversamente, in mancanza di un nesso sinallagmatico tra gli importi erogati dalla parte pubblica o privata e la prestazione resa dalla controparte, le erogazioni di denaro si qualificano come contributi, ossia mere movimentazioni di denaro, e, in quanto tali, escluse dall'ambito applicativo dell'IVA.

A tal proposito, l’art. 73 della Direttiva n. 2006/112/CE precisa che sono soggette ad IVA anche le “sovvenzioni direttamente connesse al prezzo”. In tale locuzione rientrano, secondo la Corte di Giustizia ( CGUE, sentenza 22.11.201, C-184/00), le sovvenzioni che costituiscono il corrispettivo totale o parziale di un'operazione di fornitura di beni o di prestazione di servizi e che sono versate da un terzo al venditore o al prestatore. Perché la sovvenzione sia legata al prezzo è necessario che essa sia specificamente versata all'organismo sovvenzionato affinché fornisca un bene o effettui un determinato servizio. In questo caso la sovvenzione può essere configurata alla stregua di un corrispettivo della fornitura di un bene o della prestazione di un servizio.

In tal senso, dunque, sembrerebbe che secondo l’Agenzia, l’erogazione delle somme a titolo di compensazione in favore dell’appaltatore configurerebbero sovvenzioni connesse al prezzo e aventi ad oggetto un rapporto sinallagmatico: applicando tali principi alle conclusioni dell’Agenzia, sembrerebbe infatti possibile sostenere che questa abbia ritenuto che le compensazioni abbiano comunque la finalità di permettere all’appaltatore di garantire l’esecuzione dell’opera e, dunque, sarebbero comunque riconducibili alla dinamica contrattuale intercorrente tra la stazione appaltante e l’appaltatore. E ciò, dunque, a prescindere da fatto che sia intervenuto o meno il Fondo istituito presso il MIMS.

In conclusione, dunque, secondo l’Agenzia, ai fini del pagamento delle compensazioni da parte delle committenti gli appaltatori che hanno avanzato richiesta, si applica comunque il meccanismo dell’IVA secondo le modalità e l'aliquota già previste per l'originario contratto di appalto.

Agenzia Entrate – Risoluzione n. 39 del 13.7.2022

 


mobilità sostenibile

Sviluppo della mobilità sostenibile: le modifiche al codice della strada introdotte dal d.l. 68/2022

Qualche giorno fa è entrato in vigore il d.l. 16 giugno 2022, n. 68, recante “Disposizioni urgenti per la sicurezza e lo sviluppo delle infrastrutture, dei trasporti e della mobilità sostenibile, nonché' in materia di grandi eventi e per la funzionalità del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili”.
Il decreto contiene numerose novità in materia di mobilità sostenibile. L’art. 7 del decreto, infatti, modifica una serie di norme del codice della strada al fine ridurre gli oneri amministrativi a carico degli utenti, di favorire lo sviluppo della mobilità sostenibile e di incrementare la sicurezza della circolazione stradale.
Vediamo in dettaglio le novità di maggior rilievo.

Innanzitutto, il decreto attribuisce alle infrastrutture di ricarica dei veicoli la qualifica di pertinenze di servizio di cui all’art. 24 del codice della strada.
Di conseguenza, la norma specifica che le aree di ricarica dei veicoli possono appartenere anche a soggetti diversi dall'ente proprietario della strada e possono essere affidate dall'ente proprietario in concessione a terzi. Al fine di garantire la sicurezza della circolazione autostradale, la realizzazione delle pertinenze di servizio dovrà tenere conto sia delle disposizioni in materia di affidamento dei servizi di distribuzione di carbolubrificanti e delle attività, ma anche di quelle relative all’istallazione e alla gestione delle infrastrutture di ricarica per i veicoli elettrici.

Una delle novità di maggiore impatto è quella che attiene alla modifica delle classificazioni dei veicoli disciplinate dall’art. 47 del codice della strada e, in particolare, delle categorie L1e, L2e, L3e e L4e nella cui nozione viene introdotta anche la potenza del motore elettrico.

Di particolare rilevanza sono anche le modifiche apportate all’art. 50 del Codice della Strada che contiene la definizione di velocipedi. Come noto, a tale categoria di veicoli sono assimilati anche i monopattini.
Nella precedente formulazione della norma, infatti, nella definizione di velocipedi rientravano solo:

  • veicoli con due o più ruote funzionanti a propulsione esclusivamente muscolare, per mezzo di pedali o di analoghi dispositivi, azionati dalle persone che si trovano sul veicolo;
  • le biciclette a pedalata assistita, dotate di un motore ausiliario elettrico avente potenza nominale continua massima di 0,25 KW la cui alimentazione è progressivamente ridotta ed infine interrotta quando il veicolo raggiunge i 25 km/h o prima se il ciclista smette di pedalare

Il d.l. 68/2020 precisa che nella nozione di velocipedi rientrano anche le biciclette a pedalata assistita, dotate di un motore ausiliario elettrico avente potenza nominale continua massima di 0,5 kW se adibiti al trasporto di merci. L’intento della norma è chiaramente quello di favorire l’utilizzo di tali mezzi anche nel trasporto di merci nei piccoli tratti o nel tessuto cittadino.
A tal proposito viene modificato il comma 2 dell’art. 50 che disciplina i requisiti strutturali dei velocipedi adibiti al trasporto merci. Tali veicoli devono avere un piano di carico:

  • approssimativamente piano e orizzontale;
  • aperto o chiuso;
  • corrispondente al seguente criterio: lunghezza del piano di carico x larghezza del piano di carico ≥ 0,3 x lunghezza del veicolo x larghezza massima del veicolo.

A corredo della norma vengono altresì aggiunti i commi 2-bis e 2-ter secondo cui:

  1. i velocipedi a pedalata assistita che manchino di una o più delle caratteristiche previste dall’art. 50 devono essere considerati ciclomotori;
  2. chiunque fabbrica, produce, pone in commercio o vende velocipedi a pedalata assistita capaci di sviluppare una velocità superiore a quella prevista dalla legge o chi manomette i velocipedi a pedalata assistita al fine, alternativamente, di aumentare la potenza nominale continua massima del motore ausiliario elettrico o la velocità oltre i limiti posti dalla legge è soggetto al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria.

