manufatti

Concessioni demaniali marittime: quali manufatti possono rimanere montati fino al 31.12.2023?

I manufatti amovibili inerenti all’esercizio delle concessioni demaniali marittime possono rimanere montati fino al 31.12.2023. Questo è quanto previsto dal Decreto Milleproroghe. Ma tale prescrizione vale per tutti i manufatti?

Come ormai noto, il termine di scadenza di validità delle concessioni demaniali marittime in essere, fissato, dalla L. 118/2022, al 31 dicembre 2023, è stato prorogato al 31 dicembre 2024 dal d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. in L. 24 febbraio 2023, n. 14 (c.d. decreto Milleproroghe).

Il decreto Milleproroghe ha, poi, concesso ai titolari delle concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e dei punti di approdo con finalità turistico-ricreative, che utilizzino manufatti amovibili leggeri, di mantenere installati i predetti manufatti fino al 31 dicembre 2023, fermo restando il carattere di amovibilità dei manufatti medesimi.

Il sistema di riforma della legge Concorrenza, apparentemente improntato all’accelerazione, è stato quindi parzialmente frenato dal decreto Milleproroghe.

Tuttavia, le disposizioni contenute nel decreto Milleproroghe non trovano applicazione se, all’entrata in vigore del predetto decreto, i termini di cui alla concessione demaniali sono già scaduti.

Lo sa bene il titolare di una concessione demaniale che si è visto rigettare il ricorso avverso il provvedimento regionale con il quale veniva intimata la rimozione dei manufatti e il conseguente ripristino delle aree in concessione perché “tale norma [n.d.r. decreto Milleproroghe] è entrata in vigore soltanto il 28.2.2023, quando era già scaduto il termine perentorio … per la rimozione delle strutture”.

Il caso specifico.

Il titolare di una concessione demaniale marittima, con scadenza al 31.12.2023 aveva ottenuto, in sanatoria, il rilascio della Valutazione di incidenza ambientale ex artt. 5, commi 2 e 3 DPR n. 357/1997 e 6 comma 3 della Direttiva comunitaria n. 43/1992, limitatamente alla stagione balneare 1.6.2023 – 30.9.2023, con alcune prescrizioni, tra cui quella della “rimozione delle strutture da effettuarsi entro il 15.10.2022”.

Senonché, in data 12.4.2023, i Carabinieri accertavano il mancato rispetto della predetta prescrizione da parte del titolare.

L’autorità regionale competente, con provvedimento ex art. 54 del Codice della Navigazione intimava al predetto concessionario il ripristino delle aree, preavvertendolo che decorso inutilmente il termine fissato, l’ufficio avrebbe dichiarato la decadenza del titolo concessorio.

Il titolare della concessione impugnava, innanzi al TAR Basilicata, il provvedimento ex art. 54 del Codice della Navigazione, deducendo, tra le altre, la violazione dell’art. 10- ter D.L. n. 198/2022 conv. nella L. n. 14/2023, in quanto con tale norma è stato stabilito che i titolari delle concessioni demaniali marittime ad uso turistico – ricreativo, che utilizzano i manufatti amovibili ex art. 3, comma 1, lett. e.5), DPR n. 380/2001, possono mantenerli installati fino al 31.12.2023.

La decisione del TAR.

Il TAR Basilicata, con la sentenza in commento, nel rigettare il ricorso proposto, ha evidenziato che nella fattispecie in esame, l’art. 10 ter D.L. 198/2022 conv. nella L. n. 14/2023, entrato in vigore il 28.2.2023 non può essere applicato perché lo smontaggio delle strutture doveva essere effettuato in data 15.10.2022, prima dell’entrata in vigore del citato articolo.

T.A.R. Basilicata, sez. I, 4.10.2023, n. 558


obbligo

Fin dove arriva l’obbligo di fornire informazioni durante la fase precontrattuale?

Durante la fase precontrattuale, ciascuna parte ha l’obbligo di fornire informazioni idonee a non esporre l’altra parte a rischi o a conseguenze pregiudizievoli di cui la stessa non possa avere contezza e che rientrano viceversa nella sfera di conoscenza o conoscibilità del contraente.

Il contenuto del dovere di informazione nelle trattative precontrattuali riguarda quindi le circostanze obiettive che potrebbero rendere invalido o inefficace il contratto, ma non comprende anche la convenienza dell’affare che ciascuna parte ha l’onere di valutare.

Tali principi sono stati ribaditi dalla Corte d’Appello di Milano che con sentenza dello scorso agosto ha confermato la pronuncia del giudice di primo grado.

Il caso specifico.

Una società stipulava con una società di intermediazione finanziaria contratti di leasing di durata pari a 60 mesi.

Tale durata, però, non permetteva alla società di dedurre fiscalmente i relativi canoni perché inferiore rispetto al minimo previsto dalla legge.

Subito dopo averlo scoperto, la società citava in giudizio l’intermediaria ritenendola responsabile per averla indotta a stipulare un contratto con una durata inferiore al minimo di legge, senza informarla che in tal modo non avrebbe potuto dedurre fiscalmente i relativi canoni.

Il Tribunale di Milano, però, rigettava la domanda risarcitoria non ritenendola meritevole di accoglimento.

Veniva, quindi, interposto appello dalla società, la quale censurava la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176 e 1375 c.c.

La società lamentava altresì l’erroneità della sentenza perché il Tribunale non aveva considerato che la società è un intermediario finanziario, tenuta in tale veste ai comportamenti imposti dall’art. 21 del Testo Unico della Finanza d.lgs. 24.2.1998 n. 58, che specifica la regola della correttezza prevista dall’art. 1175 c.c. in termini di diligenza, correttezza e trasparenza.

La decisione della Corte d’Appello di Milano.

La Corte d’Appello di Milano, nel confermare la sentenza di primo grado, ha preliminarmente evidenziato che un contratto di leasing tra società commerciali non può essere ricondotto nell’alveo della normativa che governa il settore dei servizi di investimento mobiliare e che quindi l’art. 21 del testo Unico della finanza n. 58/1998 non è invocabile perché si tratta di un’operazione di leasing finanziario e non di investimento mobiliare.

Chiarito il quadro normativo di riferimento, la Corte d’appello ha evidenziato che, nel caso in esame, non risulta omessa da parte della società di intermediazione finanziaria alcuna informazione rilevante involgente elementi e circostanze di fatto a sua esclusiva conoscenza in quanto gli specifici aspetti in tema di deducibilità dei canoni di leasing previsti dalla normativa fiscale italiana, che in tesi non sarebbero stati oggetto di adeguata informazione, avrebbe dovuto essere conosciuti da un importante operatore commerciale quale è la società appellante.

Il collegio ha, altresì, evidenziato che la scelta della durata del contratto rientra nella sfera della piena e discrezionale autonomia decisionale della società utilizzatrice a cui compete l’accertamento della normativa fiscale applicabile, giacché solo l’utilizzatore si trova nella condizione di conoscere direttamente e compiutamente, sulla base delle specifiche previsioni normative, il contenuto necessario da dare al contratto in relazione alla durata al fine del vantaggio fiscale.

