corte di giustizia

La Corte di giustizia sulle concessioni demaniali: la proroga del titolo concessorio deve essere disapplicata dai giudici nazionali e dalle autorità amministrative, comprese quelle comunali.

La Corte di giustizia, con la sentenza del 20 aprile 2023 resa nella causa C-348/22, ha definitivamente chiuso ogni partita possibile in tema di concessioni demaniali marittime.

Dopo aver esaminato le questioni pregiudiziali formulate, in sede di rinvio, dal TAR Puglia, sede di Lecce, la Corte di giustizia ha affermato che i giudici nazionali e le autorità amministrative, comprese quelle comunali, debbano applicare le norme pertinenti di diritto dell’Unione, disapplicando le disposizioni di diritto nazionale non conformi alle stesse.

Con la pronuncia in commento è stata definitivamente messa una pietra sopra ad ogni ulteriore possibilità di sostenere che sia esclusa l’applicabilità della direttiva Bolkestein al settore delle concessioni balneari.

Per la Corte di Giustizia, infatti, la direttiva 2006/123 è perfettamente valida, in quanto correttamente adottata con la maggioranza necessaria; la stessa, inoltre, deve applicarsi alle concessioni di occupazione del demanio marittimo anche quando non presentino un interesse transfrontaliero certo, ma meramente interno.

Gli obblighi contenuti nella Bolkestein, inoltre, devono ritenersi enunciati in modo incondizionato e sufficientemente preciso, sicché gli stessi sono immediatamente produttivi di effetti diretti. Ne consegue che l’obbligo di disapplicare le disposizioni nazionali anticomunitarie incombe non solo in capo ai giudici, ma pure in capo alle autorità amministrative, ivi comprese quelle comunali.

Un punto importante, inoltre, è quello relativo alla valutazione della scarsità delle risorse naturali e delle concessioni disponibili: l’art. 12 della direttiva Bolkestein, - afferma la CGUE-, deve essere interpretato nel senso che non osta a che tale valutazione avvenga combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione. Si tratta di una precisazione degna di nota dopo la sentenza Promoimpresa, nella quale invece l’accertamento sulla scarsità della risorsa era stato demandato al giudice nazionale, prescrivendo di prendere in considerazione anche il fatto che le concessioni sono rilasciate a livello comunale.

È stata ritenuta irricevibile, invece, in quanto irrilevante ai fini della decisione principale, la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità con l’art. 12 della direttiva Bolkestein dell’art. 49 del Codice della navigazione, che prevede l’automatica devoluzione, al termine del periodo concessorio, delle opere inamovibili realizzate sul demanio, senza che sia corrisposto alcun indennizzo. Sul punto, ad ogni modo, anche la VII sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza 5 settembre 2022, n. 8010, ha interpellato la Corte di Giustizia, che dunque avrà modo di pronunciarsi.

L’esito della decisione della Corte di giustizia era dai più già annunciato.

La sentenza in commento si inserisce in uno scenario normativo e giurisprudenziale, in cui l’incertezza e la confusione la fanno da padrona. Infatti, dal rinvio pregiudiziale disposto dal TAR Lecce al pronunciamento della Corte di Giustizia, la vicenda normativa delle concessioni demaniali, nel nostro ordinamento, è stata particolarmente intensa.

A soli tre mesi di distanza dal rinvio pregiudiziale disposto dal TAR Lecce, il legislatore italiano, messo anche alle strette dall’Adunanza plenaria con le ormai note sentenze nn.  17 e 18 del 2021, ha adottato la Legge 5 agosto 2022, n. 118 entrata in vigore il 27 agosto 2022, con la quale è stato individuato quale termine ultimo di validità delle concessioni vigenti il 31 dicembre 2023.

Sennonché, il sistema di riforma introdotto dalla legge Concorrenza, apparentemente improntato all’accelerazione, è stato parzialmente frenato dal c.d. decreto Milleproroghe (d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. in L. 24 febbraio 2023, n. 14) che ha previsto un generale differimento dei termini inizialmente previsti per l’attuazione della riforma delle concessioni demaniali in chiave concorrenziale, prorogando, di fatto, di un altro anno, le concessioni in essere che avrebbero dovuto cessare al 31 dicembre 2023.

Se, da un lato, però, il legislatore italiano, con il decreto Milleproroghe, ha voluto concedere maggiore tempo al Governo per dare attuazione alla riforma introdotta dalla legge Concorrenza, dall’altro, il Consiglio di Stato si è sempre contrapposto, in maniera netta, a qualsiasi proroga, anche a quella introdotta dalla legge di conversione del decreto Milleproroghe, ritenendola in contrasto con il diritto europeo.