Sempre con riferimento al tema della mobilità sostenibile e della micromobilità elettrica, l’art. 7, comma 3 del decreto 68/2022 interviene sul d.l. 162/2019, portando da 12 a 24 mesi la proroga della sperimentazione sui mezzi di micromobilità elettrica.

In materia di comportamento dei pedoni e di autorizzazioni alla circolazione su strada pedonale delle macchine per uso di bambini o di persone invalide, il decreto consente la circolazione di macchine elettriche per la mobilità dei soggetti affetti da disabilità anche su piste ciclabili e sulle aree ciclopedonali e sulle strade urbane ciclabili.
L’art. 7 del d.l. 68/2022 permette altresì ai titolari di patenti B di guidare anche i veicoli senza rimorchio adibiti al trasporto delle merci che:

  • siano alimentati con i combustibili alternativi elencati all’articolo 2 della direttiva 96/53/CE (elettrici, a idrogeno, ecc.);
  • abbiano una massa autorizzata massima superiore a 3500 kg ma non a 4250 kg, con l’ulteriore condizione che la massa superiore ai 3500 kg non determini aumento della capacità di carico in relazione allo stesso veicolo e sia dovuta esclusivamente all'eccesso di massa del sistema di propulsione in relazione al sistema di propulsione di un veicolo delle stesse dimensioni dotato di un motore convenzionale a combustione interna ad accensione comandata o ad accensione a compressione.

Vengono altresì imposte delle limitazioni alla guida dei veicoli plug-in, il cui limite di potenza specifica è pari a 65 kW/t compreso il peso della batteria.

Ulteriori modifiche riguardano infine l’interdizione della conduzione dei veicoli e i rinnovi di patente ultraquinquennali.

Il comma 4 sospende infine l’incremento dell’onere concessorio delle autostrade A24 e A25 dal 1° luglio 2022 al 31 dicembre 2022 e comunque non oltre la conclusione della verifica della sussistenza delle condizioni per la prosecuzione dell'attuale rapporto concessorio. Per la durata del periodo di sospensione, si applicano le tariffe di pedaggio vigenti al 31 dicembre 2017.

Per completezza, si segnala che anche l’art. 8 del decreto in commento, guardando al sistema della mobilità, introduce alcune previsioni volte a migliorare la programmazione dei servizi di trasporto pubblico locale e regionale e, più in generale, della mobilità locale in tutte le sue modalità. A tal fine, sono introdotte delle modifiche alla denominazione, alla struttura e ai compiti dell’Osservatorio nazionale per il supporto alla programmazione e per il monitoraggio della mobilità pubblica locale sostenibile. Vengono altresì precisate le modalità di destinazione e ripartizione di risorse di Fondi statali e introdotto l’obbligo di trasmissione all’Osservatorio dei dati dell’attività manutentiva programmata. Infine, è autorizzata la spesa per la realizzazione degli interventi immediatamente cantierabili per l’ammodernamento delle ferrovie regionali.

DECRETO-LEGGE 16 giugno 2022, n. 68 Disposizioni urgenti per la sicurezza e lo sviluppo delle infrastrutture, dei trasporti e della mobilità sostenibile, nonché' in materia di grandi eventi e per la funzionalità del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. (GU Serie Generale n.139 del 16-06-2022)


Esecuzione del servizio di mensa scolastica. Le disposizioni Covid-19 sopravvenute si applicano anche alle gare già indette?

Le disposizioni volte a prevenire il contagio da Covid-19 sopravvenute sull’esecuzione del servizio di mensa scolastica si applicano anche alle gare indette prima della loro adozione? Che tipo di effetto comportano sull’offerta presentata, sulla gara e sull’esecuzione del servizio? A darci una risposta è di recente intervenuto il TAR Lecce.

Il caso origina da una gara indetta da un comune nel giugno del 2020 per l’affidamento del servizio mensa scolastica, della durata di tre anni.

Nell’agosto del 2020, uno degli operatori economici partecipanti aveva chiesto la revoca del bando di gara, in quanto le disposizioni in esso contenute non risultavano in linea con le disposizioni impartite dal CTS e recepite dal Ministero della Pubblica Istruzione. In particolare, dall’analisi delle determinazioni assunte a livello ministeriale per prevenire il contagio da Covid-19, emergeva la necessità che la gara venisse adattata ai nuovi standard qualitativi di sicurezza e di benessere, con necessità di rivedere e modificare l’oggetto del contratto e le modalità di esecuzione della prestazione. A seguito del rifiuto espresso dalla PA di revoca del bando nel settembre 2020, l’operatore aveva proceduto a impugnare la determinazione in questione e, con successivi motivi aggiunti, ad impugnare l’aggiudicazione definitiva e tutti i relativi atti di gara.

Secondo il ricorrente, infatti, la P.A. avrebbe violato, tra l’altro, il principio di immodificabilità dell’oggetto dell’appalto e avrebbe agito in violazione del “Documento per la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in tutte le Istituzioni del Sistema nazionale di Istruzione per l’anno scolastico 2020/2021” del 26 giugno 2020, adottato dal Ministero dell’Istruzione e del conseguente Protocollo di Sicurezza sottoscritto dal Ministero e dalle organizzazioni sindacali. Il Documento, infatti, ha previsto che, in conseguenza dell’emergenza sanitaria, la somministrazione dei pasti debba avvenire in modalità “Lunch box” o “Pasto monoporzione”, oppure con la consegna del pasto in classe al banco di ogni singolo studente. Secondo il ricorrente, poi, la disciplina dettata dall’emergenza da Covid-19 avrebbe previsto l’adozione di misure volte a garantire il distanziamento sociale anche nel servizio di mensa scolastica, con l’effettuazione di turni, una sanificazione accurata e costante delle aule prima e dopo il pasto, nonché un centro cottura con caratteristiche strutturali in grado di consentire di lavorare in sicurezza.