Deve perciò escludersi – ha concluso la Corte d’appello – che la società intermediaria avesse l’onere di verificare tale profilo, spettava invece alla società appellante, nell’ ambito delle trattative palesare alla società concedente la necessità di stipula del contratto di leasing in modo da poter ricavare la deduzione fiscale dei canoni.

 

Corte d’Appello di Milano, Sez. III, 18 agosto 2023 n. 2547


proroga automatica

Concessioni demaniali marittime: il Consiglio di Stato ribadisce l’inefficacia degli atti di proroga automatica

Il Consiglio di Stato ribadisce l’inefficacia degli atti di proroga automatica delle concessioni demaniali marittime.

Con la recentissima sentenza dello scorso 28 agosto, i giudici di Palazzo Spada, nel rigettare il ricorso proposto dal titolare di una concessione balneare al fine di ottenere l’annullamento, tra gli altri, dell’ordinanza con la quale l’amministrazione comunale aveva ingiunto la demolizione dello stabilimento balneare con conseguente ordine di ripristino dello stato dei luoghi, hanno ribadito che gli atti di proroga ex lege delle concessioni demaniali devono ritenersi tamquam non esset.

Il caso specifico

Il titolare di uno stabilimento balneare nell’aprile 2018 presentava all’ufficio competente del Comune di Lecce il rinnovo dei permessi di costruire rilasciati in suo favore negli anni 2009, 2012 e 2013.

La richiesta veniva, però, rigettata per incompatibilità dell’intervento rispetto alle previsioni del PRC, del PPTR, del d.P.R. 31/2017 nonché in ragione della necessità di salvaguarda la funzionalità del sistema dunale. Il Comune di Lecce adottava, pertanto, l’ordinanza di demolizione dello stabilimento balneare, ordinando il ripristino dello stato dei luoghi.

Detta ordinanza veniva impugnata, sotto plurimi aspetti, dal titolare della concessione innanzi al TAR Puglia, il quale rigettava il ricorso.

Il titolare della concessione proponeva quindi appello innanzi al Consiglio di Stato deducendo l’erroneità della sentenza di primo grado.

La decisione del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato ha confermato la decisione del TAR Puglia, ritenendo legittima l’ordinanza di demolizione dello stabilimento balneare.

Ora, in disparte le argomentazioni poste a sostegno della legittimità dell’operato dell’amministrazione comunale, la sentenza in commento merita di essere segnalata perché i giudici di Palazzo Spada ancora una volta non hanno perso l’occasione di rimarcare la circostanza che gli atti di proroga adottati dalle amministrazioni non producono alcun effetto giuridico.

In particolare, il Collegio ha osservato come tutti i motivi posti a sostegno dell’appellante e utilizzati per rimarcare il profilo patologico dei provvedimenti impugnati non possano cogliere nel segno laddove non tengano conto della inefficacia della proroga della concessione demaniale marittima che costituisce l’atto sul quale poggerebbe il titolo e la legittimazione dell’appellante a pretendere dal Comune di Lecce il rilascio degli atti abilitativi per mantenere la struttura balneare sul terreno demaniale che occupa.

Il ricorrente, infatti, sin dal giudizio di primo grado ha sostenuto che “…i titoli edilizi sopra indicati, essendo collegati nella loro validità temporale alle concessione demaniale (come è sancito letteralmente nei titoli stessi), intervenuta la proroga della detta concessione sino al 31.12.2020 (cfr CDM 02/2014) ne seguono le relative temporali e dovevano essere prorogati automaticamente sino al 31.12.2020, data di attuale scadenza del titolo concessorio”.  

Il ricorrente ha quindi tentato di irrobustire la propria posizione contestativa nei confronti dei provvedimenti impugnati sul presupposto che i titoli edilizi erano stati temporalmente allineati ai termini “prorogati ex lege” della concessione demaniale marittima.

Senonché, il Consiglio di Stato, richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale sul tema delle concessioni demaniali marittime ed evidenziato, dunque, che gli atti di proroga non hanno alcun valore giuridico, ha ritenuto infondati tutti i profili di censura sollevati dall’appellante.

Per i giudici di Palazzo Spada, dunque, le concessioni demaniali marittime in essere andranno a scadere al prossimo 31 dicembre 2023. Con la sentenza in commento è stato infatti ribadito che anche la recente disposizione normativa del c.d. Decreto Milleproroghe, che ha fissato il termine di validità delle concessioni demaniali al 31 dicembre 2024, deve ritenersi tamquam non esset.

A questo punto una domanda sorge spontanea: cosa accadrà dopo il 31 dicembre 2023 alle concessioni demaniali marittime in essere?

Se da un lato, il Consiglio di Stato non appare avere dubbi sull’inefficacia degli atti di proroga automatica, dall'altro, il Governo non ha ancora fornito indicazioni su come affrontare le "gare", limitandosi ad avviare la sola mappatura delle spiagge.

Chi la spunterà?

Cons. Stato, Sez. VI, 28 agosto 2023, n. 7992


effetto caducante, proroga

L’illegittimità di una concessione demaniale marittima ha effetto caducante sugli atti di proroga successivi

Il Consiglio di Stato, con la sentenza dello scorso 7 luglio, confermando le statuizioni del TAR Liguria, ha ritenuto che l’illegittimità di una concessione demaniale marittima abbia effetto caducante rispetto agli atti di proroga successivi, anche quando non specificatamente impugnati.

Il caso specifico

Una società ha impugnato la concessione demaniale marittima rilasciata, nel lontano 2009, dall’amministrazione comunale competente, a favore di un’altra società, domandandone l’annullamento perché illegittimamente prorogata in via automatica. La concessione impugnata, infatti, costituiva rinnovazione della precedente concessione demaniale rilasciata nel 2003, assentita in forza dell’art. 7, comma 5 della L.R. Liguria n. 1/2002.

In particolare, a sostegno del ricorso, la società istante ha dedotto l’illegittimità della proroga automatica della concessione perché adottata in violazione delle norme dell’ordinamento eurounitario e dell’art. 117, comma 1 Cost. che impongono l’espletamento di una procedura di evidenza pubblica ai fini del rilascio della concessione demaniale marittima.

Nel caso specifico, poi, ben dieci prima, il Consiglio di Stato, con sentenza 29 gennaio 2013, n. 525,  aveva già annullato gli atti con cui il medesimo comune aveva rigettato l’istanza dell’odierna ricorrente che, interessata, come oggi, all’area demaniale confinante, in prossimità della scadenza del titolo concessorio, aveva domandato la titolarità della gestione della relativa area demaniale. In quell’occasione, il Consiglio di Stato aveva già evidenziato il contrasto della normativa interna con l’art. 12, comma 2 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa ai servizi nel mercato interno, 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE, nonché con i principi del Trattato in tema di concorrenza e di libertà di stabilimento, contrasto che aveva finanche portato all’abrogazione della norma interna ad opera dell’art. 11, comma 1, della legge 15 dicembre 2011, n. 217, al fine di chiudere la procedura d’infrazione n. 2008/4908 nel frattempo avviata nei confronti dell’Italia ai sensi dell’art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.