Emblematica, in tal senso, è stata la sentenza n. 2192 del 1° marzo 2023, con la quale, a distanza di pochi giorni dalla conversione del D.L. 29 dicembre 2022, n. 198 (c.d. Milleproroghe), il Consiglio di Stato, pronunciandosi su un ricorso proposto dall’Autorità Garante della Concorrenza (AGCM) avverso una delibera di giunta comunale che aveva disposto l’estensione delle concessioni demaniali marittime fino al 2033 in base a quanto stabilito dalla L. 145/2018, ha espressamente statuito che: “sulla base di quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, con le ricordate sentenza nn. 17 e 18 del 2021, non solo i commi 682 e 683 dell’art. 1 della L. n. 145/2018, ma anche la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato”.

La sentenza del 1° marzo 2023, che ha generato grande scalpore, non è però stata l’unica, in tema di concessioni demaniali, ad esser stata pubblicata, dopo la conversione in legge del decreto Milleproroghe. Con la sentenza n. 2740 del 15 marzo 2023, la sezione settima del Consiglio di Stato, chiamata a pronunciarsi sul rigetto di un’istanza di rinnovo o proroga di una concessione di un’area boscata, ha nuovamente ribadito che alle concessioni demaniali si applicano l’art. 12 della direttiva servizi 2006/123 (ne abbiamo parlato qui).

I giudizi di Palazzo Spada, dunque, nel ribadire l’applicabilità dell’art. 12 della direttiva servizi 2006/123 alle concessioni demaniali, hanno continuato a disapplicare la proroga del titolo concessorio, di volta in volta, invocata dal concessionario uscente.

Ora, a seguito del pronunciamento della Corte di Giustizia, in tema di concessioni demaniali, sembra essere inevitabile, oltre che indifferibile, un’inversione di rotta del Governo e del Parlamento.

Ora più che mai è necessario un repentino intervento legislativo, con il quale venga assunta una posizione chiara in merito alla riforma delle concessioni demaniali marittime.

In attesa, dunque, di conoscere le prossime indicazioni che il Governo intenderà assumere, i principi espressi dalla Corte di giustizia con la decisione dello scorso 20 aprile rappresentano il faro guida per i giudici amministrativi e per le amministrazioni comunali.

CGUE, 20 aprile 2023, c-348/22


infortunio sul lavoro

Infortunio sul lavoro: in caso di subappalto il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente?

La Corte di Cassazione, con una recentissima sentenza dello scorso 3 aprile, richiamando principi già espressi in sede penale ma applicabili anche in ambito di responsabilità civile, ha chiarito che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 494/1996, in caso di subappalto, il dovere di sicurezza, gravante sul datore di lavoro, opera anche in relazione al committente.

Giunge all’attenzione della Suprema Corte una triste vicenda di infortunio sul lavoro occorsa presso un cantiere installato per la realizzazione di un forno di verniciatura.

Lo sfortunato lavoratore, mentre era intento al montaggio di moduli per la realizzazione del predetto forno (a tal fine era stata realizzata una struttura metallica di sostegno alta circa 4 metri), munito di casco, scarpe, guanti antinfortunistici e cinture di sicurezza, era salito, su una scala attrezzata per raccogliere un cavo rimasto all’interno del modulo e gettarlo in basso per le successive operazioni. Senonché, subito dopo esser entrato nel modulo posto all’altezza di circa 4 metri, cadeva, riportando lesioni da cui era poi originata la morte.

La moglie e i figli, quindi, al fine di ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla morte del proprio congiunto, convenivano, innanzi al Tribunale competente, oltre alla società datrice di lavoro anche la società committente e la sub committente. I lavori di montaggio moduli per la realizzazione di un forno di verniciatura erano stati subappaltati alla società datrice di lavoro dello sfortunato lavoratore dalla società sub-committente.

Su tali premesse, gli originari attori deducevano un obbligo di vigilanza a carico della committente e della sub-committente, prospettando, altresì, una responsabilità della committente per la mancata verifica della concreta attuazione del piano di sicurezza e coordinamento (PSC). Era emersa, infatti, una discrepanza tra il suddetto piano e il piano operativo di sicurezza (POS) predisposto dal subappaltatore. Per il PSC era necessario che vi fosse idonea impalcatura o ponteggio o altra misura che consentisse l’aggancio di funi ovvero di cinture di sicurezza, mentre il POS prevedeva solo funi disposte a croce, a modo di protezione.

Il Tribunale adito, rigettava, tuttavia, la domanda, con pronuncia confermata anche dal giudice di secondo grado, ritenendo che non era stata dimostrata un’ingerenza della committente e della sub-committente tale da comprimere il ruolo autonomo del subappaltatore nella causazione del tragico evento.

