La disciplina dell'incremento premiante delle categorie di qualificazione di lavori pubblici.

Il sistema di categorie e classifiche di lavori pubblici, obbligatoria per partecipare a procedure ad evidenza pubblica per importi superiori ad euro 150.000,00, costituisce condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione dell'esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini dell'affidamento di lavori pubblici.

Il sistema delineato dal legislatore, contenuto nel d.P.R. 207/2010 e s.m.i., stabilisce che la qualificazione in una categoria abilita l'impresa a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto.

Nella precedente news consultabile a questo link abbiamo affrontato il tema della legittimità della decisione con cui una S.A. richieda ai soggetti partecipanti ad una procedura di gara di appalto pubblico la produzione di certificazioni ulteriori rispetto alla attestazione SOA ai fini della dimostrazione del possesso dei requisiti prescritti nel bando.

La pronuncia del Giudice amministrativo marchigiano che si prende in considerazione affronta, invece, le modalità di applicazione della previsione normativa di cui all'art. 61, co. 2, d.P.R. 207/2010, nelle ipotesi di partecipazione mediante raggruppamento di imprese, disposizione che, come già accennato, prevede la possibilità che l'operatore economico in possesso di una categoria possa validamente partecipare alle gare ed eseguire lavori nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto.

Si tratta, dunque, di verificare l'esatta modalità con la quale opera l’attribuzione del beneficio dell’incremento virtuale del quinto della propria qualificazione all’operatore economico che sia parte di un RTI.

Nel giudizio, la società ricorrente espone la tesi interpretativa in forza della quale nei casi di raggruppamenti di tipo verticale, il parametro alla cui stregua interpretare la norma di cui all’art. 61, co. 2, del d.P.R. n. 207/2010, sarebbe l’art. 92, comma 3, del medesimo testo normativo, in base al quale negli RTI di tipo “verticale” i requisiti di qualificazione economico-finanziari e tecnico-organizzativi sono posseduti dalla mandataria nella categoria prevalente, mentre nelle categorie scorporate ciascuna mandante possiede i requisiti previsti per l’importo dei lavori della categoria che intende assumere e nella misura indicata per l’impresa singola. Con la conseguenza che, affinché la mandante di un RTI verticale possa beneficiare dell’incremento del quinto della qualificazione posseduta, sarebbe sufficiente che, così come per l’impresa singola, essa abbia (con l’incremento del quinto) la qualificazione necessaria a coprire gli importi delle lavorazioni nella categoria scorporabile assunta.

La tesi interpretativa non è tuttavia condivisa dal Giudice amministrativo.

Muovendo dall’esegesi della disposizione, il Tar richiama i precedenti giurisprudenziali secondo i quali, anche con riferimento ai raggruppamenti di tipo verticale o misto, la condizione della qualificazione almeno pari ad un quinto dell’importo dei lavori a base di gara deve intendersi come qualificazione almeno pari ad un quinto dell’importo complessivo dei lavori e non come pari ad un quinto dell’importo della singola categoria scorporabile la cui esecuzione è assunta dalla mandante che invoca l’incremento.

Fondamentale alla decisione appare, per il Giudice amministrativo, l'esatta individuazione della ratio delle disposizione che  è quella di non esasperare gli effetti della qualificazione "virtuale" quando le imprese esecutrici siano una pluralità e il requisito di qualificazione risulti, di conseguenza, molto frazionato.

Da tale assunto il Tar ne ricava le regole applicative, sia nelle ipotesi di partecipazione singola, che in quella plurisoggettiva: "L'inequivoco tenore letterale della disposizione ... consente di ricavare le seguenti regole:

- la qualificazione in una categoria abilita l'impresa singola a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto: dunque, ogni impresa può partecipare alle gare ed eseguirne i rispettivi lavori avuto riguardo alla propria qualificazione in una specifica categoria e nei limiti della classifica posseduta;

- nel caso di imprese raggruppate o consorziate "la medesima disposizione" si applica con riferimento a ciascuna impresa raggruppata o consorziata: ciò significa che, anche nel caso di raggruppamento, ciascuna singola impresa è abilitata a partecipare ed eseguire i lavori in riferimento alla propria qualificazione in una categoria e nei limiti della classifica col beneficio dell'incremento del quinto, ma subordinatamente alla ulteriore condizione che essa sia qualificata per un importo pari ad almeno un quinto "dell'importo dei lavori a base di gara".

L’interpretazione resa è quella dunque basata proprio sulla ratio della norma, che è quella di garantire l’attuazione dei principi eurounitari di concorrenza e “favor partecipationis”, strettamente connessi a quelli, costituzionali, di buon andamento, imparzialità e libertà d’iniziativa economica privata, al fine di consentire l’accesso alle gare d’appalto anche alle imprese, singole o associate, le quali hanno una qualificazione di poco inferiore a quella richiesta dai bandi.

Non può sottacersi che l’opposta tesi (che fa leva sull'assunto per il quale per beneficiare dell’incremento del quinto per la categoria scorporabile l'impresa dovrebbero possedere una qualificazione di gran lunga superiore allo stesso requisito di partecipazione), condivisa da un orientamento giurisprudenziale minoritario, parrebbe illogica in quanto le imprese componenti il RTI, qualora dovessero avere una qualificazione di poco inferiore a quella richiesta dalla stazione appaltante, non potrebbe concorrere all'aggiudicazione, vanificando l’intento della norma e limitando oltremodo la platea dei partecipanti, con conseguente violazione del fine perseguito dal legislatore, che è, come detto, quello di favorire la concorrenza.

(T.A.R. Marche Sez. I, 9.12.2021, n. 851)


La formazione del silenzio-assenso nei procedimenti autorizzativi ambientali.

La disciplina delle autorizzazioni ambientali, specie quelle concernenti la realizzazione di impianti di energia rinnovabile, presenta molteplici profili di interesse giuridico.

Recentemente, con una news consultabile a questo link, abbiamo affrontato il tema del regime abilitativo degli impianti e l'apparente contrasto con la tutela del paesaggio dimostrando, per un verso, l'importanza strategica che assumono tali opere nel sistema energetico nell'economia globale, per altro verso, che l'attività può validamente essere finalizzata anche (e soprattutto) a salvaguardare gli interessi ambientali ed i valori paesaggistici.

I Giudici amministrativi, negli ultimi anni, nelle controversie insorte tra privati e pubbliche amministrazioni, hanno approfondito tutti gli aspetti di dettaglio della normativa energetica, illustrando scenari interpretativi sempre più analitici delle disposizioni introdotte dal legislatore nell'ordinamento giuridico, così da orientare le scelte dei privati (investitori e promotori di azioni di sviluppo economico energetico) e quelle delle amministrazioni pubbliche deputate alla verifica della compatibilità ai fini del rilascio dell'autorizzazione alla realizzazione delle infrastrutture.

Certamente, uno dei problemi che comunemente si pone è quello della formazione del silenzio della P.A. nell'ambito di un procedimento amministrativo/autorizzativo in relazione alla richiesta di realizzazione di impianti.

Il caso che qui si affronta consente di analizzare proprio la natura e la effettiva latitudine del silenzio serbato dalla P.A. nei procedimenti amministrativi/autorizzativi.

I fatti in breve.

Il caso controverso sorge allorquando un operatore economico privato impugna innanzi al competente TAR il diniego del permesso di costruire per la realizzazione di un impianto fotovoltaico in zona agricola. In realtà, l'interessato aveva avanzato istanza per la realizzazione di due distinti impianti (una serra agricola con sovrastante impianto fotovoltaico ed una serie di pannelli fotovoltaici) che, a ragion dell'Ente, presupponeva il rilascio di autorizzazione unica ex art. 2, d.lgs. 387/2003 e s.m.i. stante la dimensione effettiva dell'impianto.

