Energie rinnovabili. Il parere negativo del MIC non è decisivo per la realizzazione di un parco eolico: si applica l’art. 30 del decreto Semplificazioni bis

Energie rinnovabili. Il parere negativo del MIC non è decisivo per la realizzazione di un parco eolico; si applica l’art. 30 del decreto Semplificazioni bis

Energie rinnovabili. Il parere negativo del MIC non è decisivo per la realizzazione di un parco eolico: si applica l’art. 30 del decreto Semplificazioni bisTra le principali novità che hanno caratterizzato il decreto Semplificazioni-bis (d.l.  77/2021, conv. con mod. dalla l. 108/2021) vi è una significativa accelerata e una forte spinta alla semplificazione delle procedure in tema di energie rinnovabili.

In particolare, l’art. 30 del d.l. 77/2021 ha cercato di semplificare la disciplina autorizzatoria degli impianti energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili, disponendo che il MIC partecipi al procedimento unico per i progetti localizzati in aree sottoposte a tutela, nonché nelle aree contermini ai beni sottoposti a tutela, comprese le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e all’esercizio degli stessi impianti.

Il comma 2 del medesimo articolo precisa che “Nei procedimenti di autorizzazione di impianti produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili, localizzati in aree contermini a quelle sottoposte a tutela paesaggistica, il Ministero della cultura si esprime nell’ambito della conferenza di servizi con parere obbligatorio non vincolante”. La norma specifica che decorso inutilmente il termine per l'espressione del parere, l'amministrazione procedente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione. Tra le novità più rilevanti, peraltro, è stato previsto che per tali procedimenti il MIC non può proporre opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri, prevista dall’art. 14-quinquies della l. 241/1990, avverso la determinazione di conclusione della conferenza dei servizi.

Una recente pronuncia del TAR Lazio ha precisato la portata dell’art. 30 del d.l. 77/2022 applicato alla realizzazione di impianti per la produzione di energie rinnovabili su aree vincolate.

Intenzionata a costruire un impianto eolico destinato alla produzione di energia elettrica, una società inoltrava richiesta di autorizzazione unica regionale, c.d. PAUR, alla Regione Lazio.

Più nello specifico, tale impianto eolico – composto da cinque aerogeneratori con potenza massima di 30MW e una pista ciclabile ad essi attigua – doveva essere realizzato su un territorio comprendente più regioni (Molise, Campania e Lazio) e su aree in cui erano presenti beni appartenenti al patrimonio culturale.

Tali aree erano sottoposte a tutela ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett.  c), g), h) ed m) del Codice dei beni culturali (d.lgs. 42/2004), ossia boschi, corsi d’acqua, superfici sottoposte ad uso civico e di interesse archeologico. Con riferimento ai predetti usi civici, era previsto che ad essi si applicasse il dettato dell’art. 142, comma 1, lettere c) ed m), norma secondo cui “il regime giuridico dei beni di cui al comma 1 resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale”.

Nonostante il parere favorevole di tutte le amministrazioni e gli enti interessati, in sede di conferenza di servizi, propedeutica per la definizione del procedimento in questione, il MIC emetteva parere negativo alla realizzazione del parco eolico, evidenziando come vi fosse incompatibilità tra il progetto posto a base dell’intervento e l’interesse paesaggistico, ritenuto prevalente (le cui peculiarità sarebbero state intaccate dall’esecuzione del progetto in questione).

A fronte del parere negativo del MIC, la società interessata, nonché uno dei comuni coinvolti, aveva chiarito che l’impianto eolico da realizzarsi aveva caratteristiche tecniche tali da non interferire con l’interesse paesaggistico delle aree circostanti.

Non ritenendo superabile il proprio dissenso in forza dei chiarimenti resi dalla società istante, il MIC aveva comunque confermato il proprio parere negativo.

La conferenza di servizi si concludeva negando la realizzazione del predetto parco eolico in quanto “per addivenire ad una conclusione positiva del procedimento (…) è stata fatta richiesta di rimodulazione del progetto volta al superamento delle criticità emerse (…) attraverso l’eliminazione dell’interferenza della viabilità con le aree soggette ai vincoli derivanti dagli usi civici”. La Regione Lazio, dunque, negava l’autorizzazione per la realizzazione del parco eolico.

Tanto il parere del MIC, quanto il provvedimento conclusivo del procedimento, sono stati impugnati perché ritenuti viziati dalla società interessata.

Il TAR Lazio ha accolto il ricorso.

In primo luogo, i giudici hanno precisato che il parere negativo reso da una delle amministrazioni partecipanti al procedimento, ancorché vincolante, “non può produrre l'effetto di impedire la prosecuzione del procedimento, svolgendo semplicemente la funzione di rappresentazione degli interessi di cui detta Amministrazione è portatrice, comunque rimessi alla valutazione discrezionale finale dell'autorità decidente, la quale rimane libera di recepire o meno quanto osservato nel parere (cfr. anche Cass., Sez. Un., 1 febbraio 2021, n. 2155)”. Secondo il TAR, dunque, in simili situazioni l’autorità procedente, sulla base di valutazioni discrezionali delle posizioni prevalenti emerse in sede di conferenza, potrà disattendere il parere emesso dall’amministrazione contraria alla positiva conclusione dell’iter autorizzatorio.

Nel caso in esame, dunque, il parere negativo del MIC non avrebbe dovuto avere l’effetto di impedire l’adozione del provvedimento di autorizzazione, laddove l’amministrazione procedente aveva già compiuto una valutazione discrezionale favorevole all’approvazione del progetto.

Con riguardo alla realizzazione di impianti eolici, il TAR ha ricordato come il nuovo art. 30, comma 2, del d.l. 77/2021 prevede che il MIC è tenuto ad esprimere un “parere obbligatorio non vincolante”.

A seguito dell’introduzione dell’art. 30 del d.l. 77/2021, dunque, l’amministrazione decidente non può, per negare l’autorizzazione a realizzare i predetti impianti, adeguarsi in maniera acritica al parere negativo formulato dal MIC, dovendo invece emettere un provvedimento conclusivo del procedimento che tenga conto – valutandoli in maniera puntuale – tutti gli interessi in concorso.

Quanto alla compatibilità del progetto con l’assetto paesaggistico esistente e, in particolare, con gli usi civici relativi alla viabilità, il Collegio ha precisato che l’intervenuto mutamento di destinazione d’uso legittima l’utilizzo delle aree per finalità differenti rispetto a quelle inerenti alla destinazione d’uso pubblica originariamente rilasciata.

Il TAR ha così concluso che “l’illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, la quale (…) fa riferimento ad argomenti già superati in sede di conferenza di servizi e comunque non autonomamente valutati dall’amministrazione”, comporta l’annullamento del provvedimento con cui è stata negata l’autorizzazione alla realizzazione del parco eolico.

(TAR Lazio Roma, Sez. V, 15.9.2022, n. 11870)


opere

Opere non amovibili su suolo demaniale. L’art. 49 cod. nav. vale anche per il rinnovo senza soluzione di continuità? Il quesito all’esame della Corte di Giustizia

opereIn tema di opere non amovibili costruite su suolo demaniale, con una recentissima ordinanza, il Consiglio di Stato ha chiesto alla Corte di Giustizia UE di pronunciarsi sulla compatibilità con gli artt. 49 e 56 TFUE dell’art. 49 cod. nav.