Nonostante ciò, il comune ha continuato ad adottare, nelle more, atti di proroga del titolo concessorio, tutti impugnati dalla società ricorrente.

In primo grado, il TAR Liguria ha accolto il ricorso della società aspirante concessionaria, ritenendo che l’illegittimità della concessione demaniale del 2009 “ha effetto caducante e si estende anche a tutti gli atti consequenziali, cioè a tutte le ulteriori proroghe automatiche, anche quando non fossero state specificatamente impugnate”.

La sentenza è stata impugnata dal titolare della concessione, il quale ha dedotto che il giudice di primo grado ha errato nella parte in cui ha escluso l’applicabilità al caso di specie dell’art. 3 L. 118/2022 e non è pervenuto ad una pronuncia di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Nello specifico, ha evidenziato che nel corso del giudizio era intervenuta la nuova disciplina di cui all’art. 3 della L. 5 agosto 2022, n. 118 secondo la quale “continuano ad avere efficacia fino al 31 dicembre 2023 …, se in essere alla data di entrata in vigore della presente legge sulla base di proroghe o rinnovi disposti anche ai sensi della l. 30 dicembre 2018 n. 145 … le concessioni demaniali marittime per l’esercizio delle attività turistico ricreative e sportive, ivi comprese quelle, di cui all’art. 1 c. 1 d.l. 400/93”. Pertanto, a parere del ricorrente, poiché la concessione del 2009, ad agosto del 2022, era in “essere” (seppur sub iudice) sulla base di una serie di proroghe attuative delle leggi nazionali succedutesi nel tempo e, in ultimo, sulla base di proroga attuativa della l. 145/2018, conseguentemente l’art. 3 L. 118/2022 aveva inciso sulla concessione del 2009 come da ultimo prorogata ex l. 145/2018, decretandone l’efficacia fino al 31 dicembre 2023 con effetto sanante.

La decisione del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato, nel confermare la decisione del TAR Liguria ha evidenziato che gli atti di proroga sono stati adottati non solo in violazione del diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 del TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE ma anche del giudicato.

La sentenza resa dal Consiglio di stato, ben dieci anni prima (sentenza 29 gennaio 2013, n. 525), evidenziava, infatti che le normative che prevedono proroghe automatiche in tema di concessioni demaniali marittime violano l’art. 117, comma 1, della Cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di diritto di stabilimento e di tutela della concorrenza. L’automatismo della proroga della concessione determina, infatti, una disparità di trattamento tra gli operatori economici in violazione dei principi di concorrenza, dal momento che coloro i quali in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore se non nel caso in cui questi non chieda la proroga o la chieda senza un valido programma di investimenti.

È proprio il caso di dirlo, dieci anni dopo e nulla è cambiato!

 

(Cons. St., Sez. VII, sentenza 7 luglio 2023, n. 675)


contratto, clausole vessatorie

Scrivere un contratto non è un gioco da ragazzi. Come devono essere approvate le clausole vessatorie?

Scrivere un contratto non è un gioco da ragazzi, questa potrebbe essere una delle massime da estrapolare nella recente sentenza della Corte d’appello di Milano sezione specializzata in materia d’impresa, chiamata a chiarire le caratteristiche dei contratti c.d. standard nonché a definire i requisiti della "specifica approvazione" ex art. 1341 c.c. sulle clausole vessatorie.

Il caso specifico.

Una società operante nella intermediazione turistica sottoscriveva, con un’azienda, cinque contratti di associazione in partecipazione con cui regolava la gestione di altrettanti punti vendita.

Senonché, dopo un paio d’anni, il legale rappresentante p.t. dell’azienda, che nelle more era stata ceduta a terzi, esercitava il diritto di recesso da tutti e cinque i contratti, avviando, al contempo, nei medesimi punti di vendita, un’attività di agenzia viaggi.

La società di intermediazione turistica citava, quindi, in giudizio la predetta azienda eccependo la violazione dell’obbligo di non concorrenza contrattualmente previsto, con conseguente condanna della convenuta al pagamento delle penali.

Il Tribunale adito rigettava tutte le domande formulate dall’agenzia, la quale, all’esito, interponeva appello, deducendo l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui il giudice ha ritenuto che tutti i rapporti di associazione in partecipazione sono stati regolati da formulari standardizzati nonché nella parte in cui ha dichiarato la nullità della clausola contrattuale, relativa all'obbligo di non concorrenza, perché indeterminata nell’oggetto.

Decisione della Corte

La Corte d’appello, nel rigettare l’appello e confermare dunque la sentenza di primo grado ha ritenuto che i contratti in questione sono da qualificare come contratti standard.

Questi, infatti, risultano composti da varie clausole predisposte unilateralmente dall’agenzia di intermediazione turistica e sottoscritte solo per adesione. Nel caso specifico, poi, il giudice di secondo grado ha rilevato che la società di intermediazione turistica è un network di rilevanza nazionale che gestisce centinaia di agenzie sul territorio nazionale.

Elemento determinante, però, nel qualificare tale contratto come contratto standard, è che non vi è stata specifica e particolareggiata trattativa su ciascuna clausola contrattuale, né tanto meno, su quelle che introducono forti limitazioni all’autonomia negoziale dopo la conclusione del contratto, tra cui anche l’articolo, limitativo della concorrenza, posto a fondamento della domanda risarcitoria formulata dall’agenzia di intermediazione turistica.

Al riguardo, la Corte ha chiarito che neppure la doppia sottoscrizione apposta sull’elenco soddisfa il requisito della “specifica approvazione”, considerato che non è stato indicato il contenuto di ciascuna clausola a fianco al relativo numero e l’elenco non ricomprende solo clausole vessatorie, ma anche pattuizioni che non presentano tale carattere.

Del resto, in giurisprudenza è ormai pacifico l’orientamento (Cfr. ex multis Cass. Civ. Sez. II, 29.02.2008, n. 5733; Cass. Civ. Sez. II, 31.10.2016, n. 22026; Cass. Sez. VI, 12.10.2016, n. 20606) secondo cui non integra il requisito della specifica approvazione per iscritto ex 1341, comma 2, c.c., il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto o di gran parte di esse, comprese quelle prive di carattere vessatorio, e, quindi, la loro sottoscrizione indiscriminata, poiché con tale modalità non è garantita l’attenzione del contraente debole verso la clausola a lui sfavorevole, in quanto ricompresa tra le altre richiamate.

Tale modalità di approvazione della clausola vessatoria rende oggettivamente difficoltosa la percezione della stessa, giacché la genericità di tale riferimento priva l’approvazione della specificità richiesta dall’art. 1341 c.c., in quanto la norma richiede non soltanto la sottoscrizione separata, ma anche la scelta di una tecnica redazionale idonea a suscitare l’attenzione del sottoscrittore sul significato delle clausole specificatamente approvate.