Ritenendo ormai formatosi il silenzio sulla domanda per decorrenza del termine di legge, il privato trasmetteva una diffida nei confronti dell'Ente per il rilascio di un espresso titolo autorizzativo, in risposta alla quale l'Ente, oltre a ritenere non formatosi il silenzio assenso, indicava le condizioni ostative all'accoglimento della domanda basate, sostanzialmente, sulla tipologia e dimensione dell'impianto e sulle caratteristiche proprie dell'area ove l'infrastruttura avrebbe dovuto sorgere.

Il diniego era impugnato innanzi al TAR a mezzo ricorso contenente plurime censure, tra cui l'applicabilità alla fattispecie di cui si discute della normativa regionale vigente in materia edilizia che ritiene ammissibile, nelle ipotesi di inutile decorso del tempo, l'accoglimento della domanda di rilascio del permesso di costruire.

Il Giudice di primo grado respingeva il ricorso; veniva così interposto appello per la riforma del contenuto della sentenza.

La soluzione prospettata dal Consiglio di Stato.

Il Consiglio di Stato ritiene fondato il ricorso e, in quanto tale, accoglie l'appello proposto, rilevando comunque l'infondatezza dello specifico rilievo mosso dalla società originariamente ricorrente di applicazione dell'istituto del silenzio assenso, come delineato dalla normativa regionale edilizia.

Applicando il criterio interpretativo temporale (e non quello di specialità), il Giudice di secondo grado osserva che "... i provvedimenti che concernono la realizzazione di impianti da energie rinnovabili ex art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003 sono attratti alla disciplina di cui all’art. 20 l. n. 241 del 1990, con la conseguenza che, ai fini dell’autorizzazione, è sempre richiesta l’adozione di un provvedimento espresso, non potendo trovare applicazione l’istituto del silenzio assenso".

Al fine di chiarire la portata applicativa del principio espresso, il Giudice amministrativo precisa altresì che "... ai sensi dell’art. 20, comma 4, della legge n. 241 del 1990 ... l’istituto del silenzio assenso, previsto genericamente dal comma 1 del medesimo articolo per i “procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi”, risulta non applicabile “agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, ... la salute ... ai casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza ...”.

Se ne conclude che, alla luce del criterio cronologico, che regola la successione nel tempo tra due norme generali (quella nazionale e quella regionale nel caso di specie), l’istituto procedimentale del silenzio-assenso non può trovare applicazione nella materia della tutela ambientale e, quindi, trasversalmente, nei procedimenti autorizzativi per impianti energetici da fonte rinnovabile in via generale.

(Cons. Stato Sez. IV, 5.11.2021, n. 7384)


Le misure di contrasto al fenomeno del dumping contrattuale: il DURC di congruità.

Come è noto, la tutela del lavoro rappresenta certamente un principio fondamentale dell'ordinamento democratico e, al contempo, uno dei capisaldi del sistema pubblico di acquisto di beni e servizi.

L'art. 30 del d.lgs. 50/2016 e s.m.i., infatti, accorda una tutela che si potrebbe definire "privilegiata" alla salvaguardia dei lavoratori impiegati negli appalti pubblici attraverso la previsione dell'applicazione al personale impiegato del contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro.

In precedenza, abbiamo esaminato alcuni aspetti specifici della disciplina degli appalti pubblici e delle forme di tutela, come ad esempio le problematiche connesse all'applicazione della clausola cd. sociale di riassorbimento della manodopera (qui il link della news).

In aggiunta a ciò, l'art. 95, comma 10, d.lgs. 50/2016 e s.m.i. impone a pena di esclusione che l'offerta economica, salvi i casi espressamente previsti, sia corredata dall'indicazione dei costi della manodopera (anche a prescindere da una previsione espressa in tal senso della lex specialis di gara) (qui il link di una news che approfondisce la questione).

La ratio dell’obbligo dell’indicazione separata dei costi della manodopera è esplicitata nell’ultimo periodo dello stesso art. 95, comma 10, secondo il quale “le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell’aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto dall’art. 97, comma 5, lett. d)”, vale a dire il rispetto dei minimi salariali retributivi.

Si tratta, all’evidenza, della finalità di tutela delle condizioni dei lavoratori cui si accompagna, a determinate condizioni, la finalità di consentire alla stazione appaltante la verifica della serietà dell’offerta economica, in particolare, in presenza di offerte normalmente basse.

La gravità della conseguenza giuridica dell’espulsione dalla gara segnala, sul piano sostanziale, la rilevanza dei beni giuridici tutelati attraverso l’imposizione della prescrizione normativa, che intende garantire la tutela del lavoro sia sotto il profilo della applicazione dei contratti collettivi (e, quindi, della tutela della retribuzione dei lavoratori secondo l’art. 36 Cost.), sia sotto il profilo della salute e della sicurezza dei lavoratori (art. 32 Cost.).

L’indicazione del costo della manodopera (così come degli oneri per la sicurezza aziendale) svolge, in realtà, una duplice funzione: non solo ai fini dell’eventuale giudizio di anomalia (che ha come unico scopo la verifica della congruità dell’importo indicato dall’offerente come costo del personale), ma, prima ancora, in sede di predisposizione dell’offerta economica per formulare un’offerta consapevole e completa sotto tutti i profili sopra evidenziati.

Fino a poco tempo fa il legislatore ha ritenuto che tali strumenti, in aggiunta al documenti unico di regolarità contributiva (cd. D.U.R.C.), fossero sufficienti a garantire la piena ed incondizionata tutela del lavoro, ma con l'evoluzione del sistema pubblico di acquisto di beni e servizi si è avvertita la necessità, manifestata anche e soprattutto tra le parti sociali, di introdurre nuovi strumenti per l'attuazione, specie nel settore edile, di un sistema di verifica della congruità del costo della manodopera impegnata per la realizzazione dell'opera rispetto al costo complessivo della stessa.

A seguito della stipula dell'accordo collettivo del 10 settembre 2020, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha adottato il decreto n. 143 del 25 giugno 2021 (qui consultabile) che introduce in via sperimentale a partire dal giorno 1 novembre 2021, nell'ordinamento giuridico, il documento relativo alla congruità dell'incidenza della manodopera con il dichiarato fine di "... realizzare un'azione di contrasto dei fenomeni di dumping contrattuale promuovendo l'emersione del lavoro irregolare attraverso l'utilizzo di parametri idonei ad orientare le imprese operanti nel settore ed assicurando un'effettiva tutela dei lavoratori sia sotto il profilo retributivo che per gli aspetti connessi alla salute e alla sicurezza ...".

Il fenomeno del dumping contrattuale, termine frutto dell'elaborazione dottrinale giuslavoristica, è strettamente connesso alla determinazione della cd. "giusta retribuzione" e costituisce un indice di commisurazione del trattamento economico complessivo proporzionato ai sensi dell’art. 36 Cost. e al fine di evitare il diffondersi di condizioni di trattamento sensibilmente inferiori a quelle determinate dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dagli attori c.d. tradizionali.

Il sistema di verifica della congruità da ultimo introdotto può, pertanto, considerarsi un'ulteriore strumento a tutela dei lavoratori nel settore edile, sia per quelli che operano nell'ambito dei lavori pubblici che di quelli privati.

Di seguito le principali caratteristiche di tale sistema:

  • quanto all'ambito applicativo si riferisce all'incidenza della manodopera relativa ad ogni specifico intervento (le categorie sono riportate nel medesimo decreto di lavori) realizzato nel settore edile sia nell'ambito dei lavori pubblici che di quelli privati eseguiti da imprese affidatarie in appalto o subappalto (ovvero da lavoratori autonomi convolti nell'esecuzione), con esclusione dei lavori privati per opere di importo inferiore ad euro 70.000;
  • quanto all'oggetto della verifica di congruità, essa è eseguita in relazione agli indici minimi di congruità predeterminati riferiti alle singole categorie di lavori tenendo conto delle informazioni rese dall'impresa alla Cassa Edile/Edilcassa territorialmente competente, con riferimento al valore complessivo dell'opera, al valore dei lavori previsti, alla committenza, alle eventuali imprese sub-appaltatrici e sub-affidatarie;
  • quanto agli aspetti procedimentali, l'attestazione di congruità è rilasciata entro 10 giorni dalla richiesta dalla Cassa Edile/Edilcassa su istanza dell'impresa affidataria (o delegato) o del committente. Nei casi di appalti pubblici, la congruità dell'incidenza della manodopera sull'opera complessiva avviene in occasione dell'ultimo stato di avanzamento dei lavori, prima di procedere al saldo finale;
  • sussistono deroghe espresse allo scostamento rispetto agli indici legali predeterminati che seguono un iter ben preciso.