L’art. 49 cod. nav. prevede che: “Salvo che sia diversamente stabilito nell'atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, re stano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato.

In quest'ultimo caso, l'amministrazione, ove il concessionario non esegua l'ordine di demolizione, può provvedervi d'ufficio a termini dell'articolo 54”.

La Corte di Giustizia sarà così chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della cessione, a titolo non oneroso e senza indennizzo in favore del concessionario, alla scadenza della concessione, delle opere edilizie realizzate sull’area demaniale per l’esercizio dell’impresa balneare, quando la concessione, benché rinnovata in forza di un nuovo provvedimento, non ha trovato mai soluzione di continuità.

I fatti all’origine della controversia

La società ricorrente è titolare, sin dal 1928, di uno stabilimento balneare situato su demanio marittimo in Toscana. In costanza dei titoli concessori prorogatisi nel tempo, la ricorrente aveva costruito legittimamente dei manufatti sul suolo demaniale, parte dei quali erano stati incamerati negli anni ’50-’60.

Nel 2007 il Comune aveva riqualificato alcune di queste opere come pertinenze demaniali, in ragione della loro difficile rimozione, reputandole acquisite al patrimonio dello Stato ex lege.

Nel 2008 il Comune aveva poi comunicato alla ricorrente l’avvio del procedimento per l’incameramento di altri manufatti non ancora acquisiti, senza tuttavia mai concludere l’iter di incameramento. Allo stesso tempo, tuttavia, il Comune aveva continuato a rinnovare la concessione demaniale.

Nel 2014 la ricorrente aveva dichiarato al Comune che tutte le opere incidenti sull’area demaniale, potendo essere rimosse entro 90 giorni, erano da considerarsi di facile rimozione, così come previsto dalla modifica intervenuta nel settembre 2013 al Regolamento di attuazione del Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo della Regione Toscana.

Il Comune aveva disatteso la dichiarazione sul presupposto che sull’area demaniale data in concessione insistessero dei beni già acquisiti dal patrimonio statale in base all’art. 49 cod. nav. Sulla base di ciò, in sede di proroga della precedente concessione oggetto di rinnovo, il Comune, riaffermando la qualificazione di pertinenze demaniali dei fabbricati presenti sull’area oggetto di concessione, procedeva altresì alla rideterminazione, in aumento, dei canoni concessori.

La società concessionaria impugnava tutti gli atti del Comune. Il TAR Toscana, tuttavia, respingeva le censure promosse. La società, dunque, ricorreva al Consiglio di Stato.

La posizione della Società e del Comune

Secondo il concessionario, l’incameramento di opere difficilmente amovibili realizzate su porzioni del suolo demaniale oggetto della concessione ex art. 49 cod. nav. (in ipotesi di rinnovo del titolo concessorio senza soluzione di continuità), senza riconoscere al concessionario medesimo alcun indennizzo, sarebbe in contrasto con il diritto eurounitario e con il principio di proporzionalità delle restrizioni delle libertà fondamentali sancite dagli artt. 49 e 56 TFUE.

Nel caso di rinnovo del titolo concessorio senza soluzione di continuità, come quello in esame, il provvedimento con cui viene disposto l’incameramento dei manufatti sarebbe, secondo il ricorrente, abnorme in quanto produrrebbe un duplice effetto sfavorevole: da un lato, il bene oggetto di concessione diverrebbe meno attrattivo per gli operatori economici di altri Stati membri; dall’altro, restringerebbe in maniera eccessiva i diritti del concessionario determinando, in altri termini, una cessione non onerosa di beni di sua proprietà in favore dello Stato, in un momento in cui non sussisterebbero le condizioni previste dall’art. 49 cod. nav., non essendo di fatto mai cessata la concessione.

Il Comune costituitosi in giudizio, di contro, ha evidenziato che la concessione non era stata priva di soluzioni di continuità e che la mancata apposizione alla concessione di una clausola specificamente contraria all’incameramento aveva permesso al concessionario di valutare la perdita della proprietà delle opere da esso realizzate e di ritenere comunque sussistente un equilibrio economico della concessione (ritenuta sufficientemente remunerativa “essendo ubicata, fra l’altro, in una località tra le più rinomate d’Italia”).  In tal senso, dunque, l’art. 49 cod. nav. non solo sarebbe pacificamente applicabile al caso di specie ma sarebbe, secondo il Comune, compatibile con il diritto europeo.

Le ragioni del rinvio pregiudiziale

Il percorso argomentativo seguiti dai giudici d’appello muove essenzialmente dal campo di applicazione dell’art. 49 cod. nav.

L’art. 49 cod. nav., ribadiamo, stabilisce che “Salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato”.

Richiamando la giurisprudenza maggioritaria in materia, i giudici ricordano che l’art. 49 cod. nav. presenta delle analogie con  l'istituto dell'accessione di cui all'art. 934 c.c., ed è stato interpretato nel senso che l'acquisto si verifica, ipso iure, al termine del periodo di concessione e va applicato anche in caso di rinnovo della concessione stessa: dopo l'estinzione della concessione precedente alla relativa scadenza, infatti, il rinnovo, a differenza della proroga, implica una nuova concessione in senso proprio, con automatica produzione degli effetti di cui al predetto art. 49 cod. nav. (cfr. Cons. St., Sez. VI, 3 dicembre 2018, n. 6852).

Solo nel caso in cui il rinnovo intervenga prima della scadenza naturale della concessione, configurandosi una sorta di vera e propria proroga, l’art. 49 cod. nav. può essere escluso. In tal caso, infatti, la giurisprudenza ritiene che le opere realizzate dai concessionari sulla superficie demaniale, ai sensi dell’art. 952 c.c., restano di esclusiva proprietà privata c.d. superficiaria fino al momento dell’effettiva scadenza o revoca anticipata della concessione e per esse non è dovuto un canone ulteriore (cfr. Cons. St., Sez. VI, 13 gennaio 2022, n. 229).

I giudici hanno tuttavia ritenuto necessario disporre un rinvio pregiudiziale alla CGUE al fine di rintracciare una corretta interpretazione dell’art. 49 cod. nav. in rapporto agli artt. 49 e 56 TFUE, con particolare riferimento ai casi di rinnovo senza soluzione di continuità.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha formulato il seguente quesito: “Se gli artt. 49 e 56 TFUE ed i principi desumibili dalla sentenza Laezza (C-375/14) ove ritenuti applicabili, ostino all’interpretazione di una disposizione nazionale quale l’art. 49 cod. nav. nel senso di determinare la cessione a titolo non oneroso e senza indennizzo da parte del concessionario alla scadenza della concessione quando questa venga rinnovata, senza soluzione di continuità, pure in forza di un nuovo provvedimento, delle opere edilizie realizzate sull’area demaniale facenti parte del complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa balneare, potendo configurare tale effetto di immediato incameramento una restrizione eccedente quanto necessario al conseguimento dell’obiettivo effettivamente perseguito dal legislatore nazionale e dunque sproporzionato allo scopo”.

(Cons. St., Sez. VII, 15.9.2022, n. 8010)

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contratto

Sopravvenienze contrattuali: il principio di buona fede può cambiare anche la sorte di un contratto di fornitura

Nei contratti di durata, nello spazio temporale che investe l’esecuzione di un contratto possono verificarsi degli eventi che mutano il contesto giuridico ed economico in cui il negozio si è formato.

