Formulario rifiuti, omessa o incompleta compilazione casella di competenza del destinatario: no a responsabilità del produttore.
La Suprema Corte affronta, con una recente pronuncia, il tema della omessa o incompleta compilazione nei formulari rifiuti della casella di competenza del destinatario chiedendosi se sussiste o meno la responsabilità del produttore.
Un caso diverso rispetto a quelli in riferimento ai quali la Corte di Cassazione è intervenuta in passato e che riguardavano incompletezze dei formulari all'atto della partenza, quindi imputabili al produttore in quanto soggetto tenuto a redigere e sottoscrivere i documenti a quell'atto e quindi direttamente sanzionabile per dette incompletezze.
Vale ricordare infatti, a titolo esemplificativo, che:
- sussiste la pari e diretta responsabilità del trasportatore, anch'egli obbligato a verificare i dati dei rifiuti in partenza e a redigere, pro parte, il formulario (Cass., n. 20862/2009 e Cass. 34031/2019, in relazione all’art. 193, d.lgs. 152/2006 sostanzialmente riproduttivo di quanto previsto nel decreto Ronchi – d.lgs. 22/1997);
- l'omessa indicazione, imputabile al produttore del peso dei rifiuti poi verificato a destino - con conseguente elusione della normativa, che ha la funzione di consentire un esatto controllo sulla natura e sulla quantità dei rifiuti trasportati, cosi da garantire una completa tracciabilità di tale attività - non può intendersi supplita dall'avvenuta accettazione per intero del carico da parte del destinatario, inidonea al fine di ritenere comunque ricostruibile l'informazione omessa (Cass., n. 34038/2019).
In dettaglio, accadeva che i formulari di 169 trasporti di rifiuti speciali non pericolosi prodotti da una società mancavano dei dati obbligatori della casella 11, riservata al destinatario. A seguito di tale accertamento, la Provincia emetteva a carico della suddetta società produttrice e del relativo rappresentante legale una ordinanza di ingiunzione per il pagamento della sanzione prevista per concorso con il destinatario e con il trasportatore nell'illecito di cui all’art. 52, comma 3, del decreto Ronchi, applicabile ratione temporis.
L'impugnazione proposta avverso tale ordinanza di ingiunzione dalla produttrice respinta dal Tribunale di primo grado.
In secondo grado, l’appellante eccepiva, tra le altre, che nella sostanza era da applicarsi l’art. 52, comma 4, e non il comma 3, con conseguente riduzione della sanzione giacché le indicazioni erano formalmente incomplete o inesatte ma i dati riportati nella comunicazione al catasto, nei registri di carico e scarico, nei formulari di identificazione dei rifiuti trasportati e nelle altre scritture contabili tenute in base a legge consentivano di ricostruire le informazioni dovute.
Eccezione che veniva accolta dalla Corte di Appello.
La questione finisce in Cassazione su iniziativa della Città Metropolitana (già Provincia) e, in via incidentale, della società produttrice.
Ad avviso della Corte, tra le questioni pregiudiziali poste in ricorso incidentale - pregiudiziali rispetto a quelle sollevate con il ricorso principale - fondata e assorbente è quella relativa alla dedotta insussistenza dei presupposti del concorso nella consumazione dell'illecito di indicazione di dati incompleti nei 169 formulari, commesso dalla società destinataria dei rifiuti, omettendo di compilare la casella 11 dei formulari.
La Corte di Appello ha aderito, erroneamente ad avviso della Suprema Corte, alla tesi sostenuta dalla Provincia affermando che la relativa sanzione “può essere comminata anche al produttore che, come nel caso, abbia conferito incarico al vettore in caso di trasporto con uso di formulario contenente dati incompleti”.
Ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. 22/1997: “1.Durante il trasporto i rifiuti sono accompagnati da un formulario di identificazione dal quale devono risultare, in particolare, i seguenti dati: a) nome ed indirizzo del produttore e del detentore; b) origine, tipologia e quantità del rifiuto; c) impianto di destinazione; d) data e percorso dell'istradamento; e) nome ed indirizzo del destinatario.
- Il formulario di identificazione di cui al comma 1 deve essere redatto in quattro esemplari, compilato, datato e firmato dal detentore dei rifiuti, e controfirmato dal trasportatore. Una copia del formulario deve rimanere presso il detentore e le altre tre, controfirmate e datate in arrivo dal destinatario, sono acquisite una dal destinatario e due dal trasportatore il quale provvede a trasmetterne una al detentore. Le copie del formulario devono essere conservate per cinque anni (...)
- Il modello uniforme di formulario di identificazione di cui al comma 1 è adottato entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.
Il modello è stato adottato con decreto del ministero dell'ambiente n. 145/1988 ed è riportato nell'allegato B dello stesso decreto.
Il modello si articola in cinque sezioni contenenti 11 caselle.
Le caselle da uno a dieci, che compongono le prime quattro sezioni, devono essere compilate dal produttore o detentore dei rifiuti e dal vettore e recano le indicazioni identificative del produttore o detentore dei rifiuti, i dati relativi ai rifiuti, le indicazioni concernenti il vettore, nonché (casella 10) il nome del conducente del mezzo di trasporto, i dati identificativi del mezzo, la data e l'ora di partenza.
La casella 9 contiene la firma del produttore o del detentore e quella del vettore “per l'assunzione della responsabilità delle informazioni riportate nel formulario”.
La sezione quinta, con la casella 11, è riservata al destinatario ed è da lui sottoscritta.
Il destinatario vi deve indicare se il carico di rifiuti è stato accettato o respinto e, nel primo caso, la quantità di rifiuti ricevuta, nonché la data e l'ora del ricevimento.
L'art. 52, comma 3, del predetto decreto Ronchi stabilisce che “Chiunque effettua il trasporto di rifiuti senza il prescritto formulario di cui all'art. 15 ovvero indica nel formulario stesso dati incompleti o inesatti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire tre milioni a lire diciotto milioni” mentre il comma 4 prevede che “se le indicazioni di cui ai commi 2 e 3 sono formalmente incomplete o inesatte ma contengano tutti gli elementi indispensabili per ricostruire le informazioni dovute per legge si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da lire cinquecentomila a lire tremilioni”.
L'art. 52 prevede dunque due ipotesi di illecito.
La prima è quella di effettuazione di trasporto di rifiuti senza il prescritto formulario, la seconda è quella di indicazione nel formulario di dati incompleti o inesatti.
L'affermazione della Corte di Appello pare riferita alla prima ipotesi che però non è quella a cui è riferita la contestazione effettuata dalla Provincia a carico della società produttrice.
Di certo l'affermazione non è logicamente riferibile alla seconda ipotesi e non vale a giustificarne l'avvenuta contestazione. L'incompletezza relativa alla casella 11 è imputabile al destinatario dei rifiuti posto che quella casella è espressamente riservata al destinatario e deve essere da lui compilata al termine del trasporto (il produttore dei rifiuti dovendo redigere le caselle da uno a dieci del formulario ed essendo responsabile, in prima persona, solo della completezza di queste caselle).
Quanto al concorso di persone, l'applicazione della sanzione si estende dall'autore dell'infrazione a coloro che abbiano comunque dato un contributo causale, pure se esclusivamente sul piano psichico, alla realizzazione della infrazione (Cass. n. 13134/2015).