Certamente il sistema di verifica di congruità della manodopera potrà rappresentare un innovativo strumento di contrasto dei fenomeni anticoncorrenziali connessi al costo della manodopera dichiarati dagli operatori economici in sede di partecipazione e vedrà, senza alcun dubbio, un ruolo cardine delle imprese (ma anche dei direttori dei lavori) nella fase di stima del costo della manodopera e nei casi di riscontrata assenza di congruità ed irregolarità ove dovessero sorgere degli scostamenti rispetto agli indici di congruità predeterminati.

Il 10 novembre, la Commissione Nazionale delle Casse Edili (CNCE) ha pubblicato le prime risposte ai quesiti posti dagli operatori: si tratta di un documento utile a livello tecnico operativo (FAQ) consultabile cliccando qui.

Ancora, il Sistema nazionale edile per la verifica della congruità della manodopera nei cantieri ha strutturato una apposita piattaforma online alla quale possono accedere committenti, imprese e subappaltatori per verificare la denuncia e rilascio del Durc e regolarizzare, in caso di non congruità; è stato inoltre predisposto un manuale per guidare gli operatori nella comprensione del meccanismo, disponibile cliccando qui.

Molto interessante è il simulatore di congruità ove, inserendo i dati, è possibile verificare la congruità della manodopera.

Qui il link per un approfondimento del contenuto del decreto ministeriale.


I poteri di verifica e controllo attribuiti ex lege al G.S.E.

Il Tar Lazio, con una recente pronuncia, affronta una delle tematiche più dibattute nella disciplina sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili: la natura dei poteri di verifica e controllo attribuiti al G.S.E., il Gestore dei servizi energetici.

Recentemente, con la news consultabile a questo link, è stato affrontato uno degli aspetti che caratterizzano maggiormente la promozione e lo sviluppo degli impianti di energia rinnovabili, ovvero la tutela paesaggistica.

Il tema degli incentivi, che trasversalmente qui si affronta, costituisce certamente un particolare strumento di promozione all'utilizzo di tali forme di energia.

In materia di incentivi, come è noto, ai sensi dell'art. 42, d.lgs. 3.3.2011, n. 28, il legislatore ha attribuito al G.S.E. dei poteri di controllo e verifica rispetto ai dati forniti dai soggetti responsabili che presentano istanza di agevolazione.

La disciplina generale prevede che qualora il Gestore dei servizi ravvisi, nell'ambito dei controlli operati, delle violazioni rilevanti ai fini dell'erogazione degli incentivi, il medesimo Gestore può rigettare l'istanza oppure disporre la decadenza dagli incentivi stessi.

Il caso scrutinato dal Giudice amministrativo laziale riguarda proprio la decisione adottata dal Gestore a conclusione del procedimento di verifica della documentazione presentata dal soggetto interessato di accesso alle agevolazioni; nel corso delle verifiche, infatti, il Gestore riscontrava che l’impianto era carente di un requisito essenziale al fine del riconoscimento di un'agevolazione maggiormente remunerativa, e, pertanto, disponeva la rimodulazione in riduzione del beneficio.

Si è precisato che il potere esercitato dal GSE, lungi dal poter esser considerato alla stregua di un potere di annullamento d’ufficio, è autonomamente regolato dall’art. 42, co. 3, d.lgs. n. 28 del 2011, che prevede la “decadenza” dagli incentivi nonché il recupero delle somme già erogate laddove siano riscontrate violazioni "rilevanti ai fini dell’erogazione degli incentivi” medesimi e conferisce al GSE "potere immanente di verifica della spettanza dei benefici previsti per la produzione di energia elettrica".

La pronuncia consente pertanto di esaminare la natura dei poteri di verifica e controllo del G.S.E. rispetto alle previsioni generali sancite dalla l. 241/90 e s.m.i., in materia di procedimenti amministrativi ed in particolare dell'annullamento d'ufficio ex art. 21-nonies.

Nel circoscrivere la natura dei poteri, della decadenza in particolare, il Giudice amministrativo, applicando la normativa previgente, ha escluso che, rispetto a tali poteri attribuiti ex lege al GSE, non trovano applicazione le norme e i principi dettati in materia di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies il quale prevede, nei limiti di interesse, che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole,

In tale prospettiva, "... è stato ulteriormente precisato che ... il Gestore è titolare di un potere immanente di verifica della spettanza di tali benefici […], potere la cui sussistenza è pienamente giustificata dalla mera pendenza del rapporto di incentivazione e che può essere esercitato per tutta la durata dello stesso ... non essendo previsto ... alcun termine decadenziale di attivazione ...".

Si può certamente condividere, dunque, il principio ricavato dal caso di specie, secondo il quale ".. la natura dei poteri di verifica e controllo attribuiti al GSE ... non rientrano nel genus dell’autotutela bensì costituiscono espressione di un potere di accertamento e controllo volto ad acclarare lo stato dell’impianto ed accertarne la corrispondenza rispetto a quanto di chiarato dall’interessato”.

Con la disamina della pronuncia, si può certamente cogliere l'occasione per soffermarsi su di un aspetto che è stato al centro di un vivace contrasto giurisprudenziale, poi risoltosi positivamente.

Si tratta, infatti, dell'applicazione della disciplina recata dall'art. 21-nonies, l. 241/90 e s.m.i. alla materia delle agevolazioni connesse all'uso di energia proveniente da fonti rinnovabili, la quale è stata risolta in senso positivo, grazie alle modifiche apportate dal legislatore all'art. 42, co. 3, d.lgs. 28/2011 e s.m.i., che stabiliscono che il rigetto dell'istanza ovvero la decadenza dagli incentivi avviene da parte del G.S.E. in presenza dei presupposti di cui all'art. 21-nonies, l. 241/90 e s.m.i.

(T.A.R. Lazio Sez. III ter, 25.10.2021, n. 10934)


La produzione di energia rinnovabile e l'apparente contrasto con la tutela del paesaggio.

Energia rinnovabile e tutela del paesaggio sembrano due argomenti in voga negli utlimi tempi. Il tema, alquanto attuale, riguarda in particolare il regime abilitativo degli impianti di energia da fonte rinnovabile previsto dal legislatore statale in conformità alla normativa dell'Unione europea.

Recentemente, in questa news, abbiamo affrontato le problematiche connesse alle autorizzazioni amministrative, in particolare gli aspetti giuridici delle prescrizioni d’obbligo ambientali e le ipotesi di varianti urbanistiche.

Il caso che qui affrontiamo, che sorge all'esito di un contenzioso insorto tra il Ministero per i beni e le attività culturali e la Regione Lazio in ordine al rilascio di un'autorizzazione unica regionale per la realizzazione di un parco fotovoltaico di notevole estensione, rileva per un duplice ordine di motivi:

  • il primo, concernente in generale la tutela ambientale (genericamente intesa) e quella energetica;
  • il secondo, relativo al nesso funzionale esistente tra le esigenze di tutela ambientale (che riguardano il reperimento di fonti energetiche alternative) e il coinvolgimento dell’iniziativa privata per la realizzazione di tale interesse di natura strategica.

Soffermandosi sul primo, la premessa da cui dovremmo muovere qualsivoglia considerazione è che la produzione di energia da fonti rinnovabili costituisce un’attività di interesse pubblico che contribuisce (anch’essa) non solo alla salvaguardia degli interessi ambientali ma, sia pure indirettamente, anche a quella dei valori paesaggistici.