Impugnata la sentenza della Corte d’Appello, i ricorrenti rilevavano l’erroneità della sentenza nella parte in cui non era stato considerato che la discrepanza tra i due piani era immediatamente percepibile dai due committenti, non era stato ritenuto applicabile il d.lgs. 494/1996, dal quale emergeva la posizione di garanzia del committente e, infine, nella parte in cui non era stato considerato che era risultata la specifica assunzione da parte della sub-committente di cooperare con le ditte subappaltatrici perché venissero attuate le idonee misure di prevenzione e sicurezza.

La Corte di Cassazione, esaminati i motivi, ha ritenuto il ricorso fondato.

Richiamando principi già espressi in sede penale, la Suprema Corte ha chiarito che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 494/1996, in caso di subappalto, il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente.

Tuttavia, ha precisato la Corte, dal committente non può esigersi un controllo pressante continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori.

Ne consegue, pertanto, che ai fini della configurazione della responsabilità del committente, occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché all’agevole e immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo.

Sulla base di tali premesse ermeneutiche la Suprema corte ha ritenuto che l’omessa richiesta di allineamento dei due piani (PSC e POS) da parte delle committenti, nonostante la discrasia fosse facilmente evincibile, perché documentale, avrebbe dovuto essere approfondita dal giudice di merito.

Il giudice di appello avrebbe dovuto verificare se l’omessa richiesta di allineamento dei due piani in funzione della più idonea sicurezza sia stata condotta omissiva tale che abbia causalmente contribuito in chiave probabilistica all’evento, consistito proprio in una caduta per omesso fermo delle indossate cinture di sicurezza.

(Cass. civ. Sez. III, ord. 3.4.2023, n. 9178)

 

 


rotazione

Principio di rotazione: analisi della recente giurisprudenza alla luce anche del nuovo codice dei contratti pubblici.

La sentenza n. 98 del 2023 del TAR Toscana offre un ottimo spunto per ribadire l’ormai consolidato orientamento del Consiglio di stato sulle ipotesi derogatorie del principio di rotazione nonché per analizzare le novità introdotte dallo schema del nuovo codice dei contratti pubblici che, al principio di rotazione, dedica un intero articolo.

Il principio di rotazione, di derivazione interna e non comunitaria, è stato introdotto nel nostro ordinamento al fine di tutelare le micro, piccole e medie imprese.

Il principio di rotazione è sempre stato al centro di numerosi dibattiti. La giurisprudenza amministrativa, infatti, si è spesso trovata a dover pronunciare sulla corretta applicazione dell’istituto e/o sulle possibili ipotesi derogatorie.

Nella fattispecie concreta giunta all’attenzione del TAR Toscana, il ricorrente ha censurato il comportamento della stazione appaltante che aveva avviato una ricerca di mercato preliminare ufficiosa tra sette imprese selezionate dalla stazione appaltante, in deroga al principio di rotazione.

Tale deroga, a detta della stazione appaltante, trovava giustificazione nel fatto che la ditta uscente aveva svolto il servizio in modo diligente, professionale e affidabile e che il mercato in esame era costituito da un numero limitato di prodotti.

Il TAR Toscana, nell’accogliere il ricorso, ha evidenziato come il generico riferimento, nella determinazione della stazione appaltante, al fatto che il gestore uscente aveva svolto il servizio in modo diligente, professionale e affidabile, sia insufficiente a giustificare la deroga.

In particolare, il TAR Toscana ha evidenziato che per derogarsi al principio di rotazione è necessario che nella motivazione si faccia riferimento al numero eventualmente circoscritto e non adeguato  di operatori presenti sul mercato,  al particolare e difficilmente replicabile grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero al peculiare oggetto e alle specifiche caratteristiche del mercato di riferimento (Cons. St. sez. V 3.4.2018, n. 2079; Cons. St. sez. IV, 31.8.2017, n. 4125).

La sentenza in commento si inserisce perfettamente nel solco di un filone giurisprudenziale (Cons. St., sez. V, 17.3.2021, n. 2292; Cons. St. Sez. V, 31.3.2020, n. 2182) ormai consolidato secondo cui “il principio di rotazione non è regola preclusiva (all’invio del gestore uscente e al conseguente suo rinnovato affidamento del servizio) senza eccezione, potendo l’amministrazione derogarvi fornendo adeguata, puntuale e rigorosa motivazione delle ragioni che l’hanno a ciò indotta”.

Tali principi sono confluiti nell’art. 49 dello schema del nuovo codice dei contratti pubblici, che è interamente dedicato al principio di rotazione, il che rappresenta di per sé già una grande novità. Infatti, il codice dei contratti pubblici vigente richiama il principio di rotazione solo al comma 1 dell’art. 36, imponendo il rispetto del principio di rotazione degli inviti. Per il resto, la disciplina del principio di rotazione è contenuta nelle Linee guida ANAC n. 4.

L’art. 49 riprende, in parte, le previsioni di cui alle citate Linee guida, innovando tuttavia su taluni profili significativi, in relazione ai quali si è ritenuto di calibrare diversamente l’operatività del principio, precisandone la portata con riferimento ad ambiti rivelatisi critici.