Nel caso in esame, non essendo stato contestato dalla Provincia alla società produttrice il concorso psichico nella condotta omissiva consumata dalla destinataria al momento della ricezione dei carichi (ed essendo non prospettabile, prima ancora che non contestato, il concorso materiale in un'omissione commessa dalla destinataria all'arrivo dei carichi, in luogo diverso e in tempo successivo rispetto a quelli in cui ha operato la società produttrice, alla partenza dei carichi, l'applicazione della sanzione non è giustificata e si porrebbe inoltre in contrasto con il principio per cui “in tema di illeciti amministrativi, posto che è configurabile un apporto esterno alla consumazione dell'illecito anche mediante azioni od omissioni, che, pur senza integrare la condotta tipica di esso, ne rendano possibile o ne agevolino la consumazione, la condotta omissiva può assumere rilevanza quale elemento concorrente nell'illecito altrui solo nel caso in cui si ponga in violazione di uno specifico obbligo di garanzia” (Cass., Sez. II, n. 28929/2011).
Conclude al Corte affermando il principio secondo cui l'omessa o incompleta compilazione dei formulari di accompagnamento di cui al decreto Ronchi - ed oggi all'analogo art. 139, d.lgs. 152/2006 - e al d.M. 145/1998, per la parte relativa alla casella di competenza del destinatario, non dà luogo a responsabilità del produttore ai sensi dell’art. 52 del decreto Ronchi - ed oggi art. 258, d.lgs. 152/2006 - salva l'eventualità di suo specifico concorso.
(Cass. civ., Sez. Trib. 15/12/2020, n. 28569)
Appalti di lavori di bonifica di ex discariche: la gestione dei rifiuti, il trasporto a discarica come subappalto e la sottoscrizione della proposta migliorativa.
Il Consiglio di Stato affronta alcuni aspetti, i quali assumono una portata di carattere generale nell’ambito della disciplina ambientale, che nella specie rilevano negli affidamenti di appalti pubblici aventi ad oggetto i lavori di bonifica e di messa in sicurezza di ex discariche di rifiuti solidi urbani, chiedendosi in primis se il trasporto a discarica rappresenti un subappalto.
Il caso sottoposto all’esame del Consiglio di Stato verte, in particolare, sull’aggiudicazione dell’appalto di lavori effettuato dalla stazione appaltante in favore di un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI), affidamento che, secondo la tesi esposta dall’operatore secondo classificato, sarebbe illegittimo per plurime violazioni di legge.
Il Giudice di primo grado, accogliendo il ricorso principale proposto dal secondo graduato, disponeva l’annullamento dell’aggiudicazione sul rilievo della mancata sottoscrizione dell’offerta tecnica migliorativa da parte di tecnico abilitato.
Avverso tale pronuncia, il RTI proponeva appello, invocando l’integrale riforma della sentenza.
Ritenendolo infondato, il Consiglio di Stato rigetta il gravame, confermando la validità della statuizione di primo grado con argomentazioni puntuali sotto il profilo logico e giuridico.
Il trasporto a discarica come subappalto
Il primo aspetto affrontato dal Giudice amministrativo di secondo grado riguarda la presunta violazione della legge di gara commessa, secondo la prospettazione del RTI appellante, dall’operatore secondo classificato, a suo dire erroneamente non escluso dalla stazione appaltante stante la mancata indicazione del subappalto ex art. 105 codice dei contratti pubblici per l’attività di trasporto dei rifiuti.
In particolare, l’impresa seconda classificata avrebbe dovuto essere esclusa dalla competizione per non aver dichiarato il ricorso al subappalto per quanto concerne il trasporto dei rifiuti in discarica: secondo la tesi dell’appellante “la designazione di un’altra impresa per tale attività costituirebbe un subappalto non dichiarato di una categoria prevalente (OG 12) e tale mancanza non sarebbe suscettibile di soccorso istruttorio”.
Il Consiglio di Stato ritiene l’assunto palesemente infondato ed evidenzia che l’impresa era comunque in possesso del requisito di iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali, nonché dell’autorizzazione specifica per gli automezzi adibiti al trasporto dei rifiuti; in quanto tale, essa era quindi idonea allo svolgimento in proprio del servizio di trasporto in discarica del materiale di risulta.
Il ragionamento deduttivo operato dal Giudice amministrativo muove dalla seguente considerazione: “La designazione di altra impresa per il trasporto dei rifiuti (…) non rientrava (…) nella previsione del Disciplinare di cui parte appellante invoca l’applicazione: detta previsione, come si evince dal suo tenore testuale, richiedeva la preventiva dichiarazione, a pena di esclusione, soltanto per il diverso caso di subappalto necessario, per l’ipotesi in cui l’operatore economico intendesse subappaltare lavori/servizi appartenenti alle categorie a qualificazione obbligatoria (OG12) per le quali non fosse stato autonomamente in possesso della corrispondente qualificazione”.
Condividendo le argomentazioni del TAR, il Consiglio di Stato giunge a precisare che “l’appalto in parola ha ad oggetto esclusivamente lavori e che, di conseguenza, l’affidamento a soggetti terzi del servizio di trasporto a discarica, non attenendo alle prestazioni oggetto di gara, non integrava affatto un subappalto”.
Secondo il Collegio, la questione non era da ricondursi ad un’ipotesi di subappalto, semmai alla diversa fattispecie del cd. subcontratto: “il conferimento in discarica non configurava, infatti, un segmento delle prestazioni oggetto del contratto, ma un servizio collaterale prestato dal terzo in una fase ormai finale delle opere di cui all’appalto (…) l’affidamento a terzi veniva dunque a configurare un’ipotesi di subcontratto, dal quale sorgeva unicamente l’obbligo di comunicazione alla Stazione appaltante ai sensi dell’art. 105, comma 2, del D.lgs. n. 50/2016, in base al quale <<L’affidatario comunica alla stazione appaltante, prima dell’inizio della prestazione, per tutti i sub-contratti che non sono sub-appalti, stipulati per l’esecuzione dell’appalto, il nome del sub-contraente, l’importo del sub-contratto, l’oggetto del lavoro, servizio o fornitura affidati>>”.
La sottoscrizione dell’offerta tecnica migliorativa da parte di tecnico abilitato
Un altro aspetto certamente meritevole di attenzione esaminato dal Consiglio di Stato riguarda la possibilità che l’offerta migliorativa di un appalto di opere pubbliche avente ad oggetto lavori di realizzazione e bonifica di discarica comunale potesse essere sottoscritta da un architetto redattore: l’ipotesi è espressamente esclusa dal Giudice poiché, trattandosi di interventi di tipo impiantistico o di bonifica, dette proposte migliorative sono da ricondursi “nella competenza esclusiva di un ingegnere abilitato, e non possono rientrare anche nella competenza di un architetto abilitato, secondo quanto stabilito dal R. D, 23 ottobre 1925, n. 2537 Regolamento per le professioni di ingegnere ed architetto”.
(Cons. St., Sez. V, 15/12/2020, n. 8027)
Gli aspetti procedimentali della valutazione di impatto ambientale: discrezionalità, partecipazione e potere-dovere dell'Amministrazione.
L'istituto della valutazione d'impatto ambientale, che trova il proprio specifico fondamento normativo nel d.lgs. 152/2006 e s.m.i. recante "Norme in materia ambientale", presenta numerosi aspetti di complessità, alcuni dei quali trattati nella pronuncia in commento: la discrezionalità amministrativa, la partecipazione dei (potenziali) soggetti interessati ed infine il potere - dovere, quale situazione soggettiva riconosciuta alla P.A. nei procedimenti ambientali.
Alcuni aspetti caratteristici della valutazione ambientale sono stati trattati in una precedente news, qui consultabile.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha affrontato la questione relativa alla costruzione/ampliamento di una centrale di produzione di energia elettrica a combustione di rifiuti non pericolosi, cd. termovalorizzatore, ubicato in un comune lombardo.