Gli eventi che intervengono dopo la sottoscrizione di un contratto, durante l’esecuzione e, dunque, prima della sua conclusione si definiscono sopravvenienze.

Il tema delle sopravvenienze nell'ambito dei contratti pubblici, solitamente ricondotto agli appalti di lavori, investe anche le forniture.

È il caso posto all’attenzione del Tribunale di Napoli il quale, in caso di sopravvenienze – dovute nel caso specifico ad un aumento eccezionale ed imprevisto dei prezzi di materiali – ha posto l’accento su un sistema rimediale basato non più solo su istituti caducatori, bensì anche manutentivi e conservatori, basati sulla clausola generale della buona fede.

Il fatto

La società affidataria di un appalto pubblico per la fornitura, installazione e manutenzione di server e storage per Cluster di Supercalcolo conveniva in giudizio la stazione appaltante, la quale aveva ingiustamente risolto il contratto per inadempimento dell’appaltatore, con anche applicazione delle penali.

Occorre premettere che l’oggetto dell’appalto si componeva di 2 fasi: una prima fase, denominata fornitura base ed una seconda, denominata fornitura opzionale, che poteva essere attivata a totale discrezione della stazione appaltante entro un termine prefissato dalla lex specialis. I prezzi della fornitura, anch’essi “scomposti” in base alla fase di riferimento, erano fissi ed invariabili.

All’atto dell’esercizio dell’opzione da parte della stazione appaltante di avvalersi della seconda fase del contratto, tuttavia, la società affidataria aveva evidenziato che le condizioni di mercato erano mutate per un eccezionale aumento dei prezzi di alcune componenti previste nella fornitura opzionale (Fase 2) e che, dunque, la fornitura si sarebbe potuta concretizzare solo a seguito “di una rivisitazione condivisa della configurazione del sistema che tenga conto degli eccezionali aumenti dei prezzi di questi ultimi anni”.

La stazione appaltante, di contro, in assenza di esplicite pattuizioni contrattuali, risolveva il contratto per inadempimento, applicando le relative penali, per mancata erogazione della fornitura a far data dalla attivazione della fase opzionale.

I motivi di censura

La società affidataria deduceva in giudizio che, per circostanze imprevedibili, i prezzi delle memorie (componente per la fornitura della Fase 2) si erano triplicati e che, dunque, in luogo della risoluzione, si sarebbero potuti applicare gli articoli 1467 c.c. e 1664 c.c.: in altre parole, secondo la società, l’eccezionale aumento dei costi dei materiali tecnologici avrebbe giustificato una rinegoziazione del contratto, o comunque una revisione dei prezzi contrattualmente pattuiti.

Con specifico riferimento alla normativa speciale in materia d’appalti, la società attrice richiamava, altresì, l’art. 106, comma 11, del d.lgs. 50/2016 che impone di preservare il rapporto d’appalto solo quando le “variazioni” siano circoscritte entro il limite del c.d. “quinto d’obbligo” (pari al 20% dell’importo contrattuale) e non anche quando, come nella specie, le richieste della committente “stravolgano” l’oggetto del contratto, imponendo all’appaltatore prestazioni di importo eccedente di gran lunga il 50% dell’importo contrattuale.

Eccepiva, infine, l’inapplicabilità della clausola contrattuale sui prezzi fissi ed invariabili, la doverosità della stazione appaltante della revisione del prezzo, nonché la illiceità delle penali.

Ad avviso dell’appaltatore, dunque, l’aumento dei prezzi delle memorie rendeva il contratto non più conforme alla realtà negoziale e all’assetto degli interessi che avevano originariamente spinto la società a partecipare alla gara e sottoscrivere il contratto.

Si costituiva in giudizio la stazione appaltante, sostenendo che alcun meccanismo di revisione dei prezzi poteva operare in relazione al contratto: l’abrogazione dell’art. 115 del Codice del 2006 che espressamente regolava la revisione dei prezzi fa sì che le sopravvenienze ad oggi sono regolate esclusivamente dall’art. 106 del d.lgs. 50/2016 e non dall’art. 1664 c.c., per cui un meccanismo di revisione di prezzi può essere previsto solo consensualmente. Nel caso di specie il meccanismo di revisione di prezzi era stato precisamente escluso dalla clausola contrattuale sui prezzi fissi ed invariabili, per cui non poteva operarsi alcuna revisione dei prezzi contrattualmente pattuiti.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale di Napoli - dopo un lungo percorso motivazionale, che parte dal generale dovere di buona fede ex art. 1375 c.c. che incombe sulle parti nell’esecuzione del contratto - ha affermato l’illegittimità della risoluzione disposta dalla committente per inadempimento dell'appaltatore.

In particolare, il Tribunale ha rammentato che, in via generale, la buona fede implica il dovere di ciascuna parte di realizzare l’interesse dell’altra o di evitare di recarle danno, anche con l’adempimento di obblighi non previsti dalla legge o dal contratto. Le parti, pertanto, sono tenute ad eseguire il contratto senza pretendere dalla controparte un sacrificio ingiustificato ed eccessivo del proprio interesse negoziale per realizzare quello proprio: diversamente, infatti, si determina uno squilibrio patrimoniale non ammesso nell’ordinamento.

E ciò, specie ove, come accaduto nel caso di specie, il prezzo delle memorie è grandemente aumentato in ragione del macroscopico aumento dell’utilizzo delle RAM in altri supporti, circostanza mai verificatasi prima, come peraltro accertato anche dal CTU.

Nello specifico, poi, il giudicante ha richiamato il Codice dei contratti pubblici ed ha ricordato che dopo l’abrogazione dell’art. 115 del Codice del 2006 - che recava un’ipotesi doverosa ed inderogabile di revisione di prezzi periodica, che avrebbe determinato la nullità della clausola contrattuale sui prezzi fissi ed invariabili -, manca un’analoga previsione nel vigente art. 106 del d.lgs. 50/2016 che regola le modificazioni del rapporto a vario titolo.

Di conseguenza, dando una lettura interpretativa al combinato disposto dell’abrogato art. 115 del Codice del 2006 e del vigente art. 106 del Codice del 2016, il giudice ha affermato che la stazione appaltante non poteva procedere a richiedere l’esecuzione del contratto perché, considerando l’aumento dei costi delle memorie di almeno il 50%, la variazione del sinallagma era superiore ad 1/5 considerato dal comma 11 dell’art. 106 del Codice del 2016.

Il Tribunale si è, dunque, interrogato sulle sorti del contratto qualora, come nel caso di specie, non sia possibile addivenire ad una revisione dei prezzi.

Nel caso di specie, infatti, era da escludere sia la colpa dell’appaltatore al quale non poteva essere richiesto l’adempimento perché eccessivo rispetto a quanto stabilito dall’art. 106, comma 11 del Codice del 2016, sia la colpa del committente, il quale non è obbligato alla rinegoziazione, né per legge, né per contratto.