(Corte d’Appello di Milano, Sezione specializzata in materia d’impresa, 21.6.2023, n. 2049).


codice dei contratti

Concessioni demaniali: il codice dei contratti pubblici non trova integrale applicazione

Il codice dei contratti pubblici non trova integrale applicazione nell’ambito delle concessioni demaniali. Questo è quanto affermato dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un diniego di rinnovo della concessione demaniale marittima ex art. 36 cod. nav. per il mantenimento di un impianto di distribuzione carburanti, disposto dalla Autorità portuale competente.

Il caso specifico.

All’esito della pubblicazione della domanda di rinnovo del titolo concessorio presentata dalla società titolare della concessione, una seconda società  presentava, a sua volta, istanza di concessione demaniale in concorrenza per la gestione di un impianto di distribuzioni carburanti.

L’Autorità portuale competente, informate le due società concorrenti, comunicava che per l’esame delle domande sarebbe stata predisposta la relativa Conferenza dei servizi decisoria per l’acquisizione dei pareri istruttori.

Pervenuti i dovuti pareri e assunte le osservazioni delle due società concorrenti, l’Autorità portuale emetteva la determinazione di conclusione positiva della conferenza dei servizi decisoria, ritenendo ammissibile l’istanza ed il progetto della società concorrente. Faceva quindi presente che con successiva nota avrebbe comunicato l’avvio della fase procedimentale di comparazione delle due offerte. Con la medesima nota precisava altresì che solo la società che sarebbe risultata preferita avrebbe dovuto acquisire l’autorizzazione paesaggistica della Soprintendenza.

L’Autorità portuale, determinatasi a procedere alla assegnazione della concessione demaniale a mezzo di licitazione privata ex art. 37, comma 3 del cod. nav., inviava le società concorrenti a formulare offerte economiche al rialzo sull’importo a base d’asta di € 7.500,00.

Entrambe le società formulavano la propria offerta economica (la società già titolare della concessione per un importo pari ad € 45.000,00, la società concorrente per un importo pari ad € 108.000,00) e all’esito delle operazioni di gara è risultata migliore offerente la società che aveva offerto il maggior rialzo, ovvero la società concorrente.

Per l’effetto, l’Autorità portuale rigettava la domanda di rinnovo della concessione avanzata dalla società già titolare e adottava l’atto di intimazione a procedere allo sgombero ed alla rimessione in pristino dell’aerea demaniale occupata dall’ormai ex concessionaria.

Entrambe le società impugnavano gli atti della procedura adottati dall’Autorità portuale.

Il Tar Catania accoglieva il ricorso presentato dall’ex concessionaria, rilevando:

  • l’illegittima mancata partecipazione della Soprintendenza per il rilascio del parere ex art. 146 del d.lgs. 42/2004 su entrambe le istanze di comparazione, alla conferenza decisoria indetta dall’Autorità;
  • la mancata esclusione della società concorrente dalla procedura di comparazione per non aver presentato referenze di (minimo) due diversi istituti bancari, così come espressamente richiesto dall’Autorità.

Avverso la sentenza del giudice primo grado, ha presentato appello principale la società concorrente, nonché appello incidentale la società ex concessionaria e l’Autorità portuale.

La decisione del CGARS.

Il Consiglio di giustizia amministrativa ha dichiarato, l’appello principale, per intero, inammissibile per superamento non autorizzato dei limiti dimensionali (per un approfondimento si veda il punto 12.1. della sentenza), mentre ha accolto l’appello incidentale presentato dall’Autorità portuale e rigettato quello della società ex concessionaria.

Nello specifico, è stato ritenuto fondato il motivo ove è stato dedotto l’erroneità della pronuncia di primo grado nella parte in cui ha fondato l’asserita illegittimità dei provvedimenti impugnati sulla mancata acquisizione del parere della Soprintendenza ai beni culturali e ambientali in seno alla Conferenza di servizi decisoria.

Il CGARS ha, infatti, rilevato che la mancata partecipazione della Soprintendenza alla conferenza dei servizi è frutto di una precisa scelta della stessa Soprintendenza, ripetutamente manifestata all’amministrazione procedente. La Soprintendenza, infatti, aveva espressamente comunicato che il parere ex art. 146 d.lgs. 42/2006 doveva essere richiesto solo relativamente al progetto che sarebbe stato scelto dall’Autorità.

Ne consegue, dunque, che “la volontaria mancata partecipazione della Soprintendenza alla Conferenza di servizi decisoria non possa chiedersi ragione all’Autorità di sistema portuale”.

Anche il secondo motivo di censura sollevato dall’Autorità portuale, con il quale è stata criticata la parte della sentenza che ha ritenuto dirimente ai fini dell’accoglimento del ricorso presentato dall’ex concessionaria la mancata esclusione dal procedimento di comparizione della società concorrente per non aver prodotto le duplici referenze bancarie richieste dall’Autorità portuale, è stato ritenuto fondato dal CGARS.

In particolare, il collegio ha ritenuto che tale omissione non costituisca un’esplicita clausola di immediata esclusione dalla procedura comparativa. Invero, il CGARS, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. IV, sent. 22 novembre 2013, n. 5542), secondo cui “la presentazione d’idonee referenze bancarie comprovate dalla dichiarazione di “almeno due istituti bancari o intermediari autorizzati” non può considerarsi quale requisito “rigido”, dovendosi conciliare l’esigenza della dimostrazione dei requisiti partecipativi con il principio della massima partecipazione alle gare di appalto, con conseguente necessità di prevedere temperamenti rispetto a quelle imprese che non siano in grado, per giustificati motivi, di presentare le indicate”, ha ritenuto che la mancata presentazione delle duplici referenze bancarie avrebbe potuto influire sulla valutazione della capacità economico-finanziaria della richiedente ma non essere causa di esclusione.

Ha aggiunto, altresì, il collegio che la procedura prevista dall’art. 37, comma 3 del cod. nav. è connotata da caratteristiche meno rigide rispetto alla licitazione prevista dal codice dei contratti che non trova integrale applicazione nell’ambito delle concessioni.

Il CGARS ha ritenuto fondato anche il terzo motivo di appello formulato dall’Autorità portuale con il quale è stata dedotta l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha affermato l’illegittimità dell’ingiunzione di sgombero anche perché “al tempo in cui fu adottata” non era ancora stato individuato il soggetto destinatario della nuova concessione.

Al riguardo, il collegio ha osservato che la scadenza della concessione rende sine titulo l’occupazione degli immobili. Lo sgombero è, solo per tale motivo, provvedimento immediatamente obbligatorio e vincolato. Non necessita, pertanto, l’attesa dell’individuazione di un nuovo concessionario (che – precisa il CGARS- potrebbe, in linea puramente astratta, perfino non esserci mai, laddove l’amministrazione si determini per la gestione diretta dell’area).

Concluso lo scrutinio dell’appello incidentale dell’Autorità portuale, il CGARS ha esaminato l’appello incidentale presentato dalla società ex concessionaria, la quale ha, sostanzialmente, richiamato i plurimi profili di doglianza dedotti già in primo grado.