A fronte della reiezione del ricorso in primo grado, alcuni comuni ed alcuni cittadini hanno impugnato la decisione assunta dal Giudice di primo grado, chiedendone la riforma; il Collegio, tuttavia, ha ritenuto infondati i motivi d'appello.
Il primo aspetto affrontato dal Supremo Consesso amministrativo verte sul concetto di discrezionalità amministrativa, relativamente al provvedimento di VIA: secondo la logica del Giudice amministrativo, "è espressione di un’ampia discrezionalità amministrativa: con esso, infatti, l’Amministrazione non è chiamata, in via per così dire notarile e “passiva”, a riscontrare la sussistenza di possibili impatti ambientali dell’opera ... bensì a ricercare attivamente, nella ponderazione comparativa di istanze potenzialmente confliggenti, un complessivo bilanciamento fra gli interessi perseguiti con la realizzazione dell’opus, da un lato, e le contrapposte esigenze di preservazione (recte, di contenuta o, comunque, non eccessiva e sproporzionata incisione) del contesto ambientale lato sensu inteso, dall’altro.
Il punto esaminato consente al Consiglio di Stato di precisare l'aspetto partecipativo "... il relativo procedimento è aperto alla partecipazione di “chiunque vi abbia interesse” (art. 24 d.lgs. n. 152 del 2006), eventualmente anche mediante una “inchiesta pubblica”: la partecipazione procedimentale è, quindi, estesa oltre gli ordinari confini apprestati dagli articoli 7 e ss. l. n. 241 del 1990, non essendo necessario comprovare, da parte del soggetto che aspira alla partecipazione, che “dal provvedimento possa derivare un pregiudizio”.
Da ciò si ricavano i principi cardini che governano l'istituto "... proprio in considerazione del peculiare oggetto sostanziale, lo statuto procedimentale della VIA è speciale: invero, lo scrutinio discrezionale circa il quomodo (e, prima ancora, circa lo stesso an – cosiddetta “opzione zero”) dell’incisione dell’assetto ambientale recata dal progetto viene svolto coram populo, al fine di rendere quanto più possibile democratica, partecipata e condivisa una scelta che, inevitabilmente, si ripercuote sulla vita quotidiana di tutti gli attori (economici, sociali, collettivi, istituzionali) presenti sul territorio. Trattandosi, dunque, di atto che non veicola un mero accertamento tecnico, ma esprime, in forme procedimentali speciali, una potestà amministrativa sostanziale stricto sensu intesa, il conseguente sindacato giurisdizionale incontra i noti limiti, arrestandosi alla soglia dell’illogicità, della contraddittorietà, dell’irragionevolezza, senza poter accedere alla diretta valutazione del merito delle scelte, ex lege riservata alle valutazioni dell’Amministrazione".
L'ulteriore aspetto che può certamente interessare la questione della compatibilità ambientale concerne la previsione di specifiche prescrizioni e condizioni (certamente legittime) al quale può essere subordinato il rilascio dei titoli autorizzativi.
Il Giudice amministrativo muove le proprie deduzioni sostenendo che "l’Amministrazione non ha il dovere di prendere puntualmente, specificamente ed analiticamente posizione su ciascuno dei singoli rilievi formulati nel corso del procedimento (ciò che potrebbe essere de facto impossibile e che, comunque, potrebbe collidere con il principio di economicità dell’azione amministrativa), ma deve confezionare un provvedimento che, nell’ambito di una valutazione necessariamente di sintesi, affronti con un sufficiente grado di approfondimento tutte le questioni problematiche emerse nel corso del procedimento".
Esprimendosi n termini generali, il Consiglio di Stato sostiene che "è legittima una VIA che dichiari la compatibilità ambientale di un progetto subordinatamente al rispetto di specifiche prescrizioni e condizioni, da verificare all’atto del successivo rilascio dei titoli autorizzatori necessari per la concreta entrata in funzione dell’opus ... Invero, niente osta, in linea di principio, a che l’Amministrazione attesti che, a seguito dell’adozione futura di ben precisi accorgimenti, l’opera possa risultare compatibile con le esigenze di tutela ambientale".
Detto ragionamento si basa, secondo il Consiglio di Stato, sul seguente assunto, che conduce a definire i ruoli dell'Amministrazione nei procedimenti: "I limiti alla legittimità di tale modus procedendi attengono al grado di dettaglio e di specificità delle prescrizioni, nonché al numero ed alla complessiva incidenza delle stesse sui caratteri dell’opera: invero, la formulazione di prescrizioni eccessivamente generiche, ovvero relative a pressoché tutti i profili di possibile criticità ambientale dell’opus, potrebbe risolversi in una sostanziale pretermissione del giudizio. Una simile evenienza, da accertarsi nel caso concreto, ha carattere patologico e lumeggia l’illegittimità dell’azione amministrativa, che, in casi siffatti, rinviene non dalla presenza di prescrizioni in sé e per sé considerate, ma dal fatto che il carattere abnorme (qualitativamente, tipologicamente o numericamente) di tali prescrizioni disvela, a monte, l’assenza di un’effettiva, concreta ed attuale valutazione di impatto ambientale, ossia il sostanziale rifiuto dell’esercizio del potere, pur nella formale spendita dello stesso ... Non è superfluo, in proposito, ricordare che la situazione soggettiva comunemente nota come potestà, di cui è investita l’Amministrazione nell’esercizio di poteri discrezionali, presenta, oltre all’aspetto del “potere” (ossia della capacità di modificare unilateralmente ed autoritativamente la sfera giuridica degli amministrati), il contestuale e parallelo tratto del “dovere” (da intendersi tanto come dovere dell’esercizio, posto che tale situazione è indisponibile, quanto come dovere della finalizzazione teleologica di tale esercizio, che deve essere volto a conseguire gli scopi indicati dalla legge): tale situazione, del resto, è altresì nota come potere-dovere".
(Cons. St. Sez. IV, 11.12.2020, n. 7917)
by Marco Reale
Il ruolo degli enti locali nei procedimenti di compatibilità ambientale di cui al d.lgs. 152/2006 e s.m.i.
In precedenza, con la news consultabile a questo link, è stata affrontata la tematica dei procedimenti di compatibilità ambientale ai fini del rilascio dei titoli propedeutici per la costruzione e gestione di impianti di rifiuti, procedimenti che prevedono forme partecipative speciali dei soggetti interessati.
Il caso che invece si appresta a commentare riguarda, nello specifico, l'aspetto partecipativo delle amministrazioni (due comuni piemontesi nello specifico) nell'ambito di una conferenza di servizi avente ad oggetto la richiesta avanzata da un operatore del settore ambientale privato di rilascio di autorizzazione integrata ambientale per la costruzione e gestione di una discarica di rifiuti speciali (materiali di costruzione contenente amianto).
Trattandosi di impianto complesso, la società istante aveva avanzato una duplice richiesta ovvero di valutazione dell'impatto ambientale (VIA) e, contestualmente, rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale (AIA).
La pronuncia merita un commento approfondito in quanto i temi affrontati dal Giudice amministrativo presentano aspetti di indubbia attualità, specie in ambito amministrativo - legale, di portata generale.
Tra i temi rilevanti, infatti, assume particolare rilievo l'aspetto soggettivo - partecipativo al procedimento conferenziale in relazione alle "amministrazioni competenti o comunque potenzialmente interessate" di cui all'art. 27bis, co. 7, d.lgs. 152/2006.