Sulla base di tale considerazione non può non premettersi che nella materia i principi fondamentali fissati dalla legislazione dello Stato costituiscono attuazione delle direttive comunitarie, che manifestano un favor per le fonti energetiche rinnovabili.

Del resto, è quanto ribadito anche dal legislatore con il recente decreto Semplificazioni PNRR allorquando ritiene che trattasi di interventi di pubblica utilità indifferibili e urgenti.

Infatti, il legislatore nazionale ha introdotto una disciplina specifica volta a promuovere la produzione e l'utilizzo di energia elettrica derivante da fonti rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità attraverso il decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, di attuazione della direttiva 2001/77/CE.

Il decreto, oltre a fissare i principi fondamentali del sistema legislativo e gli obiettivi che si intendono perseguire, introduce delle disposizioni specifiche per i procedimenti amministrativi autorizzativi.

Certamente, una delle criticità che si pone nella realizzazione di tali opere è il contesto paesaggistico che caratterizza gran parte del nostro Paese, criticità che rileva nel caso di cui si discute e in particolare all'atto del rilascio del provvedimento di autorizzazione alla realizzazione in quanto trattasi di impianti di notevole dimensione.

Ciò potrebbe determinare, nondimeno, un contrasto (apparente) e una sovrapposizione della normativa applicabile, ma così non è in quanto, come si è detto, il contrasto è soltanto apparente, come si ricava dalla pronuncia del Consiglio di Stato che qui si esamina.

Specificatamente, l'art. 12 del d.lgs. 387/2003 e s.m.i. delinea un sistema fondato sul riconoscimento alle Regioni del potere di "procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti"; esso è espressivo di una norma fondamentale di principio della materia "energia" e costituisce un punto di equilibrio rispettoso di tutte le competenze, statali e regionali.

Nella controversia insorta tra Ministero e Regione, il punto nodale della questione era che, a ragion del Ministero, il progetto prevedeva la collocazione di un impianto fotovoltaico, a terra, in area agricola e non in area marginale e/o degradata, senza tener conto del contesto paesaggistico, senza adeguata valutazione di soluzioni alternative e in contrasto con gli indirizzi espressi dalla stessa Regione.

Trattandosi di impianto di notevoli dimensioni, a ragion del Ministero, "... le dimensioni sproporzionate e spropositate dei campi fotovoltaici operano una vera cesura, discontinuità, interruzione e modificazione dei caratteri strutturanti il territorio agricolo ...".

La tesi, tuttavia, non è stata condivisa dal Supremo Consesso amministrativo, il quale, nel respingere l'atto di appello, ha rimarcato il ruolo centrale della produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile che non si pone in contrasto con la tutela ambientale e quella paesaggistica, anzi indirettamente contribuisce alla salvaguardia dei valori paesaggistici.

Per poter affermare tale esclusione, il Giudice amministrativo opera una ricostruzione positiva della disciplina legislativa e del relativo riparto di competenze tra Stato ed enti sub-statali: "... la disciplina del regime abilitativo degli impianti di energia da fonte rinnovabile rientra, oltre che nella materia della tutela dell’ambiente, anche nella materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», attribuita alla competenza legislativa concorrente dello Stato. Invero, «alle regioni è consentito soltanto di individuare, caso per caso, aree e siti non idonei, avendo specifico riguardo alle diverse fonti e alle diverse taglie di impianto, in via di eccezione e solo qualora ciò sia necessario per proteggere interessi costituzionalmente rilevanti, all’esito di un procedimento amministrativo nel cui ambito deve avvenire la valutazione sincronica di tutti gli interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela. Tale margine di intervento riconosciuto al legislatore regionale non permette, invece, che le regioni prescrivano limiti generali inderogabili, valevoli sull'intero territorio regionale, specie nella forma di distanze minime, perché ciò contrasterebbe con il principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili, stabilito dal legislatore statale in conformità alla normativa dell’Unione europea»" (Cons. St. Sez. IV, 12.4.2021, n. 2983).

Richiamando la normativa di settore che attribuisce la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza per i progetti attuativi degli interventi, il Consiglio di Stato precisa che "... La disposizione legislativa .. è ... il risultato di una scelta di politica programmatoria nella quale l’obiettivo di interesse generale, la realizzazione di impianti energetici alternativi, anziché essere affidato esclusivamente alla mano pubblica, viene ritenuto perseguibile attraverso l’iniziativa economica privata, quando non ostino altri interessi di carattere generale».

Da tali premesse il Giudice d'appello, confermando la validità dell'iter amministrativo autorizzativo, ricava il principio generale secondo il quale "La produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è infatti un’attività di interesse pubblico che contribuisce anch’essa non solo alla salvaguardia degli interessi ambientali ma, sia pure indirettamente, anche a quella dei valori paesaggistici".

Nel concludere l'argomento della news, non può sottacersi che tale pensiero rientra nella ricostruzione della nozione giuridica di ambiente elaborata da Massimo Severo Giannini, secondo il quale il significato giuridico di ambiente è declinabile in tre sensi, uno di questi riferito proprio al paesaggio.

(Cons. St. Sez. IV, 12.4.2021, n. 2983)


La valutazione ambientale strategica: oggetto, procedimento e scopo.

Il caso che qui si affronta, che concerne trasversalmente lo svolgimento di una procedura ambientale per la realizzazione di un polo tecnologico, consente di esaminare, in linea generale, un importante istituto della disciplina ambientale, ovvero la valutazione ambientale strategica (V.A.S.) e le sue caratteristiche, anche alla luce delle recenti modifiche legislative introdotte nel Codice dell'ambiente per la realizzazione delle opere di rilevante interesse pubblico previste nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (P.N.R.R.).

Prima di esaminare il caso, è necessaria una premessa sulla V.A.S. ed una breve illustrazione delle differenze che sussistono tra tale procedura e la V.I.A., di cui ci siamo precedentemente interessati con una news approfondita (qui il link).

La valutazione ambientale strategica è stata introdotta dalla direttiva 2001/42/CE al fine di controllare i piani e i programmi che possono avere un impatto significativo sull’ambiente, così da permettere ai diversi soggetti pubblici di armonizzare le modificazioni al territorio con le necessità della sua primaria tutela.

In Italia la normativa sovranazionale citata ha avuto la principale attuazione con il d.lgs. 152/2006 e s.m.i., che agli artt. 4 e seguenti ha inteso coordinare una serie di attività umane, dettando un complesso di norme che aspirano ad esercitare un effetto programmatico.

In tale contesto la VAS è stata ritenuta come “…il processo che comprende … lo svolgimento di una verifica di assoggettabilità, l’elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del piano o del programma …” (così l’art. 5, co. 1, lett. a) del d.lgs. 152/2006), mentre l’art. 6, co. 1, del codice sull’ambiente dispone che la VAS riguarda i piani e i programmi che possono avere impatti significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale.

Lo scopo della V.A.S. consiste, infatti, nella verifica degli impatti derivanti sull'ambiente naturale da strumenti urbanistici generali: in particolare, l'aggettivo "strategica" evidenzia l'aspetto caratterizzante dell'istituto, costituito dalla significativa anticipazione della valutazione delle possibili conseguenze ambientali negative dell'azione amministrativa conseguenti alla progettazione ed adozione di piani e dei programmi.

Tale valutazione ha quindi la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione, dell'adozione e approvazione di piani e programmi assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile.

Sono molteplici i profili distinti tra la V.A.S. e la V.I.A. riferibili, sia all'oggetto, sia alla funzione.

La valutazione ambientale strategica, a differenza della valutazione di impatto ambientale, non si riferisce ai progetti delle singole opere, bensì agli strumenti di programmazione e di pianificazione nel loro complesso.

Quanto alla funzione, la V.A.S. costituisce un atto di valutazione interno al procedimento di pianificazione, cioè una valutazione degli effetti ambientali conseguenti all'esecuzione delle previsioni ivi contenute.