Per il Tribunale, dunque, occorre far riferimento ai principi generali in materia di contratti e risoluzione, con riguardo alle ipotesi di squilibrio del sinallagma funzionale nei contratti di durata incolpevole: nel caso di specie, dunque, i giudici hanno applicato l’art. 1467 c.c. che disciplina la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

È noto, infatti, che l’art. 1457 c.c. opera qualora le circostanze esterne che hanno inciso sul contratto squilibrandolo siano imprevedibili e perciò non ricomprendibili nel rischio economico del contratto, ossia nell’alea o comunque nel rischio fisiologico proprio di ciascun contratto.

Il giudice ha dunque dichiarato risolto il contratto in forza del disposto dell’art. 1467 c.c. (eccessiva onerosità sopravvenuta) in favore dell'appaltatore.

Considerazioni operative

La sentenza in parola conferma, dunque, seguendo il principio di conservazione del contratto, che è necessario far riferimento non più soltanto alle (statiche) disposizioni scolpite nell’accordo intercorso tra le parti, ma è necessario individuare nella clausola generale di buona fede la fonte di integrazione dell’accordo con ulteriori obblighi comportamentali non specificamente disposti dalla legge.

In altre parole, in assenza di una specifica norma codicistica che disciplini la rinegoziazione dei contratti, anche nell'ambito di un contratto pubblico vige l’obbligo di avviare le trattative che potrebbero condurre alla rinegoziazione del contratto, alla luce clausola generale della buona fede: il contratto sopravvive ma adeguato e rinegoziato.

Qualora, invece, tale rinegoziazione non sia possibile, trovano applicazione i principi generali in materia di contratti e risoluzione di cui all’art. 1467 c.c.

(Tribunale di Napoli, Sez. III, 15.7.2022, n. 7151)


Concessioni balneari e servizi analoghi nelle

Concessioni balneari e servizi analoghi nelle "gare": massima apertura alla concorrenza da parte dell’ANAC

LConcessioni balneari e servizi analoghi nelle "gare": massima apertura alla concorrenza da parte dell’ANACe difficoltà per gli operatori economici e per le amministrazioni nel gestire le “gare” per l’affidamento di concessioni balneari sono molteplici.

Il settore è nuovo a questo tipo di procedura e sconta spesso la carenza di indicazioni precise in merito alla procedura ad evidenza pubblica, caratterizzate da un certo grado di specialità.

Qualche indicazione però inizia a giungere dalla giurisprudenza e dall’ANAC.

Di recente, infatti, l’Autorità si è espressa con il parere precontenzioso n. 347 del 20 luglio 2022 proprio su un’istanza presentata da un comune sul tema dei requisiti tecnico-professionali richiesti nell’ambito di una gara per l’affidamento in concessione del servizio di gestione di alcune spiagge libere attrezzate.

I fatti

Il Comune di Finale Ligure aveva indetto una gara per la concessione della gestione di alcune spiagge libere. Tra i requisiti di capacità tecnico-professionale contenuti nel Disciplinare di gara, il Comune aveva previsto che l’operatore doveva aver gestito un servizio-analogo, ossia doveva aver “gestito in forma imprenditoriale per almeno una stagione balneare nell’ultimo triennio 2019-2020-2021 uno stabilimento balneare, una spiaggia libera attrezzata od una struttura balneare assimilabile”.

Uno dei concorrenti aveva dichiarato di possedere il requisito del servizio-analogo, avendo gestito l’ostello della gioventù/studentato di Modena. Secondo il ricorrente, infatti, il servizio ostello sarebbe assimilabile allo stabilimento balneare, in quanto:

  • sia lo stabilimento balneare sia l'ostello sono strutture turistico ricettive;
  • entrambe le strutture sono dotate di servizio di ristorazione e bar.

Secondo la commissione di gara, il concorrente doveva essere escluso dalla procedura in quanto ai fini dell’ammissione del concorrente, questo avrebbe dovuto provare di aver gestito un servizio analogo allo stabilimento balneare, ossia una “struttura che abbia caratteristiche e problematiche tipiche delle strutture balneari”, ritenendo così che il servizio di gestione dell'ostello non fosse idoneo ad integrare il requisito professionale richiesto: “Ciò che viene richiesto non è infatti un'esperienza generica nell'ambito turistico-ricettivo, ma una specifica conoscenza ed esperienza nell'ambito della balneazione”.

Il parere dell’ANAC

L’ANAC ha ritenuto non corretta l’interpretazione fornita dall’amministrazione e, dunque, ha ritenuto di ammettere il concorrente alla gara.

Ricorda, infatti, l’Autorità, che i concetti di “servizio analogo” e di “fornitura analoga” vanno intesi non come servizi identici, ma come mera similitudine tra le prestazioni richieste, tenendo conto che l’interesse pubblico sottostante non è la creazione di una riserva a favore degli imprenditori già presenti sul mercato ma, al contrario, l’apertura del mercato attraverso l’ammissione alle gare di tutti i concorrenti per i quali si possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità.

La valutazione dell’adeguatezza e proporzionalità del requisito tecnico-professionale richiesto deve essere condotta considerandole peculiarità del servizio oggetto di affidamento e della sua complessità, sia sotto il profilo organizzativo, sia sotto quello esecutivo.

Nel caso in esame, il servizio offerto dal concessionario consisteva in servizi di balneazione, comprensivo della sorveglianza e salvamento, della manutenzione ordinaria dell’arenile, del decoro, della pulizia ed del mantenimento dei servizi minimi essenziali gratuiti a tutta l'utenza e, tra i servizi aggiuntivi, era incluso l’installazione di un chiosco-bar, oltre alla somministrazione all'utenza dei consueti servizi a pagamento (cabine balneari, servizi balneari quali nolo ombrelloni e lettini).

Il servizio oggetto di affidamento è stato ritenuto dall’Autorità privo di caratteristiche organizzative ed esecutive peculiari e complesse, tali da rendere automaticamente inaffidabili gli operatori economici che non abbiano mai gestito servizi balneari e quindi tali da giustificare la scelta dell’Amministrazione concedente di limitare la platea dei potenziali concorrenti ai soli soggetti già titolari di medesime concessioni o comunque esercenti i medesimi servizi oggetto di affidamento.

Per tale ragione, il requisito professionale richiesto dal Disciplinare è stato ritenuto dall’Autorità “immotivatamente” restrittivo della concorrenza, perché di fatto non ammette che possano partecipare soggetti diversi da coloro che hanno già avuto in gestione il medesimo servizio, incidendo, così, profondamente sulla libera concorrenza tra operatori economici che svolgono attività analoghe, anche se non identiche.

La ratio pro-concorrenziale della decisione

 È evidente, dunque, il favor dell’Autorità alla massima concorrenza nel settore delle concessioni balneari.

Tale aspetto si evince, in particolare, in uno dei passaggi finali del Parere, in cui l’ANAC specifica che la fissazione di requisiti di partecipazione estremamente rigidi e restrittivi, anche se astrattamente possibile nell’ambito del legittimo esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione committente, resta una pratica inopportuna, specie nei casi in cui la gara si svolge “in un contesto di mercato caratterizzato da forti componenti oligopolistiche, qual è sicuramente quello che concerne i servizi balneari”.

Secondo l’ANAC, l’esclusione aprioristica di operatori economici qualificati che non svolgono servizi di gestione spiagge crea collusione con gli operatori economici “storici”, producendo minori profitti per le amministrazioni comunali (derivanti dai canoni concessori) e servizi meno efficienti.