Si tratta, come condivisibilmente asserito dal Consiglio di Stato, di una disposizione che mira a favorire la partecipazione procedimentale di tutte le amministrazioni portatrici di un legittimo interesse o anche di quelle soltanto potenzialmente interessate all'opera da realizzare.
Nel caso di specie, il Giudice di secondo grado, nel circoscrivere la portata applicativa della fattispecie, ha sancito che "tale interesse ... sussisterebbe in capo ai Comuni appellanti con riferimento alla tutela della falda acquifera destinata al consumo umano che si trova al di sotto dell'area sulla quale è prevista la realizzazione della discarica": trattasi di un'interpretazione certamente intesa in senso "ampio" e che troverebbe il suo fondamento, secondo la prospettiva delineata dal Giudice, nella direttiva VIA 2014/52/UE (dal cui recepimento è stato introdotto il sistema partecipativo di cui all'art. 27bis) e nella nota Convenzione di Aarhus "che va nella direzione dell'ampliamento della dimensione partecipativa e non della sua compressione".
Sul piano pratico - operativo, il Consiglio di Stato, tuttavia, ha operato una serie di precisazioni fondamentali che consentono di definire il ruolo dei soggetti istituzionali e territoriali interessati nella conferenza di servizi, precisazioni che rivestono importanza sul piano valutativo e decisionale delle determinazioni da assumere in ambito conferenziale.
Dalla lettura sistematica delle disposizioni sancite per i procedimenti di compatibilità ambientale è agevole desumere, a ragion del Giudice d'appello, che "i Comuni appellanti, in quanto non direttamente interessati con riferimento al loro ambito territoriale rispetto alla realizzazione della discarica ... sono stati legittimamente invitati a partecipare alla conferenza di servizi, e tuttavia la loro partecipazione ha assunto una valenza meramente istruttoria poiché gli stessi non sono titolari di poteri in ordine al rilascio di un particolare titolo abilitativo (pareri, nulla osta permessi o altri atti di assenso o autorizzativi) rispetto all’opera della quale è necessario valutare l’impatto".
Detta affermazione consente al Consiglio di Stato di precisare, in via ulteriore, che "... poiché la partecipazione del Comuni ha una mera valenza istruttoria, un eventuale parere contrario di tale ente all’intervento oggetto della Conferenza non è idoneo, di per sé, ad impedire la conclusione del procedimento solo perché quel parere è stato acquisito nell’ambito di una conferenza di servizi”.
Sempre sul ruolo partecipativo degli enti territoriali, il Consiglio di Stato ha sottolineato altresì che "A maggior ragione tali considerazioni valgono, nel caso di specie, per i Comuni appellanti, la cui convocazione è avvenuta non già per un obbligo previsto ex lege, ma per una autonoma determinazione della Provincia, assunta in base all’art. 9 della legge regionale sopra citata. In tal caso, è ancora più evidente che una partecipazione discrezionalmente decisa dall’autorità procedente, al solo fine di arricchire il quadro conoscitivo utile alla decisione, non può incidere sulla natura e sulla struttura della Conferenza, quale tipizzata ex lege".
In quest'ottica, la pronuncia osserva condivisibilmente che anche nelle conferenze cd. "decisorie", è necessario valutare attentamente (caso per caso) su quali basi un comune "costituisca una amministrazione specificatamente preposta <<alla tutela ambientale, paesaggistico - territoriale, del patrimonio storico - artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità>>".
Operando un raffronto con le previsioni del TUEL, il Consiglio di Stato sancisce che "... a ben vedere è proprio la natura, ad un tempo generale ma territorialmente delimitata, delle competenze comunali, ad escludere che tale ente possa essere tout court annoverato tra le amministrazioni specificamente preposte alla tutela di interessi sensibili, nel senso fatto proprio dall’art. 14 quater della l. n. 241 del 7 agosto 1990 (nel testo anteriore alle modifiche apportata dal d.lgs. n. 127 del 2016). E’ poi evidente che l’interpretazione prospettata dagli appellanti finirebbe per conferire al Comune, in ogni procedimento in cui venga in rilievo uno dei variegati interessi rimessi, in sede locale, alle sue cure (anche considerando che, ai sensi dell’art. 118, comma 1 della Costituzione, è proprio ai Comuni che è attribuita la generalità delle funzioni amministrative, salvo diversa allocazione “sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”), una sorta di potere di veto, laddove invece, nell’ambito della Conferenza decisoria, sia nel previgente che nell’attuale modello, lo scopo del legislatore è stato quello di semplificare il processo decisionale".
(Cons. St. Sez. IV, 9.12.2020, n. 7792)
by Marco Reale
La questione sottoposta all'esame del Consiglio di Stato concerne l'escussione della garanzia fideiussoria in esito ad una gara per l’affidamento del servizio di raccolta differenziata per la mancata stipulazione del contratto d’appalto nonostante l’intervenuta aggiudicazione definitiva in favore di un operatore economico.
Deve premettersi che nell'ambito dei servizi di igiene urbana, uno degli aspetti che riveste un'importanza fondamentale è quello delle particolari condizioni di esecuzione dei servizi.
La disciplina settoriale prevede che sia posto in capo all’azienda subentrante l’obbligo di procedere, in presenza di condizioni di equivalenza nell’erogazione del servizio e nel doveroso rispetto della disciplina generale, all’assunzione ex novo di tutto il personale addetto allo specifico appalto/affidamento in forza presso l’azienda cessante: trattasi della cd. "clausola impositiva di manodopera" nota anche come "clausola sociale".
Il tema, in altro settore e sotto diversi profili giuridici, è stato approfondito anche in questa news.
Si tratta, come noto, di un previsione "rigida" espressamente prevista dall'art. 50 del d.lgs. n. 50/16 al fine di garantire la stabilità occupazionale del personale alle dipendenze dell'impresa uscente qualora trattasi di servizi "ad alta intensità di manodopera", quale è da considerarsi il servizio di igiene urbana.
Se la clausola impositiva di manodopera risponde all'esigenza di garantire la continuità occupazionale, tuttavia essa non può essere perseguita in maniera "rigida", aprioristica ed incondizionata, necessitando di un adeguato bilanciamento con i valori della libera concorrenza e della libertà imprenditoriale: ciò significa che, in linea di principio, la clausola sociale può obbligare l'appaltatore subentrante unicamente ad assumere in via prioritaria i lavoratori che operavano alle dipendenze dell'impresa uscente, a condizione che il loro numero e la loro qualifica siano armonizzabili con l'organizzazione d'impresa prescelta.
Il caso affrontato dalla pronuncia in commento, come già anticipato, verte sulla richiesta di escussione della garanzia fideiussoria da parte dell'ente comunale che avevo indetto la procedura per l'affidamento dei servizi per la mancata stipulazione del contratto d’appalto da parte dell'operatore economico risultato quale migliore offerente a seguito dell’intervenuta aggiudicazione definitiva in esito ad una gara per l’affidamento del servizio di raccolta differenziata.
Si tratta, in estrema sintesi, della verifica circa l’imputabilità o meno all'operatore aggiudicatario della mancata sottoscrizione del contratto di appalto con l'Amministrazione.
Secondo la prospettazione dell'ente civico, l'operatore avrebbe dovuto impugnare tempestivamente gli atti della disciplina di gara e non avrebbe dovuto, invece, dichiarare, ai sensi del d.P.R. n. 445 del 2000, di accettare, senza condizione o riserva alcuna, tutte le norme e disposizioni contenute nel bando di gara e relativi allegati, nel capitolato speciale d’appalto nonché in tutti i rimanenti elaborati inerenti il servizio, e di giudicare remunerativa l’offerta economica presentata.