Che le disposizioni in questione abbiano comportato una modifica della prestazione era evidente, secondo il ricorrente, anche alla luce della Delibera ANAC n. 598 dell’8.7.2020, che ha evidenziato che le misure anti-contagio incidono in maniera significante nei contratti, incidendo sui costi della sicurezza, sulle tempistiche e sulle modalità di esecuzione delle prestazioni, e sono suscettibili di modificare in maniera sostanziale l’oggetto del contratto.

In ordine alle modalità di esecuzione del servizio, infatti, il Capitolato di gara aveva previsto un servizio di multi porzione, per cui il gestore avrebbe dovuto provvedere all’allestimento dei tavoli nella sala mensa, alla distribuzione e ripartizione delle porzioni agli studenti mediante l’utilizzo di carelli termici, a sbucciare loro la frutta, alla pulizia della sala mensa, al ritiro dei contenitori, e alle forniture di tovaglie e tovaglioli a perdere.

L’offerta tecnica della ricorrente risultava pertanto in linea con le richieste del Capitolato ma non più in linea rispetto alle disposizioni anti-contagio sopravvenute.

Il TAR Lecce ha tuttavia rigettato il ricorso.

Secondo i Giudici, le disposizioni sopravvenute del CTS e del Ministero che implicano, in particolare, la somministrazione dei pasti in modalità “Lunch box” o “Pasto Monoporzione” non sarebbero applicabili alla procedura in questione perché bandita prima della loro adozione. Accanto a ciò, il Collegio ha precisato che le suddette disposizioni non troverebbero applicazione in quanto nel caso di specie sarebbero applicabili unicamente le disposizioni regionali pugliesi che prevedono la somministrazione dei pasti nel locale refettorio o in altri spazi con le modalità e le precauzioni indicate. Peraltro, lo stesso Documento per la pianificazione delle attività scolastiche del Ministero prevedeva che “anche per la refezione le singole realtà scolastiche dovranno identificare soluzioni organizzative ad hoc che consentano di assicurare il necessario distanziamento attraverso la gestione degli spazi (refettorio o altri locali idonei), dei tempi (turnazioni), e in misura residuale attraverso la fornitura del pasto in “lunch box” per il consumo in classe”: la fornitura del pasto in lunch box per il consumo in classe sarebbe pertanto solo una misura eventuale e non un obbligo. Nell’ambito della gara in questione, inoltre, la stessa ASL aveva chiarito che, dal punto di vista igienico-sanitario, il servizio di monoporzione comporta una maggiore manipolazione dei pasti e un aumento del contatto con superfici contaminate, per cui - se non espressamente previsto - la modalità di somministrazione dei pasti può ben essere condotta in maniera tradizionale.

Infine, precisa il Collegio, la Stazione appaltante aveva integrato e riapprovato il Capitolato speciale d’appalto prevedendo che l’impresa aggiudicataria dovesse attenersi a tutte le norme e le disposizioni di sicurezza emanate e adottate dalle amministrazioni competenti. Tale integrazione, pertanto, era sufficiente “a superare, nella sostanza, la lamentata sopravvenuta inattualità del disciplina di gara”.

TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 5.5.2020, n. 714


Subappalto necessario nel settore dei beni culturali: per la Corte Costituzionale è ammissibile.

Le differenze operative tra subappalto necessario e avvalimento nel settore dei beni culturali sussistono, ed è legittimo il solo divieto di avvalimento sancito dall’art. 146, comma 3, del Codice. Così si è espressa di recente la Corte Costituzionale.

I contratti nel settore dei beni culturali sono da sempre oggetto di una specifica disciplina. Già il codice del 2006 ed il Regolamento d.P.R. 207/2010 avevano dettato delle norme particolari in materia di qualificazione delle imprese per l’esecuzione di lavori su beni di interesse culturale. Il regime giuridico dei contratti nel settore dei beni culturali conserva una disciplina autonoma e speciale anche nell’attuale codice, all’intero Capo III.

La ratio di un regime giuridico peculiare è da rivenire nella finalità di assicurare l’interesse pubblico alla conservazione e protezione dei beni culturali. L’art. 145 del d.lgs. 50/2016 specifica che tale disciplina peculiare si applica sia ai contratti relativi a beni culturali tutelati ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, sia all’esecuzione di scavi archeologici e subacquei.

Tra gli aspetti peculiari che connotano la disciplina dei contratti nel settore dei beni culturali, l’art. 146, comma 3, del Codice, impone il divieto di avvalimento di cui all’art. 89.

Con ordinanza n. 195/2020, il TAR Molise aveva rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità degli artt. 105 e 146 del Codice dei contratti pubblici per contrasto con gli artt. 3 e 9 della Costituzione, nella parte in cui prevedono un trattamento differenziato per avvalimento e subappalto, in particolare non essendo sancito per il settore dei beni culturali anche il divieto di subappalto, nella peculiare figura del subappalto necessario.

Il caso

L’occasione trae origine da una procedura aperta per l’affidamento dei lavori di adeguamento degli impianti di videosorveglianza, antiintrusione e controllo degli accessi di taluni istituti afferenti ad un polo museale regionale. Il disciplinare di gara prevedeva come categoria scorporabile a qualificazione obbligatoria, la OG2 (relativa al restauro e manutenzione dei beni immobili sottoposti a tutela), pari al 22% dell’importo dell’appalto.

Nell’ambito del giudizio, la ricorrente terza classificata impugna gli atti della procedura sostenendo che non sarebbe stato possibile utilizzare il subappalto necessario nell’appalto in questione poiché era stato attivato in relazione ad una categoria SOA (la OG2) per la quale, in forza dell’art. 146, comma 3, non è ammesso l’istituto dell’avvalimento. La categoria OG2, essendo a qualificazione obbligatoria, avrebbe dovuto essere posseduta dal concorrente in proprio: il mancato possesso non era suscettibile di essere sanato mediante avvalimento, né, dunque, mediante subappalto qualificante, istituto invece adoperato dal concorrente.

Con ordinanza n. 195/2020, i giudici del TAR Molise hanno posto la questione di legittimità costituzionale avuto riguardo all’utilizzo del subappalto necessario nella peculiare categoria di contratti nel settore dei beni culturali e, più precisamente, nella parte in cui gli artt. 105 e 146 del Codice prevedono un trattamento differenziato per avvalimento e per il subappalto necessario.