Pertanto, è necessario, secondo l’ANAC, garantire più concorrenza e meno criteri rigidi e restrittivi.

Parere di precontenzioso, Delibera ANAC 20.7.2022 n. 347.


Mobilità sostenibile: novità normative e giurisprudenziali per i monopattini elettrici

Numerose sono le novità normative e giurisprudenziali che di recente hanno interessato il tema della mobilità sostenibile e della c.d. green mobility.

Il settore ha assunto, negli ultimi anni, un’importanza sempre maggiore all’interno del dibattito pubblico, specie nell’ottica di regolamentazione dei dispositivi elettrici, sempre più diffusi anche nelle città italiane.

La Legge 30.12.2018, n. 145, infatti, ha dato il via alla sperimentazione della mobilità cittadina pei i monopattini, i segway e gli hoverboard.

Nel contesto di sperimentazione di tali innovativi mezzi di trasporto, con decreto del 4.6.2019 il MIT (oggi MIMS) ha individuato delle regole di conduzione su strada dei monopattini elettrici prevedendo, all’art. 6, le norme di comportamento che i conducenti di tali monopattini devono tenere nonché i requisiti che i conducenti medesimi devono possedere (dovendo essere maggiorenni ovvero, se minorenni, in possesso di patente AM).

Dal primo gennaio 2020, tuttavia, la legge di bilancio 2020 ha definito i monopattini come velocipedi, purché aventi le caratteristiche descritte dal decreto MIT del 4.6.2019, ossia veicoli dotati di motore con una potenza massima pari a 0,5 Kw e di segnali acustici.

I monopattini elettrici, tuttavia, presentano caratteristiche tecniche differenti rispetto a quelle dei velocipedi di cui all’art. 50 del Cds – rubricato, appunto, “Velocipedi” – il cui comma 1 sancisce come con il termine velocipedi si intendano quei mezzi di trasporto a trazione prevalentemente muscolare ovvero le biciclette a pedalata assistita.

È per tale motivo, dunque, che il Ministero delle Infrastrutture ha ritenuto di dover disciplinare, con proprio decreto del 18.8.2022, le caratteristiche tecniche dei monopattini elettrici (definiti come mezzi di trasporto “a due assi con un solo motore elettrico, dotato di manubrio e non dotato di sedile”).

Il decreto da ultimo adottato, dunque, individua le caratteristiche tecniche e costruttive che i monopattini devono avere per poter essere definiti dei velocipedi: è evidente l’importanza del decreto non  solo per i costruttori di tali veicoli, ma anche per i fruitori di servizi sharing che, dunque, sono tenuti ad adottare le regole di circolazione su strada analoghe a quelle previste per le biciclette.

Se tale decreto soddisfa l’esigenza di normare le caratteristiche tecniche di monopattini, uno dei temi più dibattuti resta quello dell’utilizzo del casco da parte dei conducenti di tali veicoli. Nello specifico, se è vero che i minori di anni 18 dovranno obbligatoriamente indossare il casco protettivo (come ricordato di recente dal TAR Toscana, decisione di cui abbiamo parlato in questa news), ad essere argomento di discussione è la legittimità o meno dell’obbligo all’uso del casco in capo ai conducenti maggiorenni di monopattini elettrici.

In diversi Comuni, infatti, sono state emanate, da parte dei sindaci, ordinanze ad hoc con cui veniva imposto l’uso del casco anche ai maggiorenni.

In un recente contenzioso su tale argomento, il TAR Piemonte – dopo aver ricordato che i Comuni, nell’imporre un simile obbligo ai maggiorenni travalicano i poteri che il CdS riconosce agli enti proprietari delle strade (atteso che la disciplina della sicurezza sulle strade è materia riconosciuta allo Stato dall’art. 117, comma 2, lettera h), Cost.) – ha ricordato che la normativa attualmente vigente prevede l’obbligo di uso del casco solo per i minorenni (come stabilito dall’art. 1, comma 75-novies, L. 160/2019).

Il TAR ha così annullato l’ordinanza emanata dal Comune nella parte in cui prevede “l’obbligo di indossare idoneo casco protettivo anche per i conducenti maggiorenni dei monopattini a propulsione prevalentemente elettrica che circolano sulle strade presenti all’interno del centro abitato”, in quanto adottata, come detto, in violazione del citato art. 117, comma 2, lettera h), Cost.).

MIMS, decreto 18.8.2022

TAR Piemonte Torino, Sez. I, 9.6.2022 n. 552


Servizio NCC: sempre necessaria l’autorizzazione per svolgere tale attività anche per società di altro Stato membro

Servizio NCC: sempre necessaria l’autorizzazione per svolgere tale attività anche per società di altro Stato membro

Servizio NCC: sempre necessaria l’autorizzazione per svolgere tale attività anche per società di altro Stato membroIn tema di servizio di NCC, una recente pronuncia resa dal Consiglio di Stato chiarisce che l’autorizzazione necessaria per svolgere tale attività (servizio NCC) che deve essere rilasciata dall’ente locale - in base dall’art. 8, Legge 21/1992 - è pienamente conforme alla normativa comunitaria, anche se a richiederla è un soggetto che svolge già il servizio in un altro Stato europeo.

Il caso giunge all’attenzione dei giudici dopo che una società che offriva il servizio di NCC in Slovenia, nell’ottica di una espansione della propria attività, apriva una seconda sede a Roma.

Per espletare il servizio nella città, la società aveva assunto autisti italiani (iscritti al relativo albo professionale), mentre utilizzava alcuni veicoli immatricolati in Slovenia.

All’esito di accertamenti compiuti dalla Polizia locale di Roma, veniva sequestrato un veicolo, risultante immatricolato con targa slovena e, quindi, non idoneo allo svolgimento del servizio di NCC entro il territorio nazionale italiano. Gli agenti avevano informato l’operatore che in caso di mancata immatricolazione del veicolo sequestrato nei successivi 180 giorni (ovvero in caso di mancata richiesta del foglio di via per condurlo oltre confine) si sarebbe proceduto alla confisca del veicolo medesimo ai sensi di quanto previsto dall’art. 213 c.d.s..

Nonostante il tempestivo avvio della procedura di immatricolazione, la Motorizzazione civile negava il nulla osta all’immatricolazione. A supporto di tale diniego, veniva evidenziato come l’immatricolazione di un veicolo ad uso NCC in Italia fosse subordinata al possesso di una autorizzazione all’esercizio del servizio rilasciata da un Comune italiano (che l’operatore – titolare di una autorizzazione slovena – non possedeva).

Con la pronuncia di primo grado – giudizio finalizzato ad ottenere l’annullamento del diniego opposto dalla Motorizzazione - il Collegio, accogliendo gli argomenti esposti dal gestore del servizio NCC, riteneva che la normativa italiana – che subordinava l’esecuzione di tale servizio all’ottenimento di una autorizzazione rilasciata da un Comune italiano – fosse in contrasto con la normativa sovranazionale (in particolare, con l’art. 49 TFUE che stabilisce la libera di stabilimento). Con la conseguenza che tali disposizioni dovevano essere “disapplicate nella parte e nella misura in cui si trovino in conflitto con le disposizioni e i principi dell’ordinamento comunitario in forza della preminenza del diritto dell’Unione Europea” (così TAR Lazio Roma, Sez. III, 11.8.2021, n. 9364).