Dal canto suo, l'aggiudicatario lamenta la modifica delle condizioni attinenti ai rapporti di lavoro ad opera della stazione appaltante, tali da porre in essere un "ripensamento" delle condizioni di convenienza dell'appalto.
La disamina della questione operata dal Supremo Consesso amministrativo appare precisa e puntuale: nel confermare le deduzioni rese dal giudice di primo grado, il Consiglio di Stato ha rigettato l'appello evidenziando come "a fronte di una incertezza sui costi di manodopera del servizio, la mancata stipula del contratto non appare “fatto riconducibile all’affidatario” ai sensi dell’art. 93, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016".
Il Giudice di secondo grado, nell'esaminare la disciplina applicabile al caso di specie, premette la funzione a cui assolve la garanzia fideiussoria provvisoria sancendo che "L’art. 93, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016, dispone che la garanzia fideiussoria per la partecipazione alla procedura di gara copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione “dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario” o all’adozione di informazione antimafia interdittiva emessa ai sensi degli articoli 84 e 91 del d.lgs. n. 159 del 2011".
Orbene, nel caso esaminato, il Giudice adito deduce che "la ragione del “ripensamento” dell’aggiudicataria ... non sembra rinvenibile né in una prospettata illegittimità delle condizioni previste dalla disciplina di gara, nel qual caso l’interessata avrebbe dovuto effettivamente dolersi tempestivamente, né in una mutata considerazione delle condizioni previste dalla lex specialis di gara ed accettate in sede di presentazione dell’offerta, il che avrebbe indubbiamente comportato l’inveramento di un fatto riconducibile all’affidataria, tale da legittimare l’escussione della garanzia".
Viceversa, sostiene il Giudice d'appello, "La mancata sottoscrizione del contratto, invece, sembra più propriamente riconducibile alla modificazione postuma di alcune condizioni attinenti ai rapporti di lavoro ad opera della stazione appaltante, modificazioni tali da determinare una diversa, e questa volta legittima, valutazione di convenienza dell’aggiudicataria in ordine alla stipulazione del contratto e allo svolgimento della prestazione".
Nel giungere alla definizione del caso, il Consiglio di Stato afferma il principio secondo il quale "la condizione del “fatto riconducibile all’affidatario”, cui la norma di legge subordina l’escussione della garanzia fideiussoria, nel caso di specie, non può ritenersi sussistente".
Precisa, conclusivamente, che "al momento della mancata conclusione del contratto di appalto e dell’adozione dell’atto di escussione della garanzia fideiussoria, sussisteva un evidente margine di incertezza sulla sostenibilità economica dell’offerta che, afferendo in particolare a circostanze sopravvenute allo svolgimento della gara, non può ridondare in danno dell’aggiudicataria, riconducendo ad essa il fatto della mancata sottoscrizione del contratto".
I principi espressi trovano certamente larga applicazione, come preannunciato, in tutte quelle procedure di gara (tra cui quelle concernenti l'affidamento dei servizi di igiene urbana) nelle quali le modifiche delle condizioni intervengono in una fase successiva alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte, determinando certamente conseguenze sul piano della valutazione della convenienza dell'appalto.
Non può sottacersi, pertanto, che tra le circostanze che possono sopravvenire e modificare le condizioni di gara, assumono un rilievo fondamentale quelle che riguardano le condizioni di esecuzione dell'appalto quali quelle attinenti i rapporti di lavoro, specie per quelle tipologie contrattuali (come i servizi di igiene urbana) considerate ad alta intensità di manodopera, il cui costo può certamente incidere significativamente sulla valutazione economica dell'offerta, appalti ove trova piana applicazione la cd. "clausola sociale" seppur con le limitazioni discendenti dai principi costituzionali della libera concorrenza e della libertà d'impresa.
L'adeguamento tecnico impiantistico nel settore dei rifiuti: le autorizzazioni ambientali.
Si è affrontata, in una precedente news consultabile a questo link, la questione della compatibilità ambientale di un impianto per la gestione dei rifiuti.
La tematica, come noto, presenta diversi profili di complessità stante le disposizioni contenute nel codice dell'ambiente di cui al d.lgs. 152/2006 e s.m.i. e quelle regionali, nonché gli interessi pubblici sottesi alla tutela dell'ambiente.
Detta complessità si rinviene, soprattutto, nell'ambito dei procedimenti autorizzativi ambientali specie allorquando l'ente competente nega il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale nei casi di adeguamento tecnico - impiantistico per impianti destinati al trattamento dei rifiuti.
Il caso che ci si accinge a commentare interessa, in particolare, il diniego espresso dall'ente regionale all'esito della conferenza dei servizi per il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale per l'adeguamento tecnico di un termovalorizzatore per la gestione di particolari tipologie di rifiuti, ovvero i pneumatici fuori uso (PFU).
Prima di esaminare il caso di specie, giova precisare che la disciplina generale dell'istituto della conferenza di servizi si rinviene dall'art. 14 della legge 241/90 e s.m.i., la quale individua le "conferenze di servizi" (riferendosi a quella istruttoria, decisoria e preliminare): si è solito attribuire allo strumento conferenziale l' attuazione del principio di buona amministrazione ex art. 97 Cost., quale luogo istituzionale per il razionale ed effettivo coordinamento degli interessi pubblici assoggettati alla cura e al soddisfacimento della Pubblica amministrazione.
Ciò premesso, il caso affrontato dal Consiglio di Stato verte, come accennato, sul diniego opposto dall'Amministrazione competente nel procedimento per il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale per la trasformazione di un impianto di trattamento (smaltimento) di rifiuti, pfu nel caso di specie.
Preliminarmente, il Supremo Consesso amministrativo opera un richiamo della normativa di riferimento al fine di chiarire gli aspetti legati alla valutazione delle emissioni in atmosfera (componente essenziale ai fini del rilascio del titolo autorizzativo), muovendo le considerazioni dalla disciplina regionale Lazio 11 agosto 2008, n. 14, la quale all' art. 1 comma 21, stabilisce che “il provvedimento di VIA fa luogo dell'autorizzazione integrata ambientale di cui al decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59 (Attuazione integrale della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento) e successive modifiche, di competenza regionale ai sensi dell'articolo 103-bis, comma 2, della legge regionale 6 agosto 1999, n. 14”.
In tal contesto, il Giudice amministrativo chiarisce, inoltre, la portata e la natura giuridica del provvedimento autorizzativo, con particolare riferimento alla valutazione degli aspetti per la riduzione delle emissioni, deducendo che "Si deve, infatti, rilevare che l’autorizzazione integrata ambientale è configurata come un titolo abilitativo conseguente ad una verifica di carattere generale sull’impianto, con particolare riguardo alle emissioni in relazione all’ambiente circostante, attribuendo alle autorità interessate un ampio potere - espressione di discrezionalità tecnica - anche circa le concrete misure tecniche che devono essere disposte per il controllo e la riduzione di tali emissioni, le quali inoltre rilevano anche in un ampio contesto geografico circostante".
Come espresso dal Giudice amministrativo, nella Regione Lazio, in base alla disciplina legislativa regionale la predetta verifica è svolta con strumenti analoghi a quelli del procedimento di valutazione di impatto ambientale (VIA), che in base alla disciplina generale del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, (nel testo allora vigente) e comunque in base alla disciplina generale della valutazione di impatto ambientale, comporta una ampia verifica degli effetti di un impianto sull’ambiente con riferimento a molteplici aspetti.