Le principali novità introdotte dallo schema del nuovo codice dei contratti pubblici sono:

  • in caso di procedura negoziata il principio di rotazione comporta il divieto di invito a procedure dirette all’assegnazione di un appalto nei confronti del contraente uscente (comma 2). La rotazione si ha, quindi, solo a carico del soggetto che abbia conseguito la precedente aggiudicazione, escludendo, invece, dal divieto coloro che erano stati soltanto invitati alla precedente procedura negoziata, senza conseguire poi l’aggiudicazione.
  • in casi debitamente motivati con riferimento alla particolare struttura del mercato e alla riscontrata effettiva assenza di alternative, nonché di accurata esecuzione del precedente contratto l’esecutore uscente può essere reinvitato o essere individuato quale affidatario diretto (comma 4).
  • è consentito derogare alla rotazione per gli affidamenti diretti di importo inferiore a 5.000 euro (comma 6).

TAR Toscana, Sez. I, 31.1.2023, n. 98


inquinamento

Danno alla salute da inquinamento atmosferico: è competente il giudice ordinario.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con una recente sentenza, hanno ritenuto il giudice ordinario competente in materia di richiesta di risarcimento del danno alla salute da inquinamento atmosferico.

La Corte di Cassazione, pronunciandosi sul ricorso di un cittadino milanese che agiva, nei confronti del Comune di Milano e della Regione Lombardia, per ottenere il risarcimento dei danni subiti per il mancato rispetto dei limiti di inquinamento, ha offerto un’analisi puntuale sul riparto di giurisdizione in materia di danno ambientale.

Il caso specifico.

Un cittadino milanese ha adito il Tribunale ordinario di Milano al fine di ottenere la condanna dell’amministrazione locale e regionale al risarcimento dei danni subiti a causa del mancato rispetto dei limiti fissati dal d.lgs. 13 agosto 2010 n. 155, a tutela della salute umana. A sostegno della domanda, ha dedotto che il superamento di detti limiti gli aveva causato una serie di patologie respiratorie.

Senonché, il Tribunale Ordinario di Milano ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice amministrativo, evidenziando che la giurisdizione del giudice amministrativo derivava dal fatto che nel caso di specie l’attore lamentava il mancato esercizio da parte del Comune e della Regione dei poteri amministrativi finalizzati alla tutela dei cittadini dall’inquinamento atmosferico.

La causa è stata, dunque, riassunta innanzi al TAR per la Lombardia, il quale, a sua volta, ritenendo che la controversia appartenesse alla giurisdizione del giudice ordinario, ha sollevato il conflitto negativo di giurisdizione.

A parere del TAR, dovendosi seguire il petitum sostanziale, la giurisdizione è del giudice ordinario perché nel caso di specie è stato chiesto il risarcimento del danno derivato all’attore dalla condotta asseritamente illegittima ritenuta dalle amministrazioni e non - come ritenuto dal Tribunale Ordinario di Milano - l’adozione di un provvedimento amministrativo.

La decisione.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ritenuto che in caso di controversia in materia di danno alla salute, la giurisdizione deve essere devoluta al giudice ordinario.

Nel caso di specie, il cittadino ricorrente, pur lamentandosi dell’inerzia delle amministrazioni resistenti, ha chiesto il risarcimento del danno alla salute e alla vita di relazione da lui subiti in conseguenza dell’inerzia amministrativa.

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha avuto l’occasione di ribadire che in materia di danno ambientale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie derivanti dall’impugnazione, da parte dei soggetti titolari di un interesse alla tutela ambientale, dei provvedimenti amministrativi adottati dal Ministero dell’ambiente per la precauzione, la prevenzione e il ripristino ambientale.

Sono invece devolute al giudice ordinario le cause risarcitorie o inibitorie promosse da soggetti ai quali il fatto produttivo di danno ambientale abbia cagionato un pregiudizio alla salute o alla proprietà, nonché le controversie, nelle quali il privato, deducendo l’omessa adozione, da parte della pubblica amministrazione degli opportuni provvedimento a tutela del diritto alla salute, domandi nei confronti della stessa il risarcimento del danno non patrimoniale.

(Cass. Civ. Sez. Un. Ord. 23 febbraio 2023, n. 5668)


anac

Tardivo versamento del contributo ANAC: è legittima l’esclusione?

Con la recente pronuncia dello scorso 3 febbraio, il Consiglio di Stato ha affermato che in caso di tardivo versamento del contributo ANAC l’esclusione non è legittima.

Un concorrente partecipava ad una procedura di gara e, non avendo effettuato il pagamento del contributo ANAC, veniva invitato dalla stazione appaltante a regolarizzare tale pagamento in sede di soccorso istruttorio.