Le conclusioni, così riassunte, vengono però riformate dal Consiglio di Stato.

I giudici di Palazzo Spada, infatti, hanno ritenuto di non disapplicare la normativa italiana in favore di quella europea,  ritenendo che il regime autorizzatorio previsto dalla legge 21/1992 è compatibile sia con il diritto di stabilimento stabilito dall’art. 49 TFUE, sia con il principio della libera prestazione di servizi previsto dall’art. 56 TFUE.

Secondo i giudici, le controversie in tema di servizio NCC hanno natura locale o regionale ed afferiscono alle modalità amministrative di rilascio delle autorizzazioni: non hanno ad oggetto, dunque, la natura transfrontaliera del servizio.

Tale assunto, peraltro, è stato anche condiviso dalla Corte di giustizia UE (sentenza 13.1.2014, cause riunite C-419/12 e C-420/12) proprio in relazione alla compatibilità tra art. 49 TFUE (diritto di stabilimento) e legge 21/1992 per il rilascio di autorizzazioni NCC: in quella sede, la CGUE ha accertato la natura locale o regionale delle controversie relative alle autorizzazioni per i NCC, dichiarando di non essere competente a rispondere nella parte relativa all'interpretazione dell'articolo 49 TFUE sulla libertà di stabilimento.

Alle medesime conclusioni, secondo il Consiglio di Stato, si giunge anche esaminando il dettato dell’art. 2 della direttiva Bolkestein (2006/123/CE), il quale esclude dal proprio ambito applicativo il settore dei trasporti (circostanza, questa, che fornisce ulteriore prova della natura non transfrontaliera del servizio NCC).

Ricorda ancora il Consiglio di Stato che con specifico riferimento al rapporto intercorrente tra l’art. 49 TFUE e la legge 21/1992 in tema di servizio NCC, la stessa Corte costituzionale (sent. n. 56/2020) ha dichiarato che la citata legge non determina alcuna “discriminatoria restrizione della concorrenza”, atteso che i requisiti da essa richiesti (ossia la presenza di una sede e di una rimessa territorialmente circoscritte) sono misure indistintamente applicabili (dunque non idonee a restringere la concorrenza).

Secondo i giudici, dunque, il servizio di NCC non può dirsi una attività liberalizzata, proprio perché subordinata all’ottenimento di una autorizzazione (come ricordato da Cons. St., Sez. V, 1.3.2021 n. 1703): l’autorizzazione rilasciata dai Comuni costituisce un requisito oggettivo ed intrinseco dell’attività che l’operatore intende svolgere, requisito che trova giustificazione nelle finalità pubbliche del servizio svolto.

Il rilascio dell’autorizzazione spetta così ai singoli Comuni proprio in ragione del “collegamento dell’attività di N.C.C. con una certa comunità della quale è ente esponenziale il Comune che rilascia l’autorizzazione all’esercizio” (Cons. St., Sez. V, 1.3.2021 n. 1703).

In tema di servizio NCC, conclude il Collegio, “è da escludersi che le contestate norme interne determinino un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale del mercato degli autoservizi pubblici non di linea e che quindi contrastino con tutte le disposizioni dell’Unione Europea, della CEDU e costituzionali” con l’ovvia conseguenza che da quanto sin qui argomentato discende “la conformità della normativa interna (…) rispetto a quella di matrice eurounitaria e dunque l’assenza dei presupposti (…) per giungere alla sua disapplicazione”.

Di conseguenza, il Collegio ha ritenuto legittimo il provvedimento della Motorizzazione che aveva negato l’immatricolazione del veicolo sloveno per assenza di autorizzazione ex art. 85 del c.d.s., statuendo – sebbene indirettamente – che per operare il servizio di NCC, la società avrebbe dovuto richiedere al Comune il rilascio dell’apposita autorizzazione.

(Cons. St., Sez. V, 11.7.2022, n. 5756)


La stazione appaltante “revoca” l’aggiudicazione per aumento dei costi. Decisione legittima se la gara diventa anti-economica e non remunerativa.

La stazione appaltante “revoca” l’aggiudicazione per aumento dei costi. Decisione legittima se la gara diventa anti-economica e non remunerativa.

La stazione appaltante “revoca” l’aggiudicazione per aumento dei costi. Decisione legittima se la gara diventa anti-economica e non remunerativa.Il fenomeno dell’aumento costi e il repentino aumento dei prezzi che si sta registrando con cadenza quasi giornaliera negli ultimi tempi rende difficile anche per le stazioni appaltanti programmare le risorse economiche necessarie per affrontare la realizzazione delle opere. Accade sempre più spesso che le stesse stazioni appaltanti non procedano con l’aggiudicazione delle gare a causa della sopravvenuta insufficienza dei quadri economici e della conseguente antieconomicità delle gare.

A fronte del rischio di ritardi nelle lavorazioni, della cattiva esecuzione delle opere e dei potenziali contenziosi, nell’attuale scenario economico una verifica sulla sostenibilità dell’opera rappresenta una tappa obbligata per l’amministrazione prima di procedere con l’aggiudicazione.

Il giudizio negativo sulla sostenibilità dell’opera a causa delle sopravvenienze economiche determinatesi in questo periodo storico può infatti rendere legittima la scelta dell’Amministrazione di non procedere all’aggiudicazione e, dunque, di revocare la gara.

Sul punto si è espresso di recente anche il TAR Toscana con la sentenza n. 855/2022.

Nell’ambito di una gara avente ad oggetto l’affidamento di lavori di realizzazione di un ponte in acciaio di collegamento stradale, dopo aver comunicato la proposta di aggiudicazione, la Stazione appaltante decideva di non aggiudicare la gara “in considerazione delle motivate e sopravvenute esigenze di interesse pubblico connesse alla non attualità del quadro economico e alla necessità di un suo adeguamento in vista dell’indizione di una nuova gara”. In altre parole, a seguito di una istruttoria svolta dalla stazione appaltante, era emersa una sopravvenuta “anti economicità” dell’opera. L’opera in questione aveva infatti ad oggetto la realizzazione di un ponte ad arco, realizzato interamente in acciaio: si tratta, come noto, di uno dei materiali che ha subito il maggiore incremento di costi nell’ultimo anno.

La decisione di non aggiudicare è stata tuttavia censurata dalla società prima graduata che, ricorrendo innanzi al TAR, ha sostenuto l’illegittimità della decisione di non aggiudicare la gara, in quanto l’opera poteva dirsi comunque conveniente giacché l’amministrazione avrebbe potuto utilizzare gli strumenti della revisione prezzi e della compensazione al fine di far fronte all’incremento dei costi dei materiali.

Il TAR Toscana ha rigettato il ricorso, ritenendo legittimo il comportamento della stazione appaltante.

Secondo i giudici, la stazione appaltante ha motivato la sopravvenienza economica verificatasi che ha condotto alla decisione di non aggiudicare la gara: più precisamente, la stazione appaltante ha precisato che l’incremento dei prezzi registratosi sin dai giorni successivi alla pubblicazione della gara era tale  da rendere “obiettivamente inadeguato il quadro economico di riferimento”. A fronte di una spesa prevista di circa 15 milioni, l’aumento complessivo dei costi era pari a circa 5 milioni di euro.