Nel ritenere legittimo il parere tecnico adottato dall'Ente preposto alla tutela ambientale in seno all'istituto conferenziale stante il ravvisato mancato adeguamento ai limiti di emissioni prestabilite, il Consiglio di Stato ha sostanzialmente richiamato la ratio e la funzione a cui assolvono i procedimenti ambientali, nel settore dei rifiuti in particolare, affermando che "La giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte affermato che la funzione tipica della VIA sia quella di esprimere un giudizio sulla compatibilità di un progetto valutando il complessivo sacrificio imposto all’ambiente rispetto all’utilità socio-economica perseguita (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2013, n.361; id. 1 marzo 2019, n. 1423), che non è dunque espressione solo di discrezionalità tecnica, ma anche di scelte amministrative discrezionali".
Sempre a ragion del CdS, "Il giudizio di compatibilità ambientale è reso sulla base di oggettivi criteri di misurazione e attraversato da profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all'interesse dell’esecuzione dell'opera; apprezzamento che è sindacabile dal giudice amministrativo soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l'istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato e risulti perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all'Amministrazione, anche perché la valutazione di impatto ambientale non è un mero atto tecnico di gestione ovvero di amministrazione in senso stretto, trattandosi piuttosto di un provvedimento con cui viene esercitata una vera e propria funzione di indirizzo politico - amministrativo con particolare riferimento al corretto uso del territorio, in senso ampio, attraverso la cura ed il bilanciamento della molteplicità dei contrapposti interessi pubblici (urbanistici, naturalistici, paesistici, nonché di sviluppo economico - sociale) e privati".
Riguardo allo specifico riferimento alla gestione dei rifiuti e alla corretta qualificazione dell'attività, il Giudice di secondo grado ha stabilito che "l’art. 178 del d.lgs. n. 152 del 2006 nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, qualificava la gestione dei rifiuti come attività di pubblico interesse e prevedeva che fosse disciplinata “al fine di assicurare un'elevata protezione dell'ambiente e controlli efficaci, tenendo conto della specificità dei rifiuti pericolosi nonché al fine di preservare le risorse naturali”. “I rifiuti devono essere recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente".
(Cons. St. Sez. II, 6 aprile 2020, n. 2248)
by Marco Reale
La compatibilità urbanistica ed ambientale ex art. 208 degli impianti di recupero dei rifiuti: il caso di un autodemolitore.
Gli impianti di recupero dei rifiuti rappresentano una componente essenziale nel processo produttivo economico, specie in questo particolare momento storico in cui l'economia circolare (che, secondo la definizione tradizionale, rappresenta un modello di produzione e consumo che implica, tra l'altro, il riutilizzo ed il riciclo dei materiali affinché i beni abbiano maggior vita) è divenuta un tema politico-economico chiave.
Tuttavia, la pur pregevole finalità necessita di un bilanciamento del contrapposto interesse della tutela dell'ambiente, intesa quale corollario della compatibilità economica funzionale alla promozione dello sviluppo sostenibile.
In tal contesto, la questione della realizzazione di impianti di recupero dei rifiuti si colloca, certamente, nell'eterna lotta tra promozione dell'ambiente e salvaguardia del territorio, scenario in cui la compatibilità ambientale ed urbanistica rappresenta il presupposto indefettibile per la realizzazione di qualsivoglia iniziativa imprenditoriale.
La pronuncia in commento consente di esaminare proprio l'aspetto della compatibilità ambientale ed urbanistica seppur in un caso in cui l'impianto è già esistente, ma necessita di un atto autorizzativo espresso indispensabile per l'esercizio dell'attività.
In generale, la realizzazione di un impianto di rifiuti (preme segnalare l'interessante tema esaminato precedentemente sulla questione del principio di prossimità per lo smaltimento dei rifiuti urbani non differenziati) presuppone, secondo le disposizioni di cui all'art. 208 e ss., l. 152/2006 e s.m.i., di un'autorizzazione alla realizzazione e gestione nell'ambito della quale i molteplici interessi esistenti, spesso contrastanti, necessitano di una valutazione in funzione anche dell'ubicazione in cui l'impianto produttivo sorgerà.
La vicenda in commento riguarda, in particolare, un impianto di gestione di rifiuti, un'autodemolizione nello specifico ubicata nella regione Lazio.
La vicenda trae origine da una società operante nel settore da oltre venti anni la quale ha impugnato, unitamente a tutti gli atti inerenti e presupposti, il provvedimento con il quale l’amministrazione comunale ha concluso negativamente la conferenza di servizi indetta in relazione al procedimento di rilascio dell’autorizzazione ex art. 208 del d.lgs. n. 152/2006.
La determinazione conclusiva della conferenza, in particolare, ha fondato il diniego sulla ritenuta assenza dei requisiti urbanistici e ambientali previsti per la realizzazione degli impianti di autodemolizione dalla normativa vigente e, in particolare, dal citato art. 208 del d.lgs. n. 152/2006 e dal d.lgs. n. 209/2003.
Al fine di ottenere l’autorizzazione definitiva all’esercizio dell’attività, quale alternativa alla delocalizzazione imposta dall'ente comunale (procedimento tuttavia non attuato), la società riceveva il provvedimento di diniego dell'amministrazione con il quale l'Ente respingeva l’istanza per assenza di requisiti urbanistici ed ambientali.
Tra i motivi di ricorso proposti dalla ricorrente, quello che risulta prioritariamente infondato è quello che fa leva sulle risultanze dell'attività valutativa ex art. 208, d.lgs. 152/2006.
Nella ricostruzione operata dal T.A.R., il primo richiamo è proprio alla disciplina di cui all'art. 208, d.lgs. n. 152/2006 che, al primo comma, così recita: “I soggetti che intendono realizzare e gestire nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, devono presentare apposita domanda alla regione competente per territorio, allegando il progetto definitivo dell'impianto e la documentazione tecnica prevista per la realizzazione del progetto stesso dalle disposizioni vigenti in materia urbanistica, di tutela ambientale, di salute, di sicurezza sul lavoro e di igiene pubblica. Ove l'impianto debba essere sottoposto alla procedura di valutazione di impatto ambientale ai sensi della normativa vigente, alla domanda è altresì allegata la comunicazione del progetto all'autorità competente ai predetti fini ...”.
Secondo il T.A.R., "La compatibilità urbanistica ed ambientale dell’impianto costituisce, dunque, presupposto imprescindibile per procedere al rilascio dell’autorizzazione definitiva di cui al menzionato art. 208 del d.lgs. n. 152/2006 - nel quale, infatti, si fa espresso riferimento all'esigenza di documentare la conformità del progetto di impianto alla normativa urbanistica ed alla valutazione in sede di conferenza dei servizi, della compatibilità dello stesso con le esigenze ambientali e territoriali – sicché, ove essa manchi, il titolo autorizzatorio definitivo non può essere rilasciato".
Appare di rilievo la conclusione a cui giunge il Giudice amministrativo, proprio sulla funzione economico - ambientale che svolgono gli impianti di recupero dei rifiuti, degli autodemolitori in particolare "... non risulta conforme ai parametri di efficienza, buon andamento ed efficacia dell’azione amministrativa una situazione, quale quella esistente attualmente nel territorio di Roma Capitale, che paralizza sine die le attività di trattamento dei veicoli fuori uso e/o di trattamento dei rifiuti metallici ferrosi e non ferrosi che, seppure private e con finalità di lucro, sono comunque funzionali anche ad esigenze di smaltimento dei rifiuti e sanitarie del territorio metropolitano".