Richiamando le analogie e le differenze dei due istituti, accomunati entrambi da finalità pro-concorrenziali, i giudici hanno precisato come l’avvalimento offrirebbe maggiori garanzie rispetto al subappalto: in particolare, ove questo è “confinato alla fase esecutiva dell’appalto e sottratto ai controlli amministrativi aventi sede nella procedura di gara: (i) si presta ad una possibile sostanziale elusione dei principi di aggiudicazione mediante gara e di incedibilità del contratto; (ii) costituisce un mezzo di possibile infiltrazione negli pubblici appalti della criminalità organizzata, la quale può sfruttare a suo vantaggio l’assenza di verifiche preliminari sull’identità dei subappaltatori proposti e sui requisiti di qualificazione generale e speciale di cui agli artt. 80 e 83 del d.lgs. n. 50 del 2016; (iii) conosce una prassi applicativa talora problematica, poiché la tendenza dell’appaltatore a ricavare il suo maggior lucro sulla parte del contratto affidata al subappaltatore (tendenzialmente estranea ad ingerenze della stazione appaltante) produce riflessi negativi sulla corretta esecuzione dell’appalto, sulla qualità delle prestazioni rese e sul rispetto della normativa imperativa in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro”.

Nella disciplina dei contratti nel settore dei beni culturali, una limitazione al subappalto sarebbe peraltro giustificata dal peculiare interesse pubblico a cui la disciplina di tali beni fa capo, restando consentita una simile estensione anche dalla stessa normativa europea che ammette meccanismi derogatori al libero mercato nei casi in cui si renda necessario proteggere il patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale.

La decisione della Consulta

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale per le seguenti ragioni.

In primo luogo, il Collegio ritiene che la ratio del divieto di avvalimento per i beni culturali, previsto dall’art. 146, comma 3 del Codice, risiede nell’esigenza di affidare i lavori che riguardano i beni culturali a soggetti particolarmente affidabili e muniti di qualificazione specialistiche, proprio al fine di assicurare adeguata tutela a tali beni.

Ciò in ragione del fatto che l’avvalimento determina “un effetto giuridico, che, a seconda delle risorse offerte, può essere variamente conseguito attraverso il «i) mandato [...], ii) [...] [l'] appalto di servizi, nonché iii) [la] garanzia atipica» (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 4 novembre 2016, n. 23) o altro contratto tipico o atipico”.

L'avvalimento, infatti, permetta temporaneamente di operare un'integrazione dell'aggiudicataria con i mezzi, i beni o le competenze professionali messi a disposizione dall'ausiliario, che sono indispensabili ai fini della partecipazione alla gara: per queste ragioni, il contratto deve indicare con precisione i requisiti prestati e deve essere accompagnato da una dichiarazione dell'impresa ausiliaria, con cui essa attesta, oltre al possesso dei requisiti, anche il suo impegno, nei confronti non soltanto del concorrente, ma della stessa stazione appaltante, a fornire le risorse di cui il primo è carente.

Quanto alla fase esecutiva dell'appalto, invece, l’impresa ausiliaria non è tenuta ad eseguire le prestazioni riferite alle risorse offerte e, dunque a ad eseguire direttamente i lavori, ferma restando la facoltà dell'aggiudicatario di stipulare con l'ausiliaria anche un contratto di subappalto. L'art. 89, comma 8, del Codice dispone, infatti, che l'esecuzione spetta all'aggiudicatario, che deve integrare al proprio interno le risorse dell'ausiliario.

Pertanto, non essendo prevista alcuna garanzia che l’esecuzione dei lavori venga effettuata direttamente dall’ausiliaria, è ragionevole il divieto sancito all'art. 146, comma 3, del d.lgs. 50/2016 per il settore dei beni culturali.

Lo stesso non vale, invece per il subappalto.

Secondo il Collegio, infatti, “il subappalto, pur condividendo con l'avvalimento taluni caratteri e finalità, a partire dal favor partecipationis, si connota per una disciplina, che garantisce la tutela dei beni culturali, ove siano oggetto del contratto”. Due sono gli aspetti che li distinguono.

Il primo, attiene al fatto che il subappalto presuppone che l'impresa abbia i requisiti per partecipare alla gara. Nei contratti di lavori, infatti, opera il c.d. subappalto necessario (vigente ex art. 12, comma 2, l. 80/2014, tuttora vigente) in forza del quale l'impresa che non disponga di tutte le qualificazioni richieste per le singole lavorazioni oggetto dell'appalto, è tenuta a possedere almeno l'attestazione SOA relativa alla categoria prevalente per l'importo totale dei lavori oggetto del contratto. Solo nel caso delle categorie a qualificazione non obbligatoria, infatti, l'aggiudicatario può eseguire anche in proprio le relative lavorazioni, sfruttando l'attestazione SOA posseduta nella categoria prevalente (art. 12, comma 2, lett. a), l. 80/2014). Per le categorie a qualificazione obbligatoria, infatti, l'ordinamento impone che l'esecutore dei lavori abbia tale specifica qualificazione. Di conseguenza, il concorrente, pur se dotato dei requisiti prescritti ai fini della partecipazione alla gara - grazie all'attestazione SOA posseduta nella categoria prevalente -, non può eseguire in proprio le lavorazioni inerenti alle categorie a qualificazione obbligatoria, dovendo necessariamente ricorrere al subappalto. Al contrario, nel caso dell'avvalimento, il concorrente che da solo non dispone delle qualifiche per partecipare alla gara, può integrare le risorse e le competenze necessarie tramite l'avvalimento, eseguendo tuttavia in proprio le relative prestazioni.

Di conseguenza, il secondo aspetto che differenzia subappalto e avvalimento attiene al fatto che il subappalto – quale “subcontratto che si dirama dal modello dell'appalto” – ha ad oggetto un’obbligazione tipica sancita dall’art. 1655 c.c., ossia il compimento “con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio” di un'opera o di un servizio “verso un corrispettivo in denaro”. In sostanza, l'esecuzione dei lavori in proprio ad opera del subappaltatore rientra tra le obbligazioni tipiche del subappalto, cui, viceversa, risulta in toto estranea l'obbligazione a prestare unicamente requisiti.