Nella disamina di detto appello incidentale, degno di nota è la puntuale e condivisibile osservazione del CGARS, secondo cui non sussiste un obbligo di legge di procedere all’affidamento delle concessioni demaniali marittime nelle forme tipiche delle procedure ad evidenza pubblica previste per i contratti d’appalto della pubblica amministrazione.

L’assenza di tale obbligo – ha precisato il CGARS – è dovuta dal fatto che l’art. 37 cod. nav. contempla l’ipotesi di una domanda che perviene dal mercato privato, al contrario dell’ipotesi dei contratti pubblici, in cui è l’amministrazione a rivolgersi a quest’ultimo.

Il CGARS ha infatti evidenziato che “è indispensabile unicamente che il procedimento informale di cui agli artt. 37 cod. nav. e 18 reg. es. cod. nav. si svolga con modalità idonee a soddisfare gli obblighi di trasparenza, imparzialità e par condicio, rendendo effettivo il confronto fra le istanze in comparazione e quindi le chances concorrenziali delle nuove imprese contendenti”.

Nel caso scrutinato, il CGARS ha quindi ritenuto legittima la procedura di licitazione privata rilevando che il procedimento concorrenziale di cui qui trattasi non è soggetto agli stessi formalismi, né dunque ai principi giurisprudenziali che sono previsti per l’aggiudicazione dei pubblici appalti.

CGARS, 22.5.2023, n. 350


rumori molesti

Rumori molesti dalla strada? La responsabilità è del Comune.

rumori molestiRumori molesti dalla strada? La responsabilità è del Comune. Con una recentissima sentenza dello scorso 23 maggio, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la responsabilità del Comune per i rumori molesti provenienti dalla strada, prodotti dagli avventori di alcuni esercizi commerciali ubicati nel quartiere oltre l'orario di chiusura.

La vicenda giunta alla Suprema Corte trae origine da una coppia di coniugi che, stanchi dei continui schiamazzi notturni, hanno convenuto in giudizio il Comune, chiedendo che venisse condannato ex art. 844 c.c., “alla cessazione immediata delle predette immissioni ovvero alla messa in opera delle necessarie misure per ricondurre alla normale tollerabilità le immissioni medesime”, nonché al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.

In primo grado, il Tribunale adito ha accolto integralmente la domanda dei coniugi ordinando all’amministrazione comunale la predisposizione di un servizio di vigilanza, dal giovedì alla domenica nei mesi da maggio ad ottobre, con impiego di agenti comunali che, entro la mezz'ora successiva alla chiusura, dovevano disperdere la folla, oltre al pagamento di 20mila euro ciascuno per il danno non patrimoniale e 9mila euro per il danno patrimoniale.

Avverso la decisione del Tribunale, il Comune ha proposto appello e il giudice di secondo grado, ritenuta errata la statuizione del Tribunale, ha rigettato le domande dei coniugi.

In particolare, la Corte d’appello ha osservato che:
a) la titolarità passiva del rapporto giudizio non spettava al Comune in assenza di norme specifiche che ne imponessero l'obbligo di un puntuale intervento al riguardo.
b) in ogni caso non sussisteva la giurisdizione del Giudice Ordinario a conoscere di cause simili, poiché non era ad esso giudice consentito di disporre l'effettuazione di un pubblico servizio.

I coniugi hanno quindi proposto ricorso innanzi la Corte di Cassazione, la quale, in accoglimento dello stesso, ha chiarito che:

  • la tutela del privato che lamenti la lesione, anzitutto, del diritto alla salute costituzionalmente garantito e incomprimibile nel suo nucleo essenziale ma anche del diritto alla vita familiare convenzionalmente garantito dall'art. 8 CEDU e della stessa proprietà, che rimane diritto soggettivo pieno - sino a quando non venga inciso da un provvedimento che ne determini l'affievolimento - cagionata dalle immissioni (nella specie, acustiche) intollerabili, ex art. 844 c.c., provenienti da area pubblica (nella specie, da una strada della quale la Pubblica Amministrazione è proprietaria), trova fondamento, anche nei confronti della P.A., anzitutto nelle stesse predette norme a presidio dei beni oggetto dei menzionati diritti soggettivi;
  • la P.A. è tenuta ad osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni e, quindi, il principio del neminem laedere, con ciò potendo essere condannata sia al risarcimento del danno (artt. 2043 e 2059 c.c.) patito dal privato in conseguenza delle immissioni nocive che abbiano comportato la lesione di quei diritti, sia la condanna ad un facere, al fine di riportare le immissioni al di sotto della soglia di tollerabilità, non investendo una tale domanda, di per sé, scelte ed atti autoritativi, ma, per l'appunto, un'attività soggetta al principio del neminem laedere. Ne consegue la titolarità dal lato passivo del convenuto Comune.
  • Infine, ha precisato la Corte, la domanda di risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, "non postula alcun intervento del giudice ordinario di conformazione del potere pubblico e, dunque, non spiega alcuna incidenza rispetto al perimetro dei limiti interni della relativa giurisdizione, ma richiede soltanto la verifica della violazione da parte della P.A. del principio del neminem laedere e, dunque, della sussistenza o meno della responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c., per aver mancato di osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni quale condotta, connotata da c.d. colpa generica, determinativa di danno ingiusto per il privato". Ne consegue, ha concluso la Corte, che la circostanza che il primo giudice avesse predeterminato il facere del Comune imponendo taluni comportamenti – come l'effettuazione di un servizio pubblico di vigilanza, organizzandone anche le modalità operative – “non impediva, però, ogni diversa delibazione del giudice di secondo grado, coerente con la portata della domanda formulata dagli attori, che fosse volta ad imporre alla P.A. (non già le modalità di esercizio del potere discrezionale ad essa spettante, ma) di procedere agli interventi idonei ed esigibili per riportare le immissioni acustiche entro la soglia di tollerabilità, ossia quegli interventi orientati al ripristino della legalità a tutela dei diritti soggettivi violati”.

Cass. Civ., Sez. III, 23.5.2023, n. 14209


caducazione automatica

Appalti pubblici: l'annullamento dell’aggiudicazione non comporta la caducazione automatica del contratto

Il TAR Napoli, con la sentenza n. 2254/2023, dando seguito all’orientamento maggioritario della giurisprudenza, secondo il quale la caducazione automatica del contratto a seguito dell’annullamento giurisdizionale della aggiudicazione è venuta meno con l’entrata in vigore degli artt. 121 e 122 c.p.a., ha affermato che la PA dopo l’annullamento giurisdizionale della aggiudicazione, ha il potere di valutare se sia opportuno o meno procedere alla risoluzione del contratto.

Il caso specifico

Con l’atto introduttivo del giudizio, l’impresa ricorrente ha censurato l’illegittimità del provvedimento adottato dalla SA con cui è stata dichiarata l’inefficacia del contratto stipulato a seguito di un’aggiudicazione annullata in sede giurisdizionale.

Per la società ricorrente il provvedimento è viziato perché l’inefficacia del contratto è stata dichiarata dalla SA, sull’assunzione dell’errato presupposto di diritto che all’annullamento dell’aggiudicazione consegue ipso iure la nullità del contratto.