Secondo la prospettazione operata dal T.A.R. laziale "È, perciò, necessario, per le ragioni suesposte, in primis, al fine di tutelare la salute della popolazione e il rispetto dell’ambiente, nonché per soddisfare le esigenze di natura commerciale ed economica della filiera dei demolitori/rottamatori e, non da ultimo, per assicurare ai cittadini di Roma Capitale la possibilità di rottamare nel proprio territorio i veicoli in disuso, attuare la delocalizzazione in tempi quanto più brevi possibili. Sia il D.Lgs 209/2003, sia l’art. 6 bis, introdotto dalla LR n. 13/2018 nella LR n. 27/1998, sollecitano una rilocalizzazione degli impianti in quanto solo in questo modo si può addivenire ad una disciplina di settore che contemperi le esigenze pubbliche con quelle economiche e produttive delle attività".
(Tar Lazio Sez. II, 16.9.2020 n. 9588)
by Marco Reale
Il mancato possesso dell'iscrizione all'Albo Nazionale Gestori Ambientali è causa di esclusione.
La gestione dei rifiuti è una delle attività economiche di particolare rilievo nello scenario del mercato globale.
Detta attività, stante le molteplici peculiarità che la caratterizzano, presuppone una normativa di settore piuttosto specifica che impone, sotto molteplici profili, il rispetto di particolari misure e condizioni volte a proteggere, nel complesso, l’ambiente e la salute umana.
Uno degli aspetti più caratteristici è certamente quella speciale abilitazione (che si consegue mediante iscrizione in un apposito albo professionale) che un operatore del settore deve possedere affinché possa gestire (secondo la nozione tradizionale espressa dall'art. 183, co. 1, lett. n), d.lgs. 152/2006 e s.m.i.) i materiali classificati come rifiuti.
Infatti, se per un verso il legislatore nazionale ha previsto (seppur con alcune limitazioni per particolari categorie) la libera circolazione sul territorio nazionale dei rifiuti da parte di imprese o enti, d'altra parte ha imposto a tali operatori l'obbligo di iscrizione presso l'Albo nazionale gestori ambientali, istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio.
La disciplina di dettaglio è contenuta, in via prevalente, nell'art. 212, d.lgs. 152/2006 e s.m.i., recante norme in materia ambientale, la quale dispone un particolare regime, prevedendo un sistema di iscrizione distinto in diverse categorie a seconda delle attività specifiche svolte, ognuna delle quali distinta a sua volta in classi per volumi di attività.
L'iscrizione presso la Sezione regionale di competenza dell'Albo nazionale gestori ambientali da parte dell'operatore economico costituisce un requisito essenziale per lo svolgimento dell'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti.
Detta considerazione è di fondamentale importanza ove si consideri che la disciplina degli appalti pubblici, come si evince dall'art. 89, co. 10, d.lgs. 50/2016 e s.m.i., introduce una limitazione all'istituto dell'avvalimento per soddisfare il possesso del requisito dell'Albo nazionale gestori ambientali da parte del concorrente nelle procedure ove tale requisito è previsto per l'esecuzione dell'attività d'appalto.
Sulla questione, la giurisprudenza amministrativa (e gli orientamenti espressi dall'Anac, da ultimo vedasi ANAC, Adunanza del 27.7.2017) nel corso degli anni ha superato la qualificazione del possesso dell'iscrizione all'Albo quale requisito di esecuzione, giungendo, anche a seguito della novella operata alla disciplina generale del codice appalti, a ricondurlo in termini di requisito di partecipazione non avallabile.
Il caso affrontato dal Tar campano ed oggetto del commento conferma la natura di requisito di partecipazione dell'Albo nazionale gestori ambientali, requisito indefettibile di cui l'operatore economico concorrente deve esserne in possesso al momento della scadenza della presentazione delle offerte.
In particolare, la società ricorrente, classificatasi seconda in graduatoria in una procedura concernente l'affidamento del servizio di igiene urbana e raccolta differenziata, ha censurato il provvedimento di aggiudicazione adottato dall'Ente nei confronti di altro operatore.
L'operatore controinteressato, resistendo al gravame, ha eccepito l'inammissibilità del ricorso sulla base dell'assunto, poi risultato fondato, che la ricorrente fosse priva del requisito di partecipazione dell'iscrizione all'albo nazionale gestori ambientali (A.N.G.A.), previsto a pena di esclusione dalla lex specialis.
Il Tribunale amministrativo, dichiarando inammissibile il ricorso, ha sostanzialmente accolto la tesi difensiva dell'operatore aggiudicatario non avendo la società ricorrente offerto la prova del possesso del requisito di iscrizione all'Albo.
Il Giudice amministrativo ha precisato che "L’iscrizione all'ANGA è requisito di natura soggettiva che inerisce alla idoneità professionale degli operatori, a norma dell’art. 83, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 50/2016 e costituisce titolo autorizzatorio per l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporti dei rifiuti."
Richiamando poi la giurisprudenza consolidata, il Tar ha precisato che “L’iscrizione all'Albo Nazionale dei Gestori Ambientali per le categorie richieste è requisito di tipo soggettivo, intrinsecamente legato al soggetto e alla sua idoneità a porsi come valido e affidabile contraente per l'Amministrazione e che, pertanto, deve essere posseduto direttamente dalle imprese che partecipano alla gara, senza possibilità di mediazione attraverso il ricorso a rapporti negoziali di avvalimento né a contratti di consorzio” .
Per l'esatto inquadramento del requisito, il Tar ha ulteriormente specificato che "l’iscrizione all'ANGA è un requisito soggettivo che va posseduto già alla scadenza del termine di presentazione delle offerte e non al momento di espletare il servizio, il quale, in caso contrario, verrebbe ad essere aggiudicato all'esito di una competizione in cui non è certo che il vincitore possa conseguire tale certificata professionalità, indispensabile per la corretta conduzione dell’affidamento".
(Tar Campania Sez. VIII, 2.7.2020, n. 2805)
by Marco Reale
Il principio di precauzione nei giudizi di compatibilità ambientale: il rischio ambientale non deve essere ipotetico.
La quarta Sezione del Consiglio di Stato ha affrontato, con una recente pronuncia, una delle tematiche ambientali più attuali ovvero il principio di precauzione nell'ambito della vicenda relativa alla realizzazione di una centrale di compressione del gas che interessa il metanodotto della cd. "Rete Adriatica".
Sotto il profilo tecnologico, si tratta di un'opera strategica particolarmente complessa che, in linea generale, assolve alla finalità di incrementare la pressione presente all'interno delle tubature del gas naturale che, nel caso del nostro Paese, proviene in massima parte da giacimenti che si trovano all'estero: l'infrastruttura, in questo modo, è in grado di fornire la necessaria spinta per percorrere la rete nazionale dei metanodotti e arrivare agli utilizzatori, ovvero alle famiglie e alle industrie.
La costruzione e gestione di tali infrastrutture passa, necessariamente, attraverso il conseguimento da parte del proponente di una particolare autorizzazione ambientale, che si articola in un procedimento complesso nell'ambito del quale viene espresso sostanzialmente un giudizio di compatibilità ambientale da parte dell'ente competente (il Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio e del mare nel caso di specie, ente appellato insieme ad altri), la cui disciplina si ricava, in via generale, dal d.lgs. 152/2006 e s.m.i.
Uno degli aspetti interessanti della vicenda attiene alla presunta inadeguatezza delle soluzioni tecniche seguite per progettare l’opera, che, secondo la prospettazione offerta dall'ente regionale appellante, rappresenterebbe comunque un pericolo per l’ambiente; tuttavia, nel merito, il Supremo Consesso amministrativo ha ritenuto l'appello infondato.