Il subappalto, dunque, garantisce che l'esecuzione della prestazione sia effettuata in proprio e in via diretta dal subappaltatore.

Nel settore dei beni culturali, peraltro, l'art. 148, comma 4 del Codice – secondo cui “[i] soggetti esecutori dei lavori di cui al comma 1 [riferito ai beni culturali e del paesaggio] devono in ogni caso essere in possesso dei requisiti di qualificazione stabiliti dal presente capo” -, assicura a maggior ragione che il subappaltatore esecutore dei lavori disponga delle necessarie qualificazioni specialistiche, per cui è il subappaltatore a rispondere della sua esecuzione nei confronti del subappaltante, a sua volta responsabile verso il committente.

In tal senso, muove anche l’ultima novella, il c.d. decreto semplificazioni bis (d.l. 77/2021) che ha oramai previsto anche una responsabilità solidale del subappaltatore e dell'appaltatore verso il committente, “segno di una tendenza a potenziare ulteriormente le garanzie offerte con il subappalto”.

In conclusione, dunque, secondo la Corte Costituzionale, è del tutto legittimo il divieto di ricorso all’avvalimento e non del subappalto proprio perché quest’ultimo garantisce che l'operatore che esegue i lavori è dotato in proprio di una qualificazione specialistica, e questo di per sé assicura una effettiva e adeguata tutela ai beni culturali. Al contrario, infatti, chiosa il Collegio, proprio un eventuale divieto di subappalto potrebbe tradursi in una compressione del principio della concorrenza irragionevole, oltre che dell'autonomia privata, non priva di criticità, specie alla luce delle note pronunce della Corte di Giustizia.

Corte Cost., 11/04/2022, n. 91


L’ANAC aggiorna il Bando Tipo n. 1 con clausola revisione prezzi per servizi e forniture

L’ANAC aggiorna il Bando Tipo n. 1 con clausola revisione prezzi per servizi e forniture

L’ANAC ha aggiornato il Bando di gara Tipo n. 1 per l’affidamento dei contratti pubblici sopra soglia di servizi e forniture introducendo, tra le varie novità, le clausole di revisione dei prezzi.

Come noto, a seguito dell’entrata in vigore del d.l. 4/2022 (conv. con mod. in L. 25/2022), fino al 31.12.2023 è obbligatorio l’inserimento nei documenti di gara iniziali della clausola revisione prezzi prevista dall’art. 106, comma 1, lett. a) del Codice.

La previsione, quindi, ha reso obbligatorio l’inserimento nei bandi di gara della clausola di revisione dei prezzi, al fine di incentivare gli investimenti pubblici e di far fronte alle ricadute economiche negative dall’emergenza sanitaria globale, nonché dalla guerra ucraina.

In ossequio alla nuova normativa, con Delibera n. 154 del 16.3.2022, l’ANAC ha aggiornato il Bando Tipo n. 1 inserendo, al punto 3.3, la clausola revisione prezzi. Vediamone il contenuto.

In primo luogo, nella clausola è richiesta l’indicazione delle modalità di revisione dei prezzi, in aumento o in diminuzione. A tal fine, l’ANAC suggerisce la possibilità, ad esempio, di fare riferimento ai prezzi standard rilevati dall’ANAC (di cui all’art. 9, comma 7, del decreto legge 66/2014), agli elenchi dei prezzi rilevati dall’ISTAT, oppure alla differenza tra l’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, al netto dei tabacchi (c.d. FOI) disponibile al momento del pagamento del corrispettivo e quello corrispondente al mese/anno di sottoscrizione del contratto.

Può altresì essere indicata la variazione percentuale di riferimento che permette di accedere alla revisione. In tal senso, appare logico desumere che nel caso in cui venga indicata una soglia percentuale, questa debba sommarsi alla c.d. alea contrattuale.

Vengono altresì inserite alcune previsioni facoltative, come la possibilità, nei contratti di durata superiore all’anno, di prevedere l’aggiornamento dei prezzi a partire dalla seconda annualità contrattuale, oppure la possibilità di limitare il ricorso alla revisione dei prezzi per variazioni superiori ad una data percentuale del prezzo originario o, ancora, di richiederla una sola volta per ciascuna annualità.

Nella nota illustrativa di accompagnamento al Bando Tipo si evidenzia altresì che la disciplina di maggior dettaglio della clausola può essere inserita nel capitolato speciale d’appalto. In particolare, secondo l’Autorità, nel capitolato speciale dovranno essere indicate le modalità per la richiesta della revisione in aumento o per la comunicazione, da parte del RUP, della revisione in diminuzione, i documenti probatori da presentare per comprovare l’aumento dei prezzi (ad esempio la dichiarazione di fornitori o subcontraenti; le fatture pagate per l’acquisto di materiali; le bollette per utenze energetiche), i termini della richiesta, le modalità dell’istruttoria, le modalità di calcolo da seguire per l’applicazione della revisione e, in particolare, dovranno essere indicati gli importi ai quali la percentuale di variazione si applica.

In conclusione, ricordiamo che nonostante il Bando in questione sia riferito a procedure aperte telematiche per i contratti di servizi e forniture sopra soglia comunitaria, lo stesso costituisce un valido spunto anche per gli altri bandi e avvisi.

L’art. 29, comma 1, lett. a) infatti prevede che la clausola revisione prezzi si applichi a tutti i contratti pubblici e, dunque, sia per lavori che servizi e forniture, a prescindere dal loro importo, restando irrilevante la circostanza che si tratti di contratti sopra-soglia o sotto-soglia UE.

In ogni caso, l’art. 29, comma 1, lett. a), rinviando al secondo e al terzo periodo dell’art. 106, comma 1, lett. a), prevede che la clausola revisione prezzi debba essere chiara, precisa e inequivocabile, e non deve essere tale da alterare la natura generale del contratto. Tali clausole devono in ogni caso fissare la portata e la natura di eventuali modifiche nonché le condizioni alle quali esse possono essere impiegate, facendo riferimento alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti.