La V.I.A,, invece, opera a livello di uno specifico progetto.

Tanto premesso in generale, esaminando il caso di specie, esso verte su una controversia insorta tra alcuni privati (a cui ha aderito anche un'associazione con finalità tipiche di tutela ambientale) ed alcune Amministrazioni pubbliche, deputate a rilasciare l'autorizzazione per la realizzazione di un nuovo polo tecnologico - scientifico.

Quel che interessa l'oggetto della news è il rilievo operato dai ricorrenti ovvero la mancanza di V.A.S. a corredo di un accordo di programma tra più enti pubblici, procedura di V.A.S. che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, in base alla normativa comunitaria e quella nazionale e regionale di recepimento, assolvendo alle finalità di cautela, avrebbe dovuto essere esperita in via preventiva, e avrebbe dovuto contemplare specificatamente anche la c.d. “opzione zero”.

Rigettato lo specifico motivo nel corso del primo grado di giudizio, le parti hanno interposto appello innanzi al Consiglio di Stato, il quale, nel confermare la validità ed i contenuti della sentenza del TAR, ha precisato alcuni aspetti significativi in ordine alla disciplina della V.A.S. vertendo la controversia su aspetti di tutela ambientale e di pianificazione urbanistica i cui principi si intersecano.

La decisione che assume il Supremo Consesso amministrativo è quello di escludere la tipologia di provvedimento impugnato dalla astratta sottoponibilità a V.A.S., trattandosi di un accordo e non di un vero e proprio atto autorizzativo/programmatico.

Prescindendo dalle concrete motivazioni, ciò che assume rilievo è la precisa ricostruzione della complessa normativa di riferimento e la corretta interpretazione della stessa alla luce della disciplina comunitaria.

Premette il Consiglio di Stato che "La valutazione ambientale o VAS trova il suo fondamento nella Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001, con il dichiarato obiettivo di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente innestandone la tutela anche nel procedimento di adozione e di approvazione di piani e programmi astrattamente idonei ad impattare significativamente sullo stesso. La finalità di salvaguardia e miglioramento della qualità dell’ambiente, nonché di protezione della salute umana e di utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, ne impone una lettura ispirata al rispetto del principio di precauzione, in una prospettiva di sviluppo durevole e sostenibile dell’uso del suolo. Essa si accosta, senza identificarsi con gli stessi, ad altri strumenti di valutazione, come la valutazione di impatto ambientale (VIA) su singoli progetti ... in modo da costituire un unico sistema che vuole l’intero ciclo della decisione teleologicamente orientato a ridette esigenze di tutela ... il legislatore, nella continua ricerca di un giusto punto di equilibrio tra adeguato livello di tutela ambientale e accelerazione delle procedure della opere di rilevante interesse pubblico, da ultimo riferite a quelle previste nel Piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) ovvero nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), ha inteso incidere pressoché essenzialmente sulla VIA, ricalibrandone le fasi, ovvero comprimendone i tempi di perfezionamento ...".

Con specifico riferimento alla V.A.S., il Giudice di secondo grado ha illustrato la cornice edittale nella quale si iscrive l'istituto, evidenziando proprio la stratificazione normativa che sussiste in materia: "Con riferimento alla VAS ... la Direttiva 2001/42/CE è stata recepita inserendo la relativa disciplina nel richiamato d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale», Testo unico ambientale, subito modificato ed integrato in parte qua dal d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4. ... L’art. 7, commi 1 e 2, di tale decreto ha innanzi tutto distinto la procedura di VAS a livello statale da quelle riferibili ad ambiti regionali o locali, preoccupandosi poi esclusivamente della prima, anche in relazione alla indicazione dei soggetti competenti per le varie fasi della stessa. Per i casi di rilievo locale, invece, ha fatto rinvio alle disposizioni di legge regionale o delle Province autonome ... Ciò ha concretamente determinato lo sviluppo di un quadro ampio e articolato di legislazione regionale, primaria e secondaria, caratterizzato da una pluralità di approcci ...".

In tal contesto, la procedura, i suoi contenuti ed i soggetti preposti all'espletamento della stessa assumono un ruolo fondamentale nella disciplina dell'istituto, così come chiarito dalla decisione del Consiglio di Stato: "... le Regioni si sono per lo più orientate nel senso di delegare le funzioni di “Autorità competente” a province, città metropolitane e comuni, in quanto preposti alle scelte urbanistiche nell’ambito del proprio territorio di riferimento. Proprio le scelte di governo del territorio, infatti, sono tipicamente atti soggetti a VAS ...".

Nel caso di specie, dunque, la normativa regionale di riferimento individuava espressamente gli atti da sottoporre a V.A.S., escludendo la tipologia del provvedimento oggetto della controversia ovvero l'accordo di programma tra quelli da sottoporre alla valutazione strategica.

(Cons. St., Sez. II, 1.9.2021, n. 6152)


Legittimazione ed interesse per impugnare un'autorizzazione ambientale: la cd. vicinitas.

Tra le recenti modifiche che ha subìto il Codice dell'ambiente, una di queste riguarda l'art. 27-bis, recante le disposizioni sul provvedimento autorizzatorio unico regionale.

Si tratta del provvedimento di autorizzazione ambientale, il cui iter amministrativo è devoluto, per legge, all'Organo regionale (distinguendosi da quello di competenza statale), deputato all'espletamento dell'istruttoria tecnico-amministrativa finalizzata al rilascio di tutte le autorizzazioni, intese, concessioni, licenze, pareri, concerti, nulla osta e assensi comunque denominati, necessari alla realizzazione e all’esercizio del medesimo progetto.

Il caso che qui si commenta riguarda la realizzazione di un allevamento avicolo di modeste dimensioni, il cui esercizio è subordinato all'ottenimento da parte del diretto interessato del provvedimento autorizzativo unico regionale (comprensivo di VIA, AIA e permesso di costruire) ai sensi dell’art 27-bis d.lgs. 152/2006 e s.m.i.

All'esito del giudizio, il Tar giunge a precisare che il mero collegamento stabile con l'area oggetto di intervento (cd. "vicinitas") costituisce l'unico presupposto affinchè il soggetto interessato possa sindacare le scelte amministrative in tema di autorizzazioni ambientali.

Tra le diverse contestazioni che vengono in rilievo nel giudizio, quella che interessa il presente contributo verte sulla questione dell'ammissibilità del ricorso introduttivo per difetto di legittimazione e/o interesse sollevata in giudizio dalle amministrazioni resistenti e dalla società interessata all'attuazione del progetto.

Si tratta, in estrema sintesi, di ricostruire in chiave giuridica e moderna i presupposti in base ai quali i soggetti interessati, nel ricorrere innanzi all'Autorità giudiziaria, possano validamente lamentare la lesione dell'interesse all'integrità ambientale e la sussistenza di pregiudizi di danno o di pericolo derivanti dalla realizzazione dell'iniziativa imprenditoriale.

In altre parole, occorre verificare se la sussistenza del mero criterio della "vicinitas", intesa quale stabile collegamento con l'area in cui è ubicato l'intervento, sia sufficiente a ricorrere in giudizio.

Secondo la prospettazione del Tar emiliano, la mera dimostrazione di vivere abitualmente in prossimità del sito prescelto alla realizzazione dell'intervento è sufficiente a sindacare le scelte amministrative.

La ricostruzione giuridica muove da una premessa di carattere strettamente giuridico, ovvero dalla distinzione tra la condizione della legittimazione al ricorso, con quella della ben distinta dell'interesse ad agire ex art. 100 cpc.

La prima che coincide con la titolarità della situazione giuridica soggettiva sulla quale si innesta l'interesse legittimo che si vuol far valere in giudizio, la seconda costituisce la condizione dell'azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo che deve possedere tre caratteristiche: deve essere personale, attuale e concreto, e che onera il soggetto interessato a fornire la prova dell'esistenza in termini di specifico pregiudizio arrecato dal provvedimento oggetto della lite rispetto ad un proprio bene della vita.