La società concorrente provvedeva a regolarizzare il pagamento del contributo ANAC entro il termine massimo concesso dalla stazione appaltante. Tale termine, tuttavia, risultava essere successivo alla scadenza della presentazione delle offerte.

Per tale ragione, la stazione appaltante decideva di escludere la società dalla procedura di gara. Nello specifico, la stazione appaltante evidenziava che l’art. 11 del disciplinare di gara prevedeva, per il caso di mancato pagamento entro il termine di presentazione delle offerte, una espressa comminatoria di esclusione.

La società concorrente impugnava detta esclusione dinanzi al TAR Umbria, il quale, richiamata la lex specialis di gara, confermava la bontà dell’operato della stazione appaltante.

In sede di appello, la società concorrente, nell’evidenziare l’erroneità della sentenza resa dal TAR Umbria, precisava come  la causa di esclusione prevista dal disciplinare di gara esula dal novero delle cause di esclusione previste dalla legge e, come tale, deve essere considerata nulla. Per la società ricorrente, dunque, l’art. 11 del disciplinare di gara non avrebbe dovuto trovare applicazione.

Il Consiglio di stato, ritenuto fondato il motivo, ha accolto il ricorso ed ha annullato l’esclusione.

In particolare, i giudici hanno rilevato che rispetto all’art. 1, comma 67 della l. n. 266/2005, che ha introdotto l'obbligatorietà del versamento del c.d. contributo ANAC, l’art. 11 del disciplinare di gara si rivela più limitante e rigoroso perché l’effetto espulsivo ivi previsto consegue anche al solo tardivo pagamento del contributo, oltre che per il suo omesso pagamento.

In definitiva, dunque, a parere del Consiglio di Stato, l’art. 11 del disciplinare di gara, escludendo rilevanza al soccorso istruttorio e conferendo alla tempistica del pagamento un peso determinante, contrasta con l’art. 83, comma 8,  del d.lgs. 50/2016, il quale prevede che “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizione a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal codice e dal altre disposizioni vigenti” nonché con l’art. 1, comma 67 della l. 266/2005, il quale contempla “l’obbligo di versamento del contributo da parte degli operatori economici quale condizione di ammissibilità dell’offerta nell’ambio delle procedure finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche”.

La pronuncia in commento è estremamente importante e si inserisce nel grande dibattito che ruota intorno al contributo ANAC. La giurisprudenza, infatti, è sul punto estremamente discordante e finanche contradditoria.

Basti pensare che solo pochi giorni prima della pubblicazione della sentenza del Consiglio di stato, il TAR Sardegna, nel richiamare precedenti pronunce rese sia dai giudici di merito che dallo stesso Consiglio di Stato, ha addirittura ritenuto inapplicabile il soccorso istruttorio in caso di mancato pagamento del contributo ANAC, se non previsto dal bando.

Cons. Stato, Sez. III, 3.2.2023, n. 1175

TAR Sardegna, Sez. II, 18.1.2023, n. 14


energia

Energia: è possibile sostituire il combustibile fossile con il CSS?

Un’interessante pronuncia del TAR Umbria chiarisce che è possibile sostituire il combustibile di origine fossile con il CSS.

Nello specifico, il TAR Umbria precisa che per soddisfare il fabbisogno energetico degli impianti industriali, il combustibile di origine fossile può essere sostituito con il CSS, cioè con il combustibile ottenuto dalla componente secca (plastica, carta, fibre tessili, ecc.) dei rifiuti non pericolosi, sia urbani sia speciali, purché non venga aumentata la capacità produttiva autorizzata.

Il caso specifico.

La vicenda giunta all’attenzione del TAR Umbria trae origine dal ricorso presentato da un comune che contrastava l’operato della Regione la quale, preso atto dell’intervenuta modifica non sostanziale dell’installazione autorizzata, relativa all’utilizzo di CSS in parziale sostituzione dei combustibili di origine fossile, aggiornava, con determina regionale, le condizioni e le prescrizioni dell’AIA (autorizzazione integrata ambientale) rilasciata in favore della società energivora.

Per il comune ricorrente, tale determina dirigenziale risultava viziata sotto plurimi aspetti: a) per indebita pretermissione della VIA; b) perché la modifica sarebbe sostanziale; c) perché la Regione non avrebbe valutato gli effetti cumulativi degli impianti; d) perché l’iter svolto dalla Regione avrebbe privato il sindaco dei suoi poteri di impartire prescrizione a tutela della salute ex art. 29  quater e 29 octies del d.lgs. 152/2006; d) perché la Regione non avrebbe esperito la valutazione d’incidenza.

La decisione.

Il TAR Umbria, nel rigettare in toto il ricorso, ha evidenziato che la società energivora aveva presentato la comunicazione di modifica non sostanziale dell'impianto sotto la vigenza del d.l. 31.5.2021 n. 77 (c.d. decreto Semplificazioni-bis), il quale all’art. 35 comma 3 richiama il parametro della capacità produttiva preesistente, quale presupposto dell’autorizzazione ad utilizzare il CSS.