Una clausola, pertanto, generica, ambigua o la cui attivazione comporterebbe delle modifiche sostanziali del contratto potrebbe essere illegittima e comportare l’impugnazione del bando, dell’avviso o della lettera di invito.

Delibera ANAC n. 154 del 16 marzo 2022


revisione prezzi

Revisione prezzi: istanza inammissibile prima della stipulazione del contratto

revisione prezziIl tema della revisione prezzi negli appalti pubblici sta entrando sempre più a far parte della vita quotidiana degli operatori che continuano a subire gli effetti degli aumenti dei costi dei materiali.

Come fronteggiare l’aumento dei costi dell’appalto che si verifica nelle more della stipula del contratto? Cosa è possibile fare se la revisione prezzi non è prevista dal contratto?

Una parziale risposta ai quesiti ci giunge da una recentissima sentenza del TAR Lombardia.

Partiamo dal caso. Nel giugno del 2018 un Comune bandiva una procedura aperta per l’affidamento dei servizi integrati di igiene urbana. Alla gara partecipavano due concorrenti. La seconda classificata, gestore uscente del servizio, aveva impugnato l’esito della procedura in quanto l’aggiudicataria difettava dei requisiti morali di cui all’art. 80 d.lgs. 50/2016. Dopo il rigetto del ricorso da parte del TAR, il Consiglio di Stato aveva accolto l’appello proposto dall’impresa che, dunque, era divenuta aggiudicataria dell’appalto. Il Comune aveva così disposto l’avvio del servizio a partire dal 1 ottobre 2020 e, nelle more, la proroga del servizio in capo alla medesima impresa, quale gestore uscente.

Sennonché nell’agosto 2020, la ricorrente si trovava costretta a chiedere all’amministrazione appaltante la revisione dei prezzi offerti in gara, ai sensi dell’art. 106 del d.lgs. 50/2016, al fine di rimediare all’aumento dei costi di smaltimento, e alla parallela diminuzione degli introiti, intervenuto nel periodo intercorrente tra l’indizione della gara (giugno 2018) e la successiva aggiudicazione alla richiedente (agosto 2020).

Secondo la ricorrente, i costi di smaltimento dei rifiuti avevano subito un incremento medio di oltre il 40% sui valori precedenti. Si trattava, secondo la ricorrente, di circostanze imprevedibili alla data di formulazione dell’offerta e tali da sconvolgere il piano economico di esecuzione contrattuale, implicando a carico del gestore una perdita economica, con conseguente indebito arricchimento dell’amministrazione comunale. Di qui la necessità di riequilibrare le condizioni economiche del contratto.

L’amministrazione appaltante respingeva la richiesta e invitava la società a stipulare il contratto, comunicando che in difetto avrebbe revocato l’aggiudicazione.

Avverso la determinazione dell’amministrazione, l’impresa ha promosso ricorso al TAR.

Secondo la ricorrente, dunque il provvedimento di diniego di revisione prezzi sarebbe errato perché:

  1. ha ricondotto l’istanza di revisione alla fattispecie di cui alla lett. a) dell’art. 106 comma 1, d.lgs. 50/2016, ossia alla revisione prezzi, mentre la ricorrente l’aveva formulata ai sensi della lett. c) della stessa norma, allegando cioè un deterioramento delle condizioni economiche dell’appalto derivante da “circostanze impreviste e imprevedibili”, quali l’aumento dei costi di smaltimento e la parallela diminuzione degli introiti intervenuti nel periodo intercorrente tra l’indizione della gara e la successiva aggiudicazione alla richiedente.
  2. ha ritenuto che l’art. 106 comma 1 lett. c) sarebbe utilizzabile soltanto in presenza di un contratto in corso, e non in presenza di un contratto non ancora stipulato, vigendo in tale fase il principio della modificabilità dell’offerta a tutela della par condicio dei concorrenti. La ricorrente, invece, dopo l’esclusione dell’unica altra concorrente per difetto dei requisiti di partecipazione, era rimasta l’unica legittimata all’aggiudicazione, per cui non vi sarebbe stata alcuna esigenza di tutela della par condicio.
  3. il rigetto era stato motivato sulla scorta dell’art. 46 comma 2 del capitolato speciale, che escludeva espressamente la revisione prezzi dell’appalto in caso di aumento dei costi unitari relativi allo smaltimento e al trattamento dei rifiuti. Secondo la ricorrente, invece, il divieto di revisione prezzi previsto dall’art. 46 sarebbe ricollegabile esclusivamente alla lett. a) dell’art. 106 comma 1, e non alla lett. c) della stessa norma, invocata dalla ricorrente, basata sul sopravvenire in corso d’opera di circostanze impreviste e imprevedibili al momento della formulazione dell’offerta.
  4. secondo l’amministrazione, l’aumento dei costi di smaltimento sarebbe stato del tutto prevedibile in sede di offerta.

Il TAR, tuttavia, ha respinto il ricorso in relazione a tutti i profili dedotti.

Innanzitutto, il TAR ha ritenuto infondata la pretesa della parte ricorrente di inquadrare la propria domanda nella lett. c) dell’art. 106 comma 1 d.lgs. 50/2016, che non disciplina la revisione dei prezzi, bensì le varianti in corso d’opera. La domanda della ricorrente, infatti, era da inquadrarsi, secondo il Collegio, nell’ambito della revisione prezzi prevista dall’art. 106, comma 1, lett. a).

Peraltro, secondo i giudici, anche a voler qualificare la richiesta della ricorrente nell’ambito della lett. c) dell’art. 106, non era stata in ogni caso provata la sopravvenienza di circostanze impreviste e imprevedibili, in quanto la ricorrente si era limitata a documentare un aumento del costo generale del servizio e del servizio di spazzamento, non anche dello smaltimento e del trasporto dei rifiuti. Secondo i giudici, poi, che un simile aumento dei costi non fosse un evento imprevisto e imprevedibile alla data di indizione della gara in esame sarebbe dimostrato proprio dallo stesso art. 46 comma 1 del capitolato speciale di gara, che escludeva la revisione dei costi unitari afferenti allo smaltimento e al trattamento dei rifiuti a carico dell’impresa aggiudicataria.