Muovendo da tali premesse, il Tar emiliano, ritenendo ammissibile il ricorso, ha ritenuto infondata l'eccezione sollevata dalle amministrazioni resistenti e dalla controinteressata promotrice dell'intervento, asserendo che i ricorrenti (alcuni in qualità di proprietari di immobili altri di titolari di imprese agricole nelle immediate vicinanze dell’intervento che lamentavano “l’alterazione del territorio e dell’ambiente in modo grave e difficilmente reversibile”) avevano pienamente dimostrato di vivere abitualmente in prossimità del sito prescelto per la realizzazione dell'intervento e/o ivi intraprendere l'attività agricola.

Sostiene, in punto di ammissibilità l'adito Tar, che "... non è possibile escludere pregiudizi di carattere potenziale nemmeno per coloro che si collocano ... nel raggio di un chilometro".

Per poter giungere alla decisione sulla controversia, il Tar pone a fondamento del proprio iter motivazionale il contrasto giurisprudenziale che, con riferimento alla materia edilizia, stabilisce le condizioni di legittimazione ed interesse che abilitano all'impugnazione di un titolo edilizio.

Richiamando un primo orientamento, sostiene il Tar che "ai fini della legittimazione è sufficiente il criterio dello stabile collegamento con l’area interessata, di per sé sufficiente ad integrare la condizione dell’azione, senza che occorra dimostrazione della sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale ... senza cioè che occorra procedere in concreto ad alcuna ulteriore indagine al fine di accertare se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione".

Viceversa, un secondo orientamento maggiormente rigoroso impone che "la sola “vicinitas” non può reputarsi sufficiente a supportare il requisito dell’interesse a ricorrere della domanda di annullamento di un titolo edilizio, dal momento che tale condizione deve apprezzarsi non già in senso assoluto bensì relativo, ossia con riferimento alle peculiari caratteristiche dell’opera e quindi anche alla sua natura e dimensioni, destinazione, implicazioni urbanistiche ed agli effetti ragionevolmente dispiegabili in ordine alla qualità della vita di relazione esplicantesi nel contesto spaziale".

Tali considerazioni svolte devono, necessariamente, estendersi con specifico riferimento alla disciplina ambientale, nell'ambito della quale viene in rilievo, oltre ai beni fondamentali del paesaggio e del patrimonio storico - artistico (l'ambiente nella concezione ampia), "il bene primario della salute umana, garantito dall'art. 32 Cost. come <<fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività>>, la cui soglia di tutela giurisdizionale ... deve intendersi anticipata al livello di oggettiva presunzione di lesione".

Da ciò ne consegue, secondo l'autorevole Tar, che nella materia ambientale (e, dunque, nel caso di specie) "... ai fini della sussistenza della legittimazione e dell'interesse ad agire risulta sufficiente la <<vicinitas>>, intesa come vicinanza dei soggetti che si ritengono lesi al sito prescelto per l'ubicazione di una struttura avente potenzialità inquinanti e/o degradanti, non potendo loro addossarsi il gravoso onere dell'effettiva prova del danno subito o subendo".

Nel precisare l'assunto, il Giudice amministrativo chiarisce espressamente che "... Pretendere la dimostrazione di un sicuro pregiudizio all'ambiente o alla salute, ai fini della legittimazione e dell'interesse a ricorrere, costituirebbe in effetti ... una <<probatio>> diabolica, tale da incidere sul diritto costituzionale di tutela in giudizio delle posizioni giuridiche soggettive, essendo sufficiente la <<vicinitas>>".

Di rilievo appare una considerazione conclusiva svolta dal Tar: nella materia ambientale è proprio la valutazione d'impatto ambientale (di cui abbiamo esaminato gli aspetti essenziali in questa news) prevista dal Codice dell'ambiente ad assolvere alla funzione di individuare e misurare gli impatti potenziali negativi che una determinata opera potrebbe avere sull'ambiente circostante, il tutto nell'ottica di una "tutela ... doverosamente preventiva".

(Tar Emilia Romagna Sez. I, 18.8.2021, n. 756)


Il criterio di prossimità per la gestione dei rifiuti e per le soluzioni impiantistiche.

"... emerge in modo inequivoco come, il cd. criterio di prossimità valga anche per la gestione dei rifiuti speciali e non solo per quelli urbani ...".

Questo il principio cardine che, secondo il Consiglio di Stato, regge la materia della gestione dei rifiuti e le scelte localizzative impiantistiche.

Sulle problematiche connesse alla localizzazione degli impianti di gestione dei rifiuti avevamo già analizzato in questa news alcuni dei profili che non di rado ricorrono.

L'occasione del pronunciamento dell'importante principio sopra espresso deriva da una lite insorte tra un operatore privato e l'Amministrazione preposta al rilascio del provvedimento autorizzativo, propedeutico all'esercizio dell'attività industriale per il trattamento termico dei rifiuti, ente che respingeva il progetto per la realizzazione dell'impianto.

Nel primo grado di giudizio, il Giudice ammnistrativo respingeva il ricorso.

Avverso tale pronuncia, la Società ricorrente proponeva appello, lamentando l'erroneità della sentenza in quanto i passaggi motivazionali si ponevano in violazione dei principi fondamentali che regolano la disciplina di settore, e precisamente: a) la parificazione della disciplina dei rifiuti urbani a quella dei rifiuti speciali; b) il disposto dell’articolo 16 della direttiva 2008/98, sui principi di autosufficienza e prossimità; c) l’efficacia della legge provinciale rispetto alla sopravvenuta legge statale sui principi di autosufficienza e prossimità.

Al fine di dirimere la questione, il Consiglio di Stato esamina prioritariamente la disciplina normativa applicabile al caso concreto.

Richiamando la disciplina sovranazionale, il Giudice adito chiarisce la portata applicativa dei principi di autosufficienza e prossimità nell'ambito della pianificazione infrastrutturale degli impianti di rifiuti, visto che l’art. 16 della Direttiva 2008/98/CE individua proprio i limiti applicativi dei principi di autosufficienza e prossimità disponendo, tra l’altro, che: “Gli Stati membri adottano, di concerto con altri Stati membri qualora ciò risulti necessario od opportuno, le misure appropriate per la creazione di una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento dei rifiuti e di impianti per il recupero dei rifiuti urbani non differenziati provenienti dalla raccolta domestica, ... tenendo conto delle migliori tecniche disponibili. La rete permette lo smaltimento dei rifiuti o il recupero ... in uno degli impianti appropriati più vicini, grazie all’utilizzazione dei metodi e delle tecnologie più idonei, al fine di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute pubblica”.

Si parla, dunque, della cd. rete integrata ed adeguata di impianti, indispensabile affinché i rifiuti generati nel mercato economico possano trovare la giusta collocazione in termini di smaltimento e/o recupero: tuttavia, precisa l'ordinamento sovranazionale, tale rete deve essere strutturata affinché lo smaltimento o il recupero avvenga in uno degli impianti appropriati più vicini onde garantire un'adeguata tutela di protezione dell'ambiente.

L'ordinamento giuridico italiano sancisce tale pregevole finalità attraverso due disposizioni contenute nel codice dell'ambiente:

  1. la prima, ovvero l'art. 178, a mente del quale “la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi inquina paga. A tale fine la gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità, trasparenza, fattibilità tecnica ed economica, nonché nel rispetto delle norme vigenti in materia di partecipazione e di accesso alle informazioni ambientali”;
  2. la seconda è rappresentata dall'art. 179, che stabilisce i criteri da seguire nella gestione dei rifiuti: “a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento”. Inoltre, ai sensi del comma 2 del citato art. 179, tali criteri hanno lo scopo di stabilire, in generale, un “ordine di priorità di ciò che costituisce la migliore opzione ambientale”, prescrivendo che “nel rispetto della gerarchia di cui al comma 1, devono essere adottate le misure volte a incoraggiare le opzioni che garantiscono, nel rispetto degli articoli 177, commi 1 e 4, e 178, il miglior risultato complessivo, tenendo conto degli impatti sanitari, sociali ed economici, ivi compresa la fattibilità tecnica e la praticabilità economica”.