Per la ricorrente, il provvedimento è altresì viziato sotto il profilo del difetto di motivazione, in quanto la SA non si sarebbe espressa in ordine all’interesse pubblico attuale e concreto allo scioglimento del contratto.

La decisione del TAR

Il TAR, non ritenendo condivisibili gli argomenti della ricorrente, ha rigettato il ricorso.

Preliminarmente, il Collegio si è soffermato sulla questione della giurisdizione e, riconoscendo l’appartenenza alla giurisdizione del giudice amministrativo, ha precisato che l’aver stipulato il contratto non determina per ciò solo lo spostamento della giurisdizione se lo scioglimento del vincolo contrattuale non è conseguito a vizi propri del contratto e, men che meno, al mancato adempimento di prestazioni che sono oggetto delle obbligazioni convenute in contratto a carico delle parti contraenti.

Nel merito, il TAR Napoli ha osservato che, in relazione alla questione della sorte del contratto in seguito all’annullamento della aggiudicazione da parte del giudice, si registrano in giurisprudenza diversi orientamenti:

  • un primo orientamento ritiene che dovrebbero ritenersi automaticamente caducati gli atti, amministrativi e negoziali, posti in essere dall’amministrazione in esecuzione della sentenza di primo grado;
  • quello maggioritario ritiene che la caducazione automatica del contratto a seguito dell’annullamento giurisdizionale della aggiudicazione sia venuta meno, conseguentemente all’entrata in vigore degli artt. 121 e 122 c.p.a., occorrendo comunque una pronuncia del giudice di inefficacia;
  • un altro orientamento ritiene che la parte che abbia ottenuto l’annullamento dell’aggiudicazione dovrebbe poi proporre domanda al giudice ordinario per ottenere la declaratoria di sopravvenuta inefficacia del contratto;
  • secondo un ulteriore orientamento, che è quello sposato dal TAR Napoli, si esclude che all’annullamento dell’aggiudicazione in mancanza di espressa decisione del giudice, possa conseguire la caducazione automatica del contratto che dunque rimarrebbe in vita, fatte salve le determinazioni assunte dall’amministrazione in conseguenza dell’annullamento degli atti di gara;
  • da ultimo, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto possibile disporre, in sede di ottemperanza, la caducazione del contratto d’appalto su ricorso proposto dalla parte vincitrice contenente domanda di subentro in ragione dell’inerzia tenuta dall’amministrazione.

Come anticipato, il TAR Napoli ha ritenuto di condividere l’orientamento secondo cui nel caso in cui sia stata giudizialmente annullata l’aggiudicazione e il giudice non si sia pronunciato sulla efficacia del contratto, non è ammissibile la caducazione automatica di quest’ultimo ma è l’amministrazione, che non può rimanere inerte, a dover assumere le determinazioni necessarie.

In tal senso, la giurisprudenza si è già pronunciata, affermando che: “la stazione appaltante … è tenuta a valutare se, alla luce delle ragioni che hanno determinato l’annullamento dell’aggiudicazione, permangano o meno le condizioni per la continuazione del rapporto contrattuale in essere con l’operatore economico (illegittimo) aggiudicatario, ovvero se non risponda maggiormente all’interesse pubblico, risolvere il contratto e indire una nuova procedura di gara (in applicazione del potere riconosciuto ora dall’art. 108, comma 1 d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50; cfr. Cons. Stato, sez. IV 5 maggio 2016, n. 1798)”.

In questo contesto, - ritiene il TAR Napoli -, il richiamo all’art. 108, comma 1 del d.lgs. 50/2016 appare dirimente, in quanto detto articolo fa riferimento ad ipotesi di risoluzione del contratto dovute a vizi della fase dell’evidenza pubblica o alla necessità di una rinnovazione della gara (per superamento delle soglie o modifica sostanziale del contratto), tanto che esso è stato ricondotto dalla giurisprudenza nell’ambito dell’esercizio dell’autotutela decisoria trattandosi di decisione assunta sulla base del migliore perseguimento dell’interesse pubblico, e di conseguenza nella giurisdizione amministrazione, ancorché la “risoluzione” intervenga in corso di esecuzione del contratto.

In conclusione, secondo il Collegio “deve riconoscersi un potere dell’amministrazione, vuoi fondato sui generali principi dell’autotutela amministrativa, vuoi sull’espressa previsione dell’art. 108 del codice dei contratti, di incidere unilateralmente sulla efficacia del contratto per ragioni riconducibili ai vizi della fare della evidenza pubblica”, come è certamente il caso dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione.

TAR Campania Napoli, Sez. II, 13.4.2023, n. 2254

 


appalti pubblici

Appalti pubblici, consegna lavori d'urgenza e rinuncia al contratto per mancato adeguamento dei prezzi: si può fare!

adeguamento dei prezziIn materia di appalti pubblici, è possibile rinunciare alla stipula del contratto per mancato adeguamento dei prezzi in caso di consegna d’urgenza dei lavori.

Decorsi i termini di vincolatività dell’offerta e a seguito della richiesta di adeguamento dei prezzi del contratto non ancora stipulato, la pubblica amministrazione deve valutare la sussistenza dei presupposti per accordare all’operatore economico la modifica dei prezzi.

Secondo la recente pronuncia del TAR Friuli Venezia Giulia n. 155/2023, infatti, ove l’amministrazione ritenga che non possa darsi luogo all’adeguamento dei prezzi, deve limitarsi a prendere atto della volontà manifestata dall’aggiudicataria di non stipulare il contratto alle condizioni originarie, senza porre in essere atti pregiudizievoli per l’operatore.

In un simile contesto, secondo i giudici, resta priva di rilevanza l’eventuale consegna d’urgenza dei lavori che, dunque, non comporta la tacita accettazione di tutte le condizioni contrattuali originarie, né l’assunzione di un obbligo all’esecuzione integrale delle prestazioni.

Vediamo nel dettaglio il caso sottoposto all’attenzione del TAR.

I fatti

Un comune aveva indetto una procedura negoziata per l'affidamento in appalto di lavori di restauro e riuso di un complesso edilizio, indicando quale termine finale di presentazione dell’offerta il 18 maggio 2021.
Espletate le formalità di gara, in data 13 luglio 2021 questa veniva aggiudicata ad un RTI, sebbene il relativo provvedimento di aggiudicazione fosse divenuto efficace solo in data 26 ottobre 2021, all’esito della verifica dei requisiti.

In data 29 ottobre 2021 il DL aveva proceduto ad una prima consegna parziale dei lavori “sotto le riserve di legge” che sarebbe stata sciolta dopo il perfezionamento degli atti di approvazione del contratto. Il 10 febbraio 2022 il DL aveva proceduto all’ulteriore consegna dei lavori in via d'urgenza, con la medesima precisazione.

Nell’aprile 2022 la società, resasi conto dell’aumento dei costi esponenziali che continuava a subire in attesa del perfezionamento del contratto, aveva inviato al DL una diffida con cui richiedeva la sospensione lavori e la redazione di una perizia di variante. A tale diffida non faceva seguito alcun riscontro da parte del Comune.