Inquadrando la richiesta della ricorrente nella revisione prezzi prevista dall’art. 106, comma 1, lett. a), i giudici hanno precisato che sebbene la norma rimetta alla discrezionalità della stazione appaltante l’inserimento o meno di clausole revisione prezzi nei documenti di gara, in assenza di una simile clausola, l’impresa è comunque tutelata per i casi di aumento sproporzionato dei costi dell’appalto, potendo attivare l’art. 1467 c.c., ossia la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Nel caso di specie, era espressamente esclusa la clausola di revisione prezzi che, in ogni caso non poteva essere formulata dall’impresa aggiudicataria prima della stipulazione del contratto.

In tale fase, infatti, i giudici hanno escluso la possibilità di ricorrere ad un simile rimedio. L’istituto della revisione prezzi, infatti, presuppone, per sua stessa natura, la presenza di un contratto già in corso e che includa una clausola revisione prezzi. A prescindere dalla presenza di una clausola revisione prezzi, nella fase tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto, come quella in esame, una volta cessata la vincolatività dell’offerta - che a norma dell’art. 32, comma 4 del Codice è tale per un periodo di 180 giorni dalla scadenza del termine per la sua presentazione -, l’impresa aggiudicataria può legittimamente svincolarsi dal contratto e rifiutarne la sottoscrizione.

Sulla scorta di tali considerazioni i giudici, dunque, hanno rigettato interamente il ricorso, con conseguente condanna alle spese interamente a carico della ricorrente.

Analizzando tuttavia il testo della sentenza, fermo restando la peculiarità del servizio in questione, diverse erano le soluzioni a disposizione dell’impresa per ovviare alla situazione di rincaro dei costi verificatasi nelle more della stipula del contratto.

Preliminarmente, è necessario precisare che l’applicabilità dell’art. 106, ossia delle modifiche contrattuali, alla delicata fase che interviene tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto è ampiamente discussa in giurisprudenza. Vi sono infatti sentenze che ammettono l’attivazione delle soluzioni promosse dalla norma anche in questa delicata fase, purché le modifiche attengano ad aspetti meramente esecutivi.

In questa delicata fase, tuttavia, come sottolineato anche dal giudice, l’impresa avrebbe potuto svincolarsi dal contratto e non sottoscriverlo, posto che la sua offerta non era più vincolante e, dunque, non sarebbe incorsa in alcuna sanzione. Peraltro, il rifiuto dell’impresa di sottoscrivere il contratto avrebbe determinato la riedizione della gara, non essendoci altri partecipanti in graduatoria (l’altro operatore concorrente, infatti, era stato escluso a seguito della sentenza del Consiglio di Stato per carenza dei requisiti ex art. 80 del Codice), per cui la ricorrente avrebbe potuto partecipare alla nuova gara con prezzi aggiornati, garantendosi in ogni caso una proroga del servizio, essendo il gestore uscente.

In secondo luogo, ove l’impresa avesse voluto comunque conseguire il contratto, avrebbe potuto procedere alla sottoscrizione dello stesso con riserva, manifestando di non accettare l’eventuale revisione dei prezzi non idonea al ristoro o comunque clausole inerenti all’importo totale dell’affidamento. L’istituto delle riserve, se ben utilizzato, rappresenta l’unico strumento in grado di tenere indenne l’impresa contraente dalle conseguenze derivanti dal rincaro dei prezzi.

Ad ogni modo, dopo la sottoscrizione del contratto con riserva, è possibile procedere con un’istanza di adeguamento dei prezzi prima della consegna del cantiere, dialogando con l’amministrazione, oppure proporre alla committenza la stipula di un atto aggiuntivo che modifichi in parte l’importo del contratto.

A tal proposito ricordiamo che il comma 1 dell’art. 29 del decreto Sostegni-ter prevede che per i bandi o gli avvisi pubblicati a partire dal 27 gennaio 2022 e fino al 31 dicembre 2023 è obbligatorio l’inserimento, nei documenti di gara, delle clausole di revisione dei prezzi previste dall’art. 106, comma 1, lett. a) del Codice.

Da ultimo, poi, l’impresa avrebbe potuto istaurare delle trattative con l’Amministrazione basate sull’imprevedibilità del crescente aumento dei prezzi dovute anche alla straordinaria ed eccezionale situazione pandemica, evidentemente imprevedibile per gli atti di gara anteriori al 2020. Fondamentale, dunque, è analizzare le singole situazioni e argomentare bene le istanze che vengono presentate alle amministrazioni.

Si tratta evidentemente di mere riflessioni, la cui percorribilità deve sempre essere vagliata in relazione al caso di specie.

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 10/03/2022, n. 239


Colonnine di ricarica auto elettriche nelle stazioni di servizio di carburante: i Comuni possono imporre l’obbligo di istallazione, ma non a tappeto

Colonnine di ricarica auto elettriche nelle stazioni di servizio di carburante: i Comuni possono imporre l’obbligo di istallazione, ma non a tappeto

Colonnine di ricarica auto elettriche nelle stazioni di servizio di carburante: i Comuni possono imporre l’obbligo di istallazione, ma non a tappetoLa sfida della mobilità sostenibile passa anche per una progressiva diffusione dei veicoli elettrici e per la crescita di colonnine di ricarica auto elettriche. I Comuni possono imporre l’obbligo di istallazione nelle stazioni di servizio di carburante?

Il Regolamento per la Qualità dell’Aria adottato dal Comune di Milano impone una diffusa e generalizzata installazione di colonnine di ricarica per auto elettriche.

Proprio tale aspetto è stato di recente affrontato dal TAR Lombardia che, con la sentenza n. 2857/2021 ha annullato il Regolamento nella parte in cui obbligava ogni stazione di servizio di carburante della zona a installare anche le colonnine di ricarica per auto elettriche.

Il Regolamento in questione, infatti, imponeva, nel caso di realizzazione di nuove stazioni di servizio di carburante e di ristrutturazione totale degli impianti esistenti, “di installare infrastrutture di ricarica elettrica di potenza elevata almeno veloce, superiore a 22 kW e pari o inferiore a 50 kW”.