Invero, l’art. 35 del d.l. 77/2021, al comma 3 prevede che “Gli interventi di sostituzione dei combustibili tradizionali con CSS-combustibili […] che non comportino un incremento della capacità autorizzata,  non costituiscono una modifica sostanziale […] e richiedono il solo aggiornamento del titolo autorizzatorio”.

Su tali premesse, quindi, il collegio, rigettando tutte le doglianze avanzate dal ricorrente, ha ritenuto l’operato della Regione conforme alla normativa di settore vigente ratione temporis.

L'unica possibilità per il comune di contrastare la sostituzione del combustile di origine fossile con il CSS sarebbe quella di adottare ordinanze sindacali qualora sussistano documentati pericoli per la salute pubblica.

Il collegio, infatti, evidenzia che il sindaco ben potrà optare, qualora lo ritenga necessario, per l’esercizio dei propri poteri inibitori in materia di salute pubblica di cui agli artt. 216 e 217 del r.d. 27.7.1934, n. 1265, nonché quelli di igiene e sanità pubblica, ambientale e di incolumità e sicurezza ex artt. 50 e 54 d.lgs. 267/2000.

Le ultime novità normative.

Si segnala, per completezza espositiva, che il 17.1.2023 è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale la Legge 13.1.2023, n. 6, di conversione del d.l. 18 novembre 2022, n. 176, recante misure urgenti di sostegno nel settore energetico e di finanza pubblica. All'art. 4-bis della legge 6/2023 viene specificato che per le attività soggette al rilascio della VIA e dell’AIA, fino al 31 marzo 2024, è possibile sostituire il combustibile naturale (metano) con combustibili alternativi, compreso il combustibile solido secondario (CSS) con una procedura considerata come modifica non sostanziale. Per i combustibili alternativi si intendono quelli consentiti dall'Allegato 10, parte quinta del Testo Unico Ambientale (d.lgs. n. 152/2006). Il gestore dell’impianto può dunque procedere alla sostituzione del combustibile decorsi 30 giorni dalla comunicazione ed in assenza di un provvedimento di diniego motivato da parte dell’autorità competente rilasciato entro il medesimo termine. La deroga accordata ha validità per 6 mesi dalla comunicazione.

T.A.R. Umbria, Sez. I, 12.1.2023, n. 28

 


L’onere della prova tra teoria della regolarità causale e strumenti logico-processuali di corroboration e cumulative redundancy.

L’onere della prova tra teoria della regolarità causale e strumenti logico-processuali di corroboration e cumulative redundancy.

 

Il Tribunale ordinario di Bari, con una sentenza dello scorso ottobre, richiamando la teoria della regolarità causale e gli strumenti logico-processuali di corroboration e cumulative redundancy offre un interessante spunto per riflettere sull’onere della prova.

Il caso specifico oggetto di contenzioso dinnanzi al Tribunale di Bari riguardava una richiesta di risarcimento danni formulata dal proprietario di un immobile che, a suo parere, versava in pessimo stato di manutenzione per colpa imputabile all’ex coniuge che, nonostante avesse ricevuto l’immobile a titolo di casa familiare, l’aveva lasciata in totale stato di abbandono, impendendo altresì all’ex marito di riprenderne il possesso.

Si costituiva in giudizio l’ex moglie, la quale, deducendo l’insussistenza di qualsiasi sua colpa nella causazione dei danni subiti dall’immobile, dichiarava che nessun danno era a lei eziologicamente ricollegabile.

Nello specifico, l’ex moglie precisava che nell’accordo di separazione risultava che l’ex marito avesse assunto l’impegno di eseguire tutti i lavori di messa in sicurezza dell’immobile per assicurare alle figlie minori di vivere in un ambiente salubre. Tale impegno, tuttavia, non era stato correttamente onerato dall’ex coniuge e, pertanto, stante il gravoso inadempimento, l’ex moglie era stata costretta a trovare una diversa e provvisoria sistemazione abitativa per tutelare la salute propria e delle figlie minori.

Orbene, nell’indagine di eventuali responsabilità, il giudice istruttore, precisato che, oltre al collegamento subiettivo con l’agente, occorre accertare le conseguenze dannose che derivano dal fatto illecito/inadempimento, legate da un nesso di causalità giuridica all’azione umana, evidenziava come su ciascuna delle parti dovesse ricadere l’onere della prova, secondo la dicotomia fatti costitutivi (attore) e fatti impeditivi, modificativi, estintivi (convenuto).