Le motivazioni giuridiche espresse dal Consiglio di Stato appaiono certamente interessanti sul piano della ricostruzione del quadro normativo applicabile.
Il Giudice d'appello opera preliminarmente un richiamo ai circoscritti poteri di cui dispone il Giudice amministrativo nell'ambito delle scelte operate dalle pubbliche amministrazioni (il ministero, in questo caso) nell'esercizio delle proprie funzioni: "... per principio giurisprudenziale del tutto pacifico ... le scelte adottate dall'amministrazione nel programmare e progettare opere come quelle per cui è causa sono scelte tecniche soggette ad ampia discrezionalità, e come tali non sono sindacabili dal Giudice amministrativo se non in casi di esito abnorme o manifestamente illogico, esito che secondo logica deve essere dimostrato da chi contesta le scelte stesse. In tali termini, occorre allora osservare che la ricorrente appellante si è limitata ad asserire che l’opera sarebbe inadeguata, in particolare sotto il profilo del rischio sismico, ma non ha reso concreta tale affermazione. In altre parole, non ha dato la specifica dimostrazione di quali sarebbero le scelte manifestamente illogiche compiute nel progettare la centrale in questione".
Segue poi un'ulteriore considerazione che costituisce il nucleo centrale delle valutazioni di merito espresse dal Consiglio di Stato, la quale fa leva proprio sui principi ambientali applicabili al caso di specie: " ... tutta la normativa di cui al d. lgs. 152/2006 è ispirata al rispetto del principio di precauzione, e pertanto affermare, come fatto nella sentenza impugnata, e come è incontestato, che le procedure di VIA ed AIA ivi previste sono state rispettate significa anche che il principio stesso è stato presuntivamente rispettato. Ciò posto, non si può a priori escludere che il rispetto di tali procedure non sia sufficiente, e che quindi uno spazio per l’ulteriore applicazione del principio rimanga, ma nel far ciò si devono tenere conto i criteri individuati dalla giurisprudenza, conformi del resto alla comune logica. Infatti, l’applicazione del principio non si può fondare sull'apprezzamento di un rischio puramente ipotetico, fondato su mere supposizioni allo stato non ancora verificate in termini scientifici ... la ricorrente appellante quindi, anche in questo caso, avrebbe dovuto offrire con criteri scientifici la specifica dimostrazione di criticità del progetto lasciate per così dire scoperte dalle procedure espletate".
Si tratta, in particolare, di un chiaro ed univoco caso di applicazione di uno dei principi cardini del diritto ambientale finalizzato a contenere il danno ambientale, ovvero quello di precauzione, di derivazione comunitaria e strettamente connesso a quello di prevenzione. Detto principio concerne il rischio che possa essere individuato a seguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva del progetto: esso presuppone un'azione concreta in caso di rilievo di situazioni di pericolo (anche solo potenziale), per la salute umana e per l'ambiente poiché mira ad assicurare un alto livello di protezione nella realizzazione di opere e progetti di particolare rilievo.
(Cons. St. Sez. IV, 14.7.2020, n. 4545)
by Marco Reale
Omessa indicazione separata costi della manodopera ex art. 95, co. 10, cod. appalti: sì al soccorso istruttorio.
La questione dell'omessa indicazione nell'offerta economica del costo della manodopera ex art. 95, co. 10, d.lgs. 50/2016, è ancora oggetto di pronunce giurisprudenziali contrastanti.
L'argomento è stato affrontato recentemente in un'altra news che è possibile leggere cliccando qui, che affronta il tema alla luce del rinvio operato dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato alla Corte di Giustizia UE per dirimere i dubbi interpretativi sorti dall'applicazione della disposizione.
Il TAR Puglia, applicando proprio i principi giurisprudenziali della Corte di Giustizia, ha recentemente affrontato l'argomento nell'ambito di una procedura di gara svoltasi su piattaforma telematica avente ad oggetto l’affidamento del servizio di trasporto scolastico per gli alunni di una scuola dell'infanzia, primaria e secondaria.
Il ricorrente, in particolare, nel contestare l'offerta del concorrente collocatosi al primo posto nella graduatoria, ha lamentato il non corretto operato svolto dalla Stazione appaltante che, in luogo dell'esclusione del concorrente (poi divenuto aggiudicatario), ha attivato il soccorso al fine di colmare l’omessa indicazione nell'offerta economica del costo della manodopera, in palese violazione dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. 50/2016.
Ritenendo il motivo infondato, secondo il Tribunale salentino l'operato svolto dall'Ente è da ritenersi legittimo.
Il Collegio osserva, in particolare, che l'obbligo di indicazione dei costi della manodopera è previsto dall'art. 95, comma 10, del d. lgs. 50/2016 che prevede che “nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ... Le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell'aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all'articolo 97, comma 5, lettera d)”.
Il Tribunale deduce, correttamente, che "in mancanza di una secca previsione legislativa di esclusione a sanzione della violazione dell’obbligo de quo, è ampiamente dibattuta in giurisprudenza la questione relativa alla conseguenze (automaticamente) espulsive o meno della mancata indicazione separata dei costi della manodopera in un’offerta economica presentata nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico"; il Collegio osserva in particolare che "è controverso se (almeno in talune ipotesi) la mancata indicazione dei costi della manodopera (prescritta dal sopra riportato art. 95, comma 10, del D. Lgs. n. 50/2016 e ss.mm.) possa essere considerata un errore formale sanabile ... oppure vada trattata come un errore sostanziale comportante “tout court” l'esclusione dalla gara senza possibilità di soccorso istruttorio".
Richiamando inoltre i principi espressi dalla Corte di Giustizia sull'argomento, il TAR pugliese ha rilevato che "La Corte di Giustizia U.E., Sezione IX, 2/05/2019, n. 309 ... ha affermato che «I principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza ... devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un'offerta economica presentata nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l'esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell'ipotesi in cui l'obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d'appalto, sempreché tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione. Tuttavia, se le disposizioni della gara d'appalto non consentono agli offerenti di indicare i costi in questione nelle loro offerte economiche, i principi di trasparenza e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi non ostano alla possibilità di consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia entro un termine stabilito dall'amministrazione aggiudicatrice» ..."
Dopo aver richiamato gli orientamenti giurisprudenziali sul tema (il primo, più restrittivo che non ammette il soccorso istruttorio, il secondo meno restrittivo e più sostanzialistico), il Collegio depone a favore della non esclusione del concorrente e, quindi, dell'attivazione del soccorso istruttorio deducendo che "... nel particolare caso di specie, l’omessa indicazione nell’offerta economica dell’aggiudicataria del costo della manodopera ex art. 95, comma 10, del Codice dei Contratti pubblici permette l’avvenuta attivazione del soccorso istruttorio ai fini della (legittima) illustrazione postuma degli oneri in questione, perché la lex specialis non prevede tale specifico incombente ... né tale incombente è previsto nel modulo della piattaforma M.E.P.A., che non contempla alcuno spazio “dedicato” all’assolvimento dell’onere in questione ... Si porrebbe, infatti, in insanabile contrasto con i predetti principi di trasparenza e proporzionalità, nonché di buona fede, correttezza e leale collaborazione «l’adozione di una misura espulsiva derivante esclusivamente dall’utilizzazione del modulo predisposto dal sistema di gestione del procedimento, a maggior ragione in considerazione del fatto che l’offerta è rimasta pacificamente inalterata, così da confermare che l’aggiudicataria aveva senza dubbio tenuto conto, nella sua formulazione, del costo della manodopera".
(TAR Puglia Lecce Sez. III, 31.8.2020, n. 965)
by Marco Reale