Allo stesso tempo, l’aumento repentino dei prezzi poneva serie perplessità circa l’effettiva rimuneratività delle offerte pervenute, esponendo l’amministrazione ad un andamento anomalo dell’esecuzione, come ritardi o esecuzione errata delle lavorazioni.

La valutazione circa la sopravvenuta “anti economicità” e “non sostenibilità” dell’opera, secondo i giudici, prescinde dall’applicazione della revisione dei prezzi e delle compensazioni ad oggi vigenti: si tratta infatti di strumenti che, oltre ad essere straordinari, soccorrono in sede di esecuzione e non incidono sulla decisione di non aggiudicare la gara. In vista dell’aggiudicazione della gara, infatti, la valutazione che l’amministrazione deve compiere è legata alla situazione in quel momento esistente e alle circostanze sopravvenute rispetto alla delibera di indizione della gara.

L’incremento del costo dell’opera non solo costituiva una circostanza sopravvenuta e non prevista, ma era suscettibile di incidere, stante anche l’entità dell’incremento registrato, sulle stesse ragioni che avevano portato l’amministrazione a decidere per la realizzazione dell’opera.

In conclusione, dunque, secondo i giudici “una verifica sulla sostenibilità dell’opera non poteva che risultare obbligata per l’Amministrazione, circostanza quest’ultima ancora più condivisibile considerando che, nel caso di specie, si era nella fase della “proposta di aggiudicazione”, nell’ambito della quale la Commissione si era limitata a certificare gli esiti dell’esame delle offerte pervenute, rimettendo ogni valutazione definitiva alla stazione appaltante”.

(TAR Toscana, Sez. I, 4 luglio 2022, n. 885)


Appalto integrato e costituzione del Collegio consultivo tecnico.

Appalto integrato e costituzione del Collegio consultivo tecnico.

Appalto integrato e costituzione del Collegio consultivo tecnico.Con una recente sentenza, il TAR Sicilia si pronuncia sulla concreta applicabilità del Collegio Consultivo Tecnico (CCT) in un appalto integrato.

Nei fatti, accadeva che l’appaltatore aggiudicatario della gara per l’affidamento dell’appalto avente ad oggetto la progettazione esecutiva e la successiva esecuzione dei lavori invitava, con propria richiesta, la committente a costituire il CCT. L’amministrazione, tuttavia, rigettava la richiesta, evidenziando come, ai sensi dell’art. 6, d.l. 76/2020, si sarebbe dovuto procedere alla costituzione dell’organo in questione prima dell’avvio dell’esecuzione dei lavori (o, comunque, entro 10 dieci giorni da tale data).

Ritenendo erronea la summenzionata lettura della norma, l’aggiudicatario proponeva ricorso al TAR avverso il predetto diniego alla costituzione del CCT: secondo il ricorrente, in particolare, l’amministrazione avrebbe errato nel caso di specie, in quanto, nell’appalto integrato, la progettazione esecutiva costituisce una prima e basilare attività di esecuzione del contratto medesimo.

Ad opinione del Collegio, va anzitutto premesso il CCT è istituto la cui costituzione, ancorché successiva alla stipula del contratto, non è rimessa alla discrezionalità dell’operatore economico. Ad essere prevalente, in altri termini, è l’interesse pubblico sotteso alla rapida risoluzione delle controversie che dovessero insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto, al fine di pervenire nel più breve tempo possibile al completamento delle opere oggetto dell’appalto.

Fatta tale premessa, il Collegio accoglie il ricorso. Per espressa previsione di legge, il ricorso al CCT è obbligatorio in tutti quegli appalti il cui valore sia superiore alle soglie comunitarie – così come previsto dalla disciplina legislativa attualmente vigente.

Nel caso di specie, non merita accoglimento l’obiezione dell’amministrazione secondo cui l’attivazione del CCT si abbia con l’avvio dell’esecuzione dei lavori (e non, come sostenuto dal ricorrente, con l’avvio delle operazioni di progettazione esecutiva): l’appalto integrato è infatti una particolare forma contrattuale che ricomprende al proprio interno “oltre all’esecuzione dei lavori affidati, parte della progettazione relativa a tali lavori”. Esso, in altri termini, è assimilabile al c.d. contratto misto negli appalti pubblici, in quanto al suo interno si assommano prestazioni di progettazione (ossia servizi) ed esecuzione di opere (ossia lavori); ne deriva, dunque, che questo costituisce una forma di appalto concepito come unitario, con la conseguenza che sarebbe arbitrario (quando non illegittimo) separare le due prestazioni (ossia la progettazione esecutiva e la successiva esecuzione dei lavori) al fine di far decorrere il termine per l’attivazione del CCT al momento dell’avvio dei lavori medesimi.

Accedere all’interpretazione fornita dall’amministrazione, di contro, significa sottrarre al CCT tutta quella parte di attività che trova svolgimento nel corso della progettazione esecutiva.

In conclusione, secondo il TAR non può darsi seguito alla tesi dell’amministrazione – secondo cui la costituzione del CCT debba avvenire solo dopo l’avvio dei lavori – in quanto, dovendosi considerare l’appalto integrato un unicum (in cui la fase della progettazione esecutiva è, come detto, la prima e basilare fase dell’esecuzione del contratto), ne deriva che “essendo l’esecuzione del contratto di appalto integrato iniziata in data 1 dicembre 2021 (con la consegna della progettazione esecutiva)” è da tale data che l’amministrazione “avrebbe dovuto procedere all’istituzione del Collegio Consultivo Tecnico”.

(TAR Sicilia Catania, Sez. I, 20.6.2022 n. 1638)


Concessioni demaniali: le novità normative e giurisprudenziali nel paper di Legal Team

Concessioni demaniali. La risposta del Governo al parere della Commissione UE e la giurisprudenza più recente.

Vista la confusione che regna sovrana, abbiamo predisposto un paper, a cura di Rosamaria Berloco e Pietro Falcicchio con la collaborazione di Sara Turzo e Marica De Angelis, su tutte le novità in tema di concessioni demaniali in modo da rendere accessibile il quadro normativo in cui ci troviamo a operare.

Compila il form per ricevere gratuitamente il paper Concessioni demaniali.

(riceverai una email con il paper, verifica anche in casella spam / indesiderata / promozioni)


Decreto PNRR bis: tutte le novità in materia di appalti pubblici (caro materiali e CCT).

Decreto PNRR bis: tutte le novità in materia di appalti pubblici (caro materiali e CCT).

Decreto PNRR bis: tutte le novità in materia di appalti pubblici (caro materiali e CCT).Si torna sul tema del caro materiali e CCT; in occasione della conversione in l. 29 giugno 2022, n. 79, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 150 del 29.6.2022, del d.l. 36/2022 il legislatore ha introdotto rilevanti modifiche al c.d. decreto PNRR bis in materia di appalti pubblici.

Vediamo le novità più importanti.

Tra le novità inserite in sede di conversione, figura l’art. 35 comma 1 bis, il quale modifica i criteri di individuazione dei corrispettivi per i membri del Collegio consultivo tecnico (CCT).

In particolare, riscrivendo interamente il comma 7-bis dell’art. 6 del d.l. 76/2020, vengono ridefiniti i compensi dei componenti del collegio consultivo tecnico (avevamo già parlato delle modifiche introdotte a inizio anno a questo link), ponendo degli scaglioni di importo variabile a seconda della composizione dello stesso e del valore dell'appalto.