La cornice edittale all'interno della quale si iscrive la problematica, si completa con altre due previsioni: l'art. 182-bis, d.lgs. 152/2006 che, rimarcando i principi europei, proprio sui principi di autosufficienza e prossimità specifica che "Lo smaltimento dei rifiuti ed il recupero dei rifiuti urbani non differenziati sono attuati con il ricorso ad una rete integrata ed adeguata di impianti, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili e del rapporto tra i costi e i benefici complessivi, al fine di: a) realizzare l'autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi e dei rifiuti del loro trattamento in ambiti territoriali ottimali; b) permettere lo smaltimento dei rifiuti ed il recupero dei rifiuti urbani indifferenziati in uno degli impianti idonei più vicini ai luoghi di produzione e raccolta, al fine di ridurre i movimenti dei rifiuti stessi, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti".

Segue l'art. 199, Codice ambientale, che reca la disciplina relativa all'attività di pianificazione devoluta, per legge, alle Regioni e agli enti locali, i quali sono chiamati a garantire che l'organizzazione della gestione dei rifiuti avvenga "secondo criteri di trasparenza, efficacia, efficienza, economicità e autosufficienza ... all'interno di ciascuno degli ambiti territoriali ottimali di cui all'articolo 200, nonché ad assicurare lo smaltimento e il recupero dei rifiuti speciali in luoghi prossimi a quelli di produzione al fine di favorire la riduzione della movimentazione di rifiuti".

Sul principio di prossimità non può non richiamarsi un passaggio motivazionale fondamentale espresso dalla Corte Costituzione, sul tema della prossimità la quale, con la sentenza 23 gennaio 2009, n. 10, ha confermato che “nella disciplina statale l'utilizzazione dell'impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali viene a costituire la prima opzione da adottare, ma ne “permette” anche altre”.

Nel giungere alla conclusione sul caso, il Consiglio di Stato rileva che "emerge in modo inequivoco come, il cd. criterio di prossimità valga anche per la gestione dei rifiuti speciali e non solo per quelli urbani ...".

Richiamando proprio la giurisprudenza della Corte Costituzionale, il Giudice di secondo ordine ha chiarito che "... l’utilizzazione dell’impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali viene a costituire la prima opzione da adottare ...", stabilendo espressamente che anche per i rifiuti speciali assume rilievo primario il criterio della specializzazione dell’impianto, in relazione al quale deve essere coordinato il principio di prossimità, con cui si persegue lo scopo di ridurre il più possibile la movimentazione di rifiuti.

Si tratta di una pronuncia che, a ragion di chi scrive, appare significativa nelle scelte gestionali dei rifiuti, urbani e non: ove il criterio della localizzazione impiantistica, infatti, come acclarato, consente certamente una riduzione della movimentazione dei rifiuti e consente un miglioramento complessivo dell'ambiente, è ragionevole ritenere che esso si collochi in una posizione privilegiata nelle scelte amministrative - gestionali di carattere ambientale: per tal ragioni, l'autosufficienza impiantistica diviene davvero una opzione privilegiata nella scelta localizzativa degli impianti.

(Cons. St. Sez. VI, 1.7.2021, n. 5025)


La regolarità contributiva e fiscale ex art. 80 Codice appalti: le modalità di verifica.

Si torna a discutere di una questione particolarmente importante nel settore degli affidamenti di appalti pubblici, ovvero la dimostrazione del possesso del requisito di regolarità contributiva e fiscale da parte dell'operatore economico.

Si tratta di una problematica sempre più frequente, la quale può essere risolta positivamente con la produzione all'Amministrazione della documentazione che attesti quanto dichiarato.

La questione era già stata affrontata in questa news.

Nel caso che qui si affronta, un operatore economico, premettendo di essere venuto a conoscenza della circostanza che il soggetto aggiudicatario sarebbe stato privo dei requisiti di regolarità contributiva e fiscale, lamentava che la stazione appaltante avrebbe omesso le verifiche in ordine ai riscontri effettuati e, secondariamente, di aver violato l'art. 32, co. 7, d.lgs. 50/2016, nella parte il cui dispone che l'aggiudicazione diventa efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti.

Da ultimo, l'operatore ricorrente obiettava che l'Ente appaltante avrebbe sottoscritto il contratto prima dei trentacinque giorni dall'invio dell'ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione, in violazione dell'art. 32, co. 9, d.lgs. 50/2016.

Per seguire l'iter logico del ragionamento svolto dal Tribunale amministrativo siciliano, deve premettersi che, conformemente alla disciplina generale degli appalti pubblici, la lex specialis prevedeva che gli operatori concorrenti avrebbero dovuto essere in possesso dei requisiti previsti dall'art. 80, co. 4, Codice appalti, afferenti alla regolarità contributiva e fiscale dell'impresa partecipante a gara.

La citata disposizione prevede, genericamente, che "Un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d'appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali ...".

Il Giudice amministrativo, preliminarmente, si sofferma sull'eccezione del difetto di giurisdizione formulata dall'Amministrazione, escludendo che la controversia, per ambito soggettivo, possa rientrare nel settore speciale facendo leva, mediante richiami giurisprudenziali della Corte di Giustizia dell'Unione europea, sulla connessione dell'attività (call center) rispetto al servizio espletato dal soggetto giuridico (gestione impianto depurazione).

Nel merito, il Giudice ritiene infondato il ricorso.

Prioritariamente il T.A.R. osserva che la Società controinteressata ha debitamente dimostrato il possesso dei requisiti necessari per la partecipazione a gara, richiamando l'ambito applicativo della previsione ex art. 80, co. 4, d.lgs. 50/2016, stabilendo che "La causa di esclusione di cui all’art. 80 comma 4 del d.lgs. n. 50/2016 ... non trova applicazione, infatti, non solo quando l’operatore economico abbia ottemperato ai suoi obblighi fiscali pagando i propri debiti con il Fisco, ma anche quando si sia impegnato in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, con impegno formalizzato prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande".

Al fine di rafforzare tale assunto, il T.A.R. precisa il concetto di rateizzazione e l'ambito temporale di validità, stabilendo espressamente che "A tale fine può essere sufficiente il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione rilasciato in data antecedente alla data di presentazione delle offerte: la rateizzazione, infatti, vale come assunzione da parte del debitore dell'impegno di pagamento del debito tributario e consente la partecipazione alla gara, purché la relativa domanda sia stata accolta prima della presentazione delle offerte ...".

Nel caso di specie, il T.A.R. rileva che la dimostrazione circa il possesso dei requisiti è avvenuto, da parte dell'aggiudicataria, tra l'altro, mediante il deposito agli atti della documentazione attestante il rilascio di provvedimento di concessione di rateizzazione per violazioni fiscali accertate in modo definitivo con data antecedente alla partecipazione alla gara, oltre che due DURC attestanti la regolarità contributiva valido per il periodo di partecipazione alla gara (ed oltre).

Su tali basi il T.A.R. ha dunque osservato che "... è stato adeguatamente dimostrato dal titolare dell'impresa controinteressata la sussistenza in suo capo dei requisiti di regolarità sia fiscale che contributiva necessari per la partecipazione alla gara ...".

Da ultimo, il T.A.R. ha ritenuto infondato il rilievo formulato dalla ricorrente relativo alla violazione della clausola cd. di standstill "... la quale, in sé considerata, da sola non può certamente comportare l’annullamento dell’aggiudicazione o la caducazione dei contratti conclusi all’esito di quest’ultima ...".

(Tar Sicilia Catania Sez. II, 7.6.2021, n. 1982)


L'istituto della revisione prezzi negli appalti di servizi di igiene urbana: il Consiglio di Stato "boccia" l'automatismo.