In data 26 agosto 2022 il Comune procedeva finalmente a convocare la società per la firma del contratto prevista per il giorno 7 settembre 2022. Prontamente l’impresa riscontrava il Comune rappresentando la necessità di adeguare le condizioni contrattuali prima della stipulazione del contratto, comunicando, in difetto, di rinunciare alla stipula del contratto.

Nonostante i successivi solleciti, il Comune non riscontrava la richiesta, sicché l’impresa in data 4 ottobre 2022, formalizzava, in via definitiva, la rinuncia alla stipula del contratto.
In data 10 novembre 2022, il RUP rappresentava alla società l’impossibilità, a suo dire, di procedere con una modifica del contratto prima della sua stipula e che, in ogni caso, le esigenze “economiche” dell’impresa potevano essere adeguatamente tutelate tramite i meccanismi di cui all’art. 26 del d.l. 50/2022 (c.d. decreto Aiuti).

Contestualmente, il RUP informava l’impresa che erano in corso delle valutazioni sulle azioni da disporre a tutela della stazione appaltante, in considerazione anche del fatto che il termine di fine lavori sarebbe scaduto in data 7 ottobre 2022, ossia dopo che l’impresa aveva formalizzato la propria rinuncia alla stipula, per cui – a parere dell’Amministrazione- tale comportamento concretizzava l’ipotesi di grave inadempimento e grave ritardo.

Prontamente l’impresa replicava che l’intervenuta consegna dei lavori in via d’urgenza non esimeva l’Amministrazione dal dare corso alla stipulazione del contratto entro il termine di 60 giorni, di cui all’art. 32, comma 8, d.lgs. 50/2016; termine decorso il quale l’aggiudicatario può liberamente sciogliersi dal vincolo, ove ritenesse non più conveniente proseguire con il rapporto.

Precisava infatti l’impresa che per un verso, l’immissione nell’area di cantiere dell’appaltatore era avvenuta quando ancora non era decorso il termine di 60 giorni, né quello di 180 giorni di validità dell’offerta, con la conseguenza che l’impresa non avrebbe potuto in alcun modo sottrarsi all’esecuzione delle opere provvisionali ordinata in quel frangente; per altro verso, che la normativa contempla espressamente l’ipotesi che la consegna dei lavori in via d’urgenza non sia seguita dalla stipulazione del contratto d’appalto, prevedendo, in tal caso, che l’aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione dei lavori ordinati dal direttore dei lavori (art. 32, comma 8, d.lgs. 50/2016).

In altri termini, spiegava l’impresa “la consegna in via d’urgenza non può essere concepita alla stregua di uno strumento mediante il quale si finisca per “sterilizzare” l’obbligo della stazione appaltante di addivenire alla stipulazione del contratto entro il termine di 60 giorni dall’aggiudicazione efficace; né, per identiche ragioni, essa può inibire l’impresa dall’esercizio del proprio diritto di svincolarsi da un rapporto che non sia tempestivamente approdato alla sua fisiologica dimensione contrattuale”.

Ciononostante, il Comune procedeva alla revoca in autotutela dell’aggiudicazione dei lavori disposta dal Comune ai sensi dell’art. 32, comma 8, del d. lgs. 50/2016, in danno dell’operatore economico, con conseguente escussione della polizza e segnalazione all’ANAC.

Il parere dei giudici

Il TAR Friuli ha accolto il ricorso.

Dirimente, secondo i giudici, è il dato per cui alla data del 7 settembre 2022, fissata dal Comune per la stipula del contratto d’appalto, erano già ampiamente decorsi tanto il termine di cui all’art. 32, comma 4, del d.lgs. 50/2016 (“L'offerta è vincolante per il periodo indicato nel bando o nell'invito e, in caso di mancata indicazione, per centottanta giorni dalla scadenza del termine per la sua presentazione”), quanto quello di cui al successivo comma 8 (“Divenuta efficace l'aggiudicazione, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione deve avere luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell'invito ad offrire, ovvero l'ipotesi di differimento espressamente concordata con l'aggiudicatario, purché comunque giustificata dall'interesse alla sollecita esecuzione del contratto. (…) Se la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato, l'aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto”), senza che la stazione appaltante avesse mai chiesto agli offerenti o concordato con gli stessi il loro differimento.

Sicché, secondo i giudici, l’impresa ricorrente ha esercitato una legittima facoltà ad ella spettante: a fronte del rifiuto dell’Amministrazione di procedere a riequilibrare le condizioni economiche dell’istaurando rapporto contrattuale, e non essendo più vincolante l’offerta presentata, l’impresa ha legittimamente manifestato la volontà di rinunciare alla stipula del contratto; di contro, al Comune residuava unicamente la possibilità di valutare “la sussistenza dei presupposti di pubblico interesse per accordare alla ricorrente l’invocata rimodulazione dei prezzi contrattuali”.

Precisa il TAR che ove il Comune avesse ritenuto (come, di fatto, ha ritenuto) che non vi fossero margini per procedere all’adeguamento dei prezzi contrattuali “altro non avrebbe potuto/dovuto fare che prendere lealmente atto della volontà legittimamente manifestata dall’aggiudicataria e, poi, assumere le conseguenti determinazioni per assicurare, se ancora di suo interesse, la realizzazione dei lavori che qui vengono in rilievo”.

Quanto alla consegna dei lavori, invece, i giudici hanno precisato che alla ricorrente non erano mai stati consegnati i lavori, in via definitiva e nella loro totalità, ma sempre e solo una consegna parziale la quale non può “costituire vincolo incondizionato per l’aggiudicataria alla stipula del contratto, viepiù laddove, come nella fattispecie in esame, la stipula stessa venga richiesta ad offerta non più vincolante e ampiamente oltre il termine di 60 (sessanta) giorni dall’efficacia dell’aggiudicazione. Né, tanto meno, può costituire vincolo per l’aggiudicataria all’esecuzione dei lavori nella loro interezza, essendo evidente che nessuno può essere tenuto ad eseguire lavori per la cui esecuzione non è stato mai autorizzato, né tanto meno essere ritenuto responsabile se non l’ha fatto”.

A confermare ciò, secondo i giudici, sarebbe la stessa formulazione dell’art. 32, comma 8, del d.lgs. 50/2016, il quale rende palese come la consegna in via d’urgenza sia un istituto autonomo e distinto rispetto alle vicende che possono condizionare le sorti del contratto.

Del pari, le misure previste dal legislatore per gestire il fenomeno dell’aumento dei prezzi e, segnatamente, il meccanismo previsto dall’art. 26 del d.l. 50/2022 (c.d. decreto aiuti) non possono comportare l’accettazione incondizionata del contratto atteso che si tratta “di strumenti che prevedono (…)l’accesso a fondi limitati e sono destinati ad assolvere a necessità impreviste e sopravvenute nel corso dell’esecuzione del contratto (Cons. Stato, Sez. V, 11.1.2022, n. 202)” (T.A.R. Toscana, sez. I, 4 luglio 2022, n. 885)”.

TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 17.4.2023 n. 155


ssuu

Intervento nomofilattico delle SSUU del decreto ingiuntivo non opposto.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con una recente sentenza dello scorso 6 aprile, hanno affrontato il delicato tema del superamento del giudicato del decreto ingiuntivo non opposto, in ossequio al principio di effettività della tutela del consumatore, alla luce della direttiva 93/13 e dell’art. 19 del TUE.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, chiamate a pronunciarsi sulla sorte dell’opposizione all’esecuzione proposta dal consumatore che, non avendo opposto il decreto ingiuntivo nei termini, ha eccepito, per la prima volta dinanzi al Giudice dell’Esecuzione, l’abusività delle clausole del contratto in base al quale era stato emesso il decreto ingiuntivo, hanno affermato che il Giudice del monitorio è tenuto a compiere d’ufficio il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore e che qualora tale verifica non sia stata effettuata, l’eventuale abusività delle clausole contrattuali potrà essere accertata in fase esecutiva.

Il caso specifico.

La questione giunta all’attenzione della Suprema corte prende avvio dall’emissione di un decreto ingiuntivo reso in favore di un professionista che sulla base del titolo esecutivo non opposto, è intervenuto in una procedura immobiliare già pendente nei confronti del consumatore debitore.

In sede di procedura esecutiva, dopo che il giudice aveva depositato il progetto di distribuzione della somma ricavata dalla vendita del complesso immobiliare, il debitore consumatore si è opposto adducendo l’insussistenza del diritto di credito in ragione della nullità del decreto ingiuntivo perché emesso da un giudice territorialmente incompetente.

L’opposizione all’esecuzione è stata, però, rigettata dall’adito Tribunale.

Il debitore consumatore ha, quindi, proposto, ricorso straordinario dinanzi la Corte di cassazione, eccependo la violazione e/o l’errata interpretazione della direttiva 93/13 e dell’art. 19 del TUE, con riferimento al principio dell’effettività della tutela del consumatore, mettendo in discussione l’impossibilità, a fronte di un decreto ingiuntivo non opposto, sia di un secondo controllo, sia di una successiva tutela, una volta spirito il termine per proporre opposizione nei confronti del decreto ingiuntivo.

I principi di diritto.

Esaminata la controversa questione, nonostante la rinuncia al ricorso per cassazione, la Suprema Corte ha ritenuto di doversi soffermare su una questione di particolare importanza e di enunciare, nell’interesse della legge, principi di diritto, al fine di dare il necessario seguito ai dicta della CGUE pronunciati da ultimo con la sentenza n. 693/19 del 17 maggio 2022.

Occorre premettere, che, in tema di tutela del consumatore, la CGUE ha chiarito che gli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993, relativi alle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, “…devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa -per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità -successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole”.

Per la CGUE, costringere il consumatore a proporre l’opposizione per far valere i propri diritti si pone in contrasto con lo stesso principio del rilievo d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali che anche nell’ambito del procedimento monitorio è funzionale all’effettività della tutela del consumatore sotto il profilo della non vincolatività delle clausole medesime, ai sensi dell’art. 6, par. 1, del consumatore.

Secondo la giurisprudenza della CGUE (tra le altre: le sentenze Pannon, Banco Espanol de Credito, Aziz, Profi Credit Polska; le sentenze: 9.11.2020, in C-137/08, VB Penzugyi Lizing; 11.3.2020,in C-511/17, Lintner; 4.6.2020, in C-495/19,  Kancelaria Medius; 30.6.2022,  in C- 170/21, Profi Credit Bulgaria), il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, connessa all’oggetto della controversia, purché gli elementi di diritto e di fatto già in suo possesso, suscitino seri dubbi a riguardo, dovendo quindi, adottare d’ufficio misure istruttorie necessarie per completare il fascicolo, chiedendo alle parti di fornirgli informazioni aggiuntive a tale scopo.

Su tali indicazioni europee, armonizzate alla normativa nazionale, la Corte di cassazione ha enunciato i seguenti principi diritto:

Il giudice del monitorio:

  1. deve svolgere, d’ufficio, il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore in relazione all’oggetto della controversia;
  2. a tal fine procede in base agli elementi di fatto e di diritto in suo possesso, integrabili, ai sensi dell’art. 640 c.p.c., con il potere istruttorio d’ufficio, da esercitarsi in armonia con la struttura e funzione del procedimento d’ingiunzione:

b.1.) potrà, quindi, chiedere al ricorrente di produrre il contratto e di fornire gli eventuali chiarimenti necessari anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore;

b.2) ove l’accertamento si presenti complesso, non potendo egli far ricorso ad un’istruttoria eccedente la funzione e la finalità del procedimento (ad es. disporre c.t.u.), dovrà rigettare l’istanza d’ingiunzione;

  1. c) all’esito del controllo:

c.1) se rileva l’abusività della clausola, ne trarrà le conseguenze in ordine al rigetto o all’accoglimento parziale del ricorso;

c.2) se, invece, il controllo sull’abusività delle clausole incidenti sul credito azionato in via monitoria desse esito negativo, pronuncerà decreto motivato, ai sensi dell’art. 641 c.p.c., anche in relazione alla anzidetta effettuata delibazione;

c.3) il decreto ingiuntivo conterrà l’avvertimento indicato dall’art. 641 c.p.c., nonché l’espresso avvertimento che in mancanza di opposizione il debitore-consumatore non potrà più far valere l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e il decreto non opposto diventerà irrevocabile.

Il giudice dell’esecuzione:

  1. a) in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, ha il dovere – da esercitarsi sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito - di controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull’esistenza e/o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo;
  2. b) ove tale controllo non sia possibile in base agli elementi di diritto e fatto già in atti, dovrà provvedere, nelle forme proprie del processo esecutivo, ad una sommaria istruttoria funzionale a tal fine;
  3. c) dell’esito di tale controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole – sia positivo, che negativo - informerà le parti e avviserà il debitore esecutato che entro 40 giorni può proporre opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c. per fare accertare (solo ed esclusivamente) l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo;
  4. d) fino alle determinazioni del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c., non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito;

(ulteriori evenienze)

  1. e) se il debitore ha proposto opposizione all’esecuzione ex art. 615, primo comma, c.p.c., al fine di far valere l’abusività delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto, il giudice adito la riqualificherà in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa (translatio iudicii);
  2. f) se il debitore ha proposto un’opposizione esecutiva per far valere l’abusività di una clausola, il giudice darà termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva - se del caso rilevando l’abusività di altra clausola – e non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del giudice dell’opposizione tardiva sull’istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore.

Il giudice dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.:

  1. una volta investito dell’opposizione (solo ed esclusivamente sul profilo di abusività delle clausole contrattuali), avrà il potere di sospendere, ex art. 649 c.p.c., l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, in tutto o in parte, a seconda degli effetti che l’accertamento sull’abusività delle clausole potrebbe comportare sul titolo giudiziale;
  2. procederà, quindi, secondo le forme di rito.

 

Cass. civ. SSUU, sentenza 6 aprile 2023, n. 9479