Su tali premesse, il giudice istruttore individuava, nel caso di specie, i fatti costituiti e i fatti impeditivi/modificativi/estintivi, rispettivamente, nell’inadempimento dell’obbligo di custodia dell’ex moglie e nell’abbandono della causa avvenuto legittimamente stante le condizioni di insalubrità dell’immobile per inadempimento dell’ex marito all’obbligo di esecuzione dei lavori.

Così ricostruito l’impianto argomentativo, il giudice istruttore, al fine di verificare e accertare il raggiungimento o meno della prova, gravante su entrambe le parti, distingueva, da un lato, il compendio probatorio in ordine all’obbligo di custodia, gravante sull’ex moglie e, dall’altro, il compendio probatorio in ordine all’impedimento all’accesso nell’immobile, gravante sull’ex marito.

In disparte le risultanze istruttorie raggiunte nel caso in commento, la sentenza in esame costituisce un ottimo vademecum sui diversi strumenti probatori presenti nel nostro ordinamento.

Il giudice istruttore, infatti, nella ricostruzione del legame tra illecito ed evento dannoso, è ricorso:

  • alla teoria della regolarità causale, che è una tecnica di imputazione dei danni per cui non è sufficiente la relazione causale della c.d. “condicio sine qua non” per determinare una causalità̀ giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante, non appaiono del tutto inverosimili;
  • a strumenti logico-processuali di corroboration e cumulative redundancy, ossia avvaloramento di una tesi ed esclusione delle ipotesi alternative onde raggiungere il più elevato standard di probabilità logica.

(Trib. Bari, sez. I, sent.  20.10.2022, n.3825)


Riforma Cartabia: come cambia il processo civile.

Riforma Cartabia: come cambia il processo civile.

Tra proteste e preoccupazioni, la Riforma Cartabia cambierà il processo civile in anticipo rispetto al previsto.

La Legge di Bilancio (l. 29 dicembre 2022, n. 197) ha anticipato, infatti, al 28 febbraio 2023, l'operatività del d.lgs. 10 ottobre 2022, n.149 (c.d. Riforma civile Cartabia).

Chiariamo fin da subito che alcune disposizioni introdotte dalla riforma sono già operative. Tra queste, ad esempio, a far data dal 1° gennaio 2023, anche per i procedimenti civili già pendenti davanti al Tribunale, alla Corte d’Appello e alla Corte di cassazione, il giudice può disporre che l’udienza si svolga mediante collegamenti audiovisivi a distanza o che sia sostituita dal deposito di note scritte. Ovviamente, questa possibilità viene meno quando bisogna escutere testimoni o comunque quando all’udienza si renda necessaria la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pm e dagli ausiliari del giudice (artt. 127, comma 3, 127 -bis, 127-ter e 193, comma 2, c.p.c., nonché art. 196-duodecies delle disp. att. c.p.c.). Quindi, l’udienza in presenza non scompare del tutto: diventa l’eccezione alla regola.

Sempre a partire dal 1° gennaio 2023, il legislatore della riforma ha previsto l’entrata in vigore delle disposizioni recanti la modifica della disciplina del ricorso per cassazione. Tali disposizioni trovano applicazione ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023. Tuttavia, gli artt. 372, 375, 376, 377, 378, 380, 380-bis, 380-bis-1, 380-ter, 390 e 391-bis c.p.c. si applicano anche ai giudizi introdotti con ricorso già notificato alla data del 1° gennaio 2023 per i quali NON è stata fissata udienza o adunanza in camera di consiglio.

Infine, il 1° gennaio 2023 è entrata in vigore anche la disposizione recante il rinvio pregiudiziale (art. 363-bis c.p.c.), che si applica anche ai giudizi di merito pendenti alla data del 1° gennaio 2023.

La regola generale, tuttavia, resta quella per cui la Riforma civile Cartabia entrerà in vigore a partire dal 28 febbraio 2023. Vediamo quali sono le principali novità introdotte dalla riforma nel rito civile.

Modifiche in tema di notificazioni

Degne di nota sono le disposizioni relative all’introduzione dell’obbligo della notifica a mezzo PEC qualora il destinatario sia un soggetto obbligato a munirsi di un indirizzo PEC risultante da pubblici elenchi, ovvero abbia eletto domicilio digitale a norma del d.lgs. n. 82/2005.

A tal fine, il legislatore della riforma, all’art. 147 c.p.c. ha aggiunto due nuovi commi, prevedendo che le notificazioni a mezzo posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato possono essere eseguite senza limiti orari e che si perfezionano in momenti diversi per il notificante e per il destinatario.

Modifiche al procedimento di cognizione davanti al tribunale e il nuovo rito semplificato

Il legislatore della riforma ha introdotte numerose modifiche al giudizio di primo grado.

Cambia il contenuto dell’atto di citazione che oltre a dover essere chiaro, specifico e sintetico, in virtù dei principi generali di chiarezza e sinteticità introdotti dal legislatore della riforma per tutti gli atti processuali (art. 121 c.p.c. e art. 46 delle disp. att. c.p.c.), deve contenere due nuove formule.