Nell'ambito degli appalti di servizi, una delle problematiche che non di rado investe la fase esecutiva, riguarda l'istituto della revisione dei prezzi.

In questa precedente news è stato affrontato il tema attuale della mancata stipula del contratto sempre all'interno dell'affidamento di un servizio di igiene urbana.

Nella pronuncia oggetto della news, il Consiglio di Stato offre una disamina ben precisa e puntuale dell'istituto in occasione di una lite insorta tra un operatore economico privato ed un'amministrazione locale a fronte della richiesta di pagamento formulata dall'impresa dell’ulteriore corrispettivo a suo dire dovutole per i maggiori costi sostenuti per la prosecuzione del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani imposto con ordinanza sindacale nelle more della conclusione dell'iter di affidamento dei servizi con procedura ad evidenza pubblica.

Nel corso del primo grado del giudizio, il Tribunale amministrativo adito, premessa una sintetica ricostruzione della vicenda sottesa al ricorso e rilevato che si verteva in controversia devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. q), del codice del processo amministrativo (sia per l’an, sia per il quantum della pretesa), respingeva il ricorso, ritenendo che nella fattispecie oggetto di causa non sussistessero gli estremi dell’illecito extracontrattuale posto a base della domanda risarcitoria, tanto più che l’ordinanza sindacale di proroga del servizio non era stata impugnata dalla società.

Deve precisarsi, infatti, che il codice del processo amministrativo devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie che, seppur inerenti la fase esecutiva del contratto (e, dunque, attinenti al rapporto paritetico tra le parti), riguardano "... le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti anche contingibili ed urgenti, emanati dal Sindaco in materia di ordine e sicurezza pubblica, di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, di edilità e di polizia locale, d'igiene pubblica e dell'abitato ...".

Avverso la sentenza, la società ha interposto appello sull’assunto che il primo giudice avrebbe qualificato erroneamente la domanda risarcitoria di parte, laddove con essa si rivendicava il diritto ad un indennizzo adeguatamente remunerativo dell’imposizione -ex se legittima- di prosecuzione del servizio, riconducendo la fattispecie ad un'ipotesi tipica di illecito di natura contrattuale e non extracontrattuale, come contrariamente era stata qualificata dal giudice di primo grado,

Il Consiglio di Stato, nel dirimere la questione, ha acclarato l'infondatezza nel merito dell'appello nonostante l'impresa avesse dedotto in giudizio di aver subito un danno dal mantenimento delle originarie condizioni economiche per carenza della remuneratività nell'esecuzione del servizio imposto con ordinanza sindacale dall'Ente civico.

Il Supremo Consesso amministrativo, tuttavia, prima di esaminare nel merito la vicenda, ha rimarcato la legittimità e la ratio sottesa all’imposizione della prosecuzione del servizio di raccolta dei rifiuti urbani da parte delle amministrazioni, qualora si avvalgano del precedente gestore.

Censurando la condotta posta in essere dall'Ente civico sotto il profilo della mancata pianificazione tempestiva dei provvedimenti necessari alla definizione delle procedure, la questione infatti, come deduce il Giudice amministrativo, è stata più volte affrontata in giurisprudenza, la quale ha affermato i seguenti principi "... deve ritenersi legittimo il ricorso allo scopo all’istituto della ordinanza contingibile ed urgente, finanche laddove il Comune non si sia tempestivamente attivato per la indizione della gara per l’affidamento di tale servizio, in quanto la situazione di pericolo per la salute pubblica e l’ambiente connesse alla gestione dei rifiuti, non fronteggiabile adeguatamente con le ordinarie misure, legittimano comunque il Sindaco all’esercizio dei poteri extra ordinem riconosciutigli dall’ordinamento giuridico e, di fronte all’urgenza di provvedere, non rileva affatto chi o cosa abbia determinato la situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere ... non potendo ammettersi l’interruzione del servizio di igiene urbana per le intuibili gravissime conseguenze dannose che essa comporterebbe sul piano igienico-sanitario ... e su quello ambientale ... oltre che sulla vita dei cittadini".

Prima di esporre le argomentazioni alla base della motivazione della sentenza, il Consiglio di Stato ha sottolineato, in generale, i limiti che incontra il potere di ordinanza, stabilendo espressamente che "l’esecuzione del servizio, disposta in forza di ordinanza contingibile ed urgente, non può essere imposta a condizioni non remunerative, determinandosi altrimenti un contrasto con l’esigenza del giusto compenso e con il principio secondo il quale l’esercizio del potere di ordinanza ... deve limitarsi in linea di massima ad imporre misure tali da comportare il minore sacrificio possibile per il destinatario. Per poter contestare tale imposizione, tuttavia, la Società avrebbe dovuto tempestivamente impugnare l’ordinanza, non dolersi successivamente degli effetti della sua applicazione".

Successivamente il Giudice di secondo grado si sofferma sull'istituto della revisione prezzi, deducendo che essa si applica ai contratti di durata, ad esecuzione continuata o periodica, trascorso un determinato periodo di tempo dal momento in cui è iniziato il rapporto e fino a quando lo stesso non sia cessato ed eventualmente sostituito da un altro.

Con la previsione dell’obbligo di revisione del prezzo, chiarisce il Consiglio di Stato, "i contratti di forniture e servizi sono stati muniti di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporta la definizione di un “nuovo” corrispettivo per le prestazioni oggetto degli stessi, con beneficio per entrambi i contraenti: se, per un verso, l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata, per altro verso la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento della qualità o quantità di una prestazione, divenuta per l’appaltatore eccessivamente onerosa o, comunque, non remunerativa ... Si vuole cioè evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto ... e nel contempo alteri l’equilibrio contrattuale in ragione delle modifiche dei costi sopraggiunte durante l’arco del rapporto e che potrebbero indurre ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni ...".

Tuttavia, premesso quanto innanzi, il Consiglio di Stato chiarisce che la clausola di revisione prezzi non opera automaticamente: "È stato tuttavia anche chiarito che l’inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo, non comporta il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto l’obbligo che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti ... In tal senso si è ripetutamente pronunciata la giurisprudenza, rilevando altresì che la posizione dell’appaltatore è di interesse legittimo, quanto alla richiesta di effettuare la revisione in base ai risultati dell’istruttoria, poiché questa è correlata ad una facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante ... che deve effettuare un bilanciamento con l’interesse pubblico connesso al risparmio di spesa ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato. La giurisprudenza ha infine affermato che l’istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello procedimentale volto al compimento di un’attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, modello che sottende l’esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale dell’Amministrazione nei confronti del privato contraente, potendo quest’ultimo collocarsi su un piano di equiordinazione con la prima solo con riguardo a questioni involgenti l’entità della pretesa. Ne deriva che sarà sempre necessaria l’attivazione – su istanza di parte – di un procedimento amministrativo nel quale l’Amministrazione dovrà svolgere l’attività istruttoria volta all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, compito che dovrà sfociare nell’adozione del provvedimento che riconosce il diritto al compenso revisionale e ne stabilisce anche l’importo ... il quale deve essere impugnato nel termine decadenziale di legge ... ".

Le argomentazioni appaiono chiare ed esaustive: anche nell'ipotesi in cui un contratto ad esecuzione continuata e periodica (quale quello di cui si discute ovvero il servizio di igiene urbana) preveda una clausola di revisione prezzi, essa non opera in virtù di un automatismo, bensì presuppone un'input del privato volto a sollecitare l'avvio di un procedimento amministrativo nel quale confluiranno le decisioni (discrezionali) dell'Amministrazione circa la revisione.

Non può sottacersi che tale scelta, se per un verso opera in favore dell'Ente onde scongiurare un rischio di aumento costi e/o riduzione qualitativa-quantitativa dei servizi resi, per altro verso pone il privato in una posizione di aspettativa di mero fatto, certamente tutelabile nelle forme di legge.

(Cons. St. Sez. II, 14 giugno 2021, n. 4563)