Per le stazioni di servizio di carburante già esistenti, invece, imponeva la dotazione di infrastrutture di ricarica per auto elettriche il cui progetto deve essere presentato entro il 1 gennaio 2022, e da realizzarsi entro 12 mesi dalla presentazione, in linea con le specifiche contenute nel Disciplinare per le strutture di ricarica per auto elettriche del Comune di Milano.

Alcuni titolari di stazioni di servizio di carburante nel territorio del Comune di Milano e le associazioni di categoria hanno impugnato il Regolamento, censurando l’erroneità e la sproporzione delle relative previsioni ritenute troppo gravose sia in termini economici che con riferimento ai tempi per ottemperare all’obbligo, oltre che essere errate perché non tengono conto delle effettive dimensioni del mercato nazionale dei veicoli elettrici, essendo peraltro indimostrato l’impatto di tale misura sulla riduzione delle emissioni.

Accanto a ciò, hanno poi lamentato la violazione della fase di consultazione con gli stakeholders e le associazioni di categoria del progetto di piano, che sarebbe stata omessa dal Comune nella fase antecedente la pubblicazione, oltre ad una più generale incompetenza del Comune nell’adozione di imposizioni come quelle in esame.

Prima di affrontare le censure promosse, il TAR ricostruisce il campo genetico del Regolamento.

La normativa impugnata, infatti, si colloca nel più ampio contesto dell’intervento sistematico di cui al Piano Aria e Clima (PAC) del Comune di Milano (delibera n. 79 del 21.12.2020), che mira ad incidere su una serie di fattori ben individuati ritenuti responsabili del persistente superamento dei limiti massimi di concentrazione degli inquinanti atmosferici. Lo scopo di tali atti, riconosciuto anche dai giudici, è quello di ottemperare ai vincoli nazionali e sovranazionali, migliorando l’ambiente cittadino e contrastando il cd. “inquinamento atmosferico di prossimità”, profondamente incidente sulla vivibilità del territorio da parte dei residenti.

Tra i mezzi individuati dal Comune di Milano per far fronte alla problematica vi sono una serie di misure volte a favorire il cd. “passaggio all’elettrico”, incidendo così sull’inquinamento generato dal traffico veicolare.

Possono i comuni imporre l’obbligo di installazione di colonnine di ricarica per auto elettriche?

Passando poi all’analisi delle singole censure, il TAR ha in primo luogo riconosciuto la possibilità per il Comune di poter prescrivere degli oneri come quelli in esame. Più precisamente, l’art. 50, comma 7-ter del TUEL, modificato nel 2017, prevede che i comuni possono adottare regolamenti per fronteggiare a situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana”, non solo in situazioni di urgente necessità di intervento, ma anche nel caso in cui le problematiche necessitino “una gestione “strutturale” di lungo periodo”.

Alla base dell’esercizio di tale potere regolamentare, secondo i giudici, deve comunque esserci la necessità di gestire una situazione di disagio, di degrado o di scarsa vivibilità di rilievo locale, correlata al territorio di riferimento ed alla popolazione ivi stabilita.

Il Regolamento adottato dal Comune di Milano, dunque, si colloca nell’ambito di una serie di interventi volti a contenere l’inquinamento ambientale del territorio del comune, segnalato anche da alcune procedure di infrazione europea, e per cui le misure temporanee adottate sino ad ora con mere ordinanze sindacali non si sono rivelate sufficienti.

Tale situazione, in definitiva, ad avviso del Collegio, è riconducibile ad una situazione di degrado ambientale di cui all’art. 50, commi 5 e 7-ter d.lgs. 267/2000, per cui il Comune può, o meglio, deve intervenire.

È con riferimento al contenuto del Regolamento in esame che i giudici hanno invece accolto il ricorso.

Secondo il TAR, il Comune di Milano avrebbe imposto “un obbligo generalizzato, gravante su tutti i gestori di impianti di distribuzione ed a prescindere da qualsivoglia altro elemento oggettivo di selezione (ubicazione, dimensioni, volume di carburante erogato, superamento limiti normativi di inquinanti)”.

Rispetto alla normativa regionale, infatti, il Regolamento comunale avrebbe esteso ingiustificatamente il novero di soggetti tenuto all’istallazione delle colonnine di ricarica elettrica, con il risultato di “far ricadere sulla sola categoria dei gestori degli impianti di distribuzione di carburanti ed a prescindere dalla capacità economica del singolo, gran parte degli oneri (non solo economici, ma anche amministrativi e progettuali), della sostanziale transizione all’elettrico, sul piano infrastrutturale, del Comune di Milano”.

Di interesse sono senza dubbio le considerazioni che il TAR svolge in merito al fenomeno delle auto elettriche e dei relativi dispositivi di ricarica, che potrebbero trovare spazio anche in vicende analoghe.

Secondo i Giudici, infatti, le esigenze effettive dell’utenza non sono ancora univocamente rivolte verso il mercato dei veicoli elettrici: sebbene infatti, “la diffusione delle auto elettriche – a Milano come a livello nazionale - stia progressivamente aumentando e sia altresì innegabile che “il fenomeno della mobilità elettrica […] sia in crescita e che i numeri attuali siano destinati ad aumentare decisamente nel giro di pochi anni” è altresì non revocabile in dubbio che i veicoli elettrici rappresentano ancora una piccola parte del circolante”.

Nonostante il TAR riconosca come l’incremento numerico delle colonnine di ricarica per auto elettriche costituisca, per il futuro, “il passaggio obbligato” per incentivare l’abbandono dei veicoli inquinanti, ritiene comunque l’azione posta in essere dal Comune di Milano non condivisibile, perché priva di gradualità nell’adozione di obblighi, nonché priva di un adeguato supporto istruttorio e motivazionale.

In definitiva, il TAR suggerisce che per l’istallazione delle colonnine di ricarica per auto elettriche si debba tener conto della loro ubicazione, quantità e distribuzione sul territorio, oltre ad essere valutata con riferimento a diversi fattori, come ad esempio la densità abitativa e/o veicolare, la tipologia di strada, le esigenze di circolazione e, dunque, in definitiva, avuto conto delle effettive esigenze della popolazione.

(TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 21.12.2021, n. 2857)