Di seguito, la nuova formulazione della norma.

Art. 6, comma 7 bis, d.l. 76/2020: "In ogni caso, i compensi dei componenti del collegio consultivo tecnico, determinati ai sensi del comma 7, non possono complessivamente superare con riferimento all'intero collegio:

a) in caso di collegio consultivo tecnico composto da tre componenti:

 1) l'importo pari allo 0,5 per cento del valore dell'appalto, per gli appalti di valore non superiore a 50 milioni di euro;

 2) l'importo pari allo 0,25 per cento per la parte del valore dell'appalto eccedente 50 milioni di euro e fino a 100 milioni di euro;

 3) l'importo pari allo 0,15 per cento per la parte del valore dell'appalto eccedente 100 milioni di euro e fino a 200 milioni di euro;

 4) l'importo pari allo 0,10 per cento per la parte del valore dell'appalto eccedente 200 milioni di euro e fino a 500 milioni di euro;

 5) l'importo pari allo 0,07 per cento per la parte del valore dell'appalto eccedente 500 milioni di euro;

b) in caso di collegio consultivo tecnico composto da cinque componenti:

1) l'importo pari allo 0,8 per cento del valore dell'appalto, per gli appalti di valore non superiore a 50 milioni di euro;

 2) l'importo pari allo 0,4 per cento per la parte del valore dell'appalto eccedente 50 milioni di euro e fino a 100 milioni di euro;

 3) l'importo pari allo 0,25 per cento per la parte del valore dell'appalto eccedente 100 milioni di euro e fino a 200 milioni di euro;

 4) l'importo pari allo 0,15 per cento per la parte del valore dell'appalto eccedente 200 milioni di euro e fino a 500 milioni di euro;

 5) l'importo pari allo 0,10 per cento per la parte del valore dell'appalto eccedente 500 milioni di euro".

Una delle novità di maggiore impatto, inserite dal legislatore in sede di conversione del decreto, attiene al tema delle soluzioni rimediali per far fronte al caro materiali nel settore delle commesse pubbliche (solo lavori, ancora una volta).

In particolare, l'art. 7, comma 2 ter, d.l. 36/2022 come convertito in legge, fornisce un'interpretazione autentica dell'art. 106, comma 1, lett. c) del codice dei contratti pubblici, chiarendo che tra le circostanze impreviste ed imprevedibili, tali da consentire una modifica dei contratti, possono includersi quelle che "alterano in maniera significativa il costo dei materiali necessari alla realizzazione dell'opera".

Il legislatore non sta affermando che è possibile modificare il corrispettivo attraverso le varianti.

Si ricorderà infatti che anche la giurisprudenza aveva escluso che, per far fronte al caro materiali negli appalti pubblici, potesse essere utilizzato l’art. 106, comma 1, lett. c) del Codice. Secondo la comune interpretazione, infatti, la norma “disciplina i casi in cui, nel corso di svolgimento del rapporto contrattuale, si renda necessario, per circostanze impreviste e imprevedibili, modificare “l’oggetto del contratto” attraverso “varianti in corso d’opera”, ossia “modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 15/11/2021, n. 7602)” e non sarebbe applicabile per effettuare l’adeguamento del prezzo dell’appalto (TAR Lombardia Brescia, Sez. I, 10.3.2022, n. 239) - abbiamo commentato la sentenza a questo link.

L’interpretazione fornita dal legislatore, dunque, non sembra porsi in contrasto con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza, laddove ammette espressamente che tra le circostanze impreviste ed imprevedibili che possono condurre ad una variante vi è proprio il caro materiali.

Sul solco dell’interpretazione autentica fornita dal comma 2 ter dell’art. 7, il comma 2 quater del medesimo articolo introduce, infatti, espressamente la possibilità, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di proporre, su iniziativa della stazione appaltante ovvero dell'appaltatore, senza che sia alterata la natura generale del contratto e ferma restando la piena funzionalità dell'opera, una variante in corso d'opera che assicuri risparmi, rispetto alle previsioni iniziali, da utilizzare esclusivamente in compensazione per far fronte alle variazioni in aumento dei costi dei materiali.

Si potrebbe, orbene, immaginare una variante che sostituisca un materiale che ha subito un aumento considerevole del costo con un altro, ottenendo un risparmio che serve a compensare il costo di altri materiali.

Ancora, si potrebbe immaginare una variante utile a rimuovere un intervento complementare che non incide sulla piena funzionalità dell'opera, ricavando delle economie da utilizzare per compensare il costo di altri materiali.

Tali disposizioni si affiancano agli strumenti rimediali già in vigore per fronteggiare la problematica del caro materiali e dei prodotti energetici, e sembrano aprire ad un’applicazione generale delle disposizioni, senza fissare limiti o termini per la loro applicazione, come previsto per le altre disposizioni (si pensi al sistema delle compensazioni straordinarie e al meccanismo previsto dal c.d. decreto aiuti, il cui campo di applicazione è fortemente circoscritto).

È evidente, dunque, l’intento del legislatore di tendere la mano agli operatori economici gravemente colpiti dal caro materiali e che non hanno trovato piena soddisfazione con le disposizioni recentemente introdotte.

È stata poi confermata in sede di conversione la previsione inserita all’art. 34 per il rafforzamento del sistema di certificazione della parità di genere.

Si tratta di un ulteriore passo avanti verso quello che è stato definito il c.d. gender procurement.

Sul solco di quanto introdotto dal legislatore con l’art. 47 del decreto Semplificazioni-bis, l’art. 34 rafforza la certificazione della parità di genere di cui all'art. 46-bis del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. 198/2006) prevedendo:

  1. La modifica del comma 7 dell’art. 93 del Codice dei contratti pubblici, per cui per i contratti di servizi e forniture, l'importo della garanzia o il suo eventuale rinnovo è ridotto del 30% anche per gli operatori economici in possesso certificazione della parità di genere di cui all'articolo 46-bis del Codice delle pari opportunità;
  2. La modifica del comma 13 dell’art. 95 del Codice dei contratti pubblici, per cui le stazioni appaltanti possono prevedere l’attribuzione di un maggiore punteggio all'offerta del concorrente che dimostri, attraverso il possesso della certificazione della parità di genere di cui all'articolo 46-bis del Codice delle pari opportunità, l'adozione di politiche tese al raggiungimento della parità di genere.

Infine, segnaliamo anche un’ulteriore modifica apportata questa volta al Codice del processo amministrativo.

Il comma 1 bis dell’art. 73 c.p.a., introdotto peraltro di recente con il d.l. 80/2021 (conv. in l. 113/2021), prevedeva che né il giudice, né la parte potessero disporre la cancellazione della causa dal  ruolo e che il rinvio dell’udienza pubblica per la trattazione della causa può essere disposto solo per casi  eccezionali, che devono essere menzionati nel verbale d’udienza o nel decreto presidenziale che dispone il rinvio.

L’art. 7, comma 2 bis, del decreto PNRR-bis, invece, modificando l’art. 73, comma 1 bis c.p.a., ammette che la cancellazione della causa dal ruolo possa essere disposta d’ufficio dal Giudice.

(d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito in legge 29 giugno 2022, n. 79 recante: «Ulteriori misure urgenti per l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)»)