  1. La prima, ricorre solo nel caso in cui la domanda è sottoposta a condizione di procedibilità. Il legislatore della riforma ha, infatti, previsto che nell’atto di citazione bisogna dare atto che la domanda è soggetta ad una specifica condizione di procedibilità e che tale condizione è stata soddisfatta, allegando, il verbale negativo di conciliazione.
  2. La seconda formula invece deve essere inserita nella parte dell’atto di citazione dedicata alla vocatio in ius. È un nuovo avvertimento che l’attore deve fare al convenuto e cioè che “la difesa tecnica mediante avvocato è obbligatoria in tutti i giudizi davanti al tribunale, fatta eccezione per i casi previsti dall’articolo 86 o da leggi speciali, e che la parte, sussistendone i presupposti di legge, può presentare istanza di parte”.  

Nella redazione dell’atto di citazione occorre poi prestare attenzione ai nuovi termini processuali.

Il legislatore della riforma ha, invero, rimodulato il termine che deve intercorrere tra il giorno della notifica dell’atto citazione e quello dell’udienza di prima comparizione, allungandolo ad almeno 120 giorni liberi.

Un altro termine processuale modificato dalla riforma è quello previsto per la costituzione del convenuto, individuato nel termine di 70 giorni prima dell’udienza indicata nell’atto di citazione.

I termini processuali sono stati rimodulati perché il legislatore della riforma, al fine di raggiungere l’obiettivo concordato in sede europea di durata ragionevole del processo, ha modificato lo svolgimento della prima udienza.

Con la riforma, infatti, prima dell’udienza di comparizione ex art. 183 c.p.c., le parti dovranno depositare le c.d. memorie integrative ex art. 171-ter c.p.c. che, nella sostanza, coincidono con le attuali memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c.

Il legislatore della riforma ha previsto che, a pena di decadenza, le memorie integrative devono essere depositate nei seguenti termini:

  1. la prima memoria, almeno 40 giorni prima dalla data dell’udienza di comparizione;
  2. la seconda memoria, almeno 20 giorni prima dalla dell’udienza di comparizione;
  3. infine la terza, almeno 10 giorni prima dalla data dell’udienza di comparizione.

È stato dato, quindi, un nuovo volto all’udienza di prima comparizione (art. 183 c.p.c.).

Il legislatore ha previsto che all’udienza di prima comparizione le parti devono comparire personalmente; la mancata comparizione, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c. Questo perché il legislatore della riforma ha previsto che nella prima udienza di comparizione il giudice deve interrogare liberamente le parti, chiedere i chiarimenti necessari sulla base dei fatti allegati e procedere con il tentativo obbligatorio di conciliazione. Qualora il tentativo di conciliazione dia esito negativo, il giudice, nella stessa udienza, può provvedere sulle istanze istruttorie, oppure può riservarsi ed emettere successiva ordinanza.

All’esito dell’udienza di comparizione, però, se è stata raggiunta la prova dei fatti costitutivi della domanda e quando le difese del convenuto risultano manifestamente infondate, il giudice può, adottare, previa istanza di parte, ordinanza di accoglimento della domanda (art. 183-ter c.p.c.). Allo stesso modo, se, all’esito della prima udienza di comparizione, la domanda dell’attore sia manifestamente infondata o quando non è stata sanata la nullità dell’atto di citazione, il giudice può, su istanza di parte, adottare ordinanza di rigetto della domanda (art. 183-quater c.p.c.).

Entrambe le ordinanze possono essere adottate solo su istanza di parte e nelle controversie di competenza del tribunale aventi ad oggetto diritti disponibili; mentre solo l’ordinanza di accoglimento è reclamabile ex art. 669-terdecies c.p.c.

All’udienza di trattazione il giudice, “valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria” e sentite le parti, potrebbe disporre con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo nelle forme del nuovo rito semplificato, che con la riforma trova una nuova collocazione nel codice di procedura civile.

Il rito semplificato, infatti, a far data dal 28 febbraio 2023, non sarà più disciplinato dall’art. 702-bis ma dagli artt. 281-decies c.p.c. e ss. in forza dei quali il ricorso a tale rito alternativo è possibile sia “quando i fatti di causa non sono controversi”, sia quando “la domanda è fondata su prova documentale o è di pronta soluzione o richiede un’’istruzione non complessa”.

In mancanza di tali circostanze peculiari, all’esito della prima udienza di comparizione, il giudice fissa l’udienza per l’assunzione dei mezzi di prova.

Esaurita l’istruttoria, si apre la fase decisoria.

Il giudice istruttore, quindi, ritenuta la causa matura per la decisione, fissa l’udienza, a trattazione scritta, per la rimessione in decisione (o al collegio) ed assegna alle parti tre termini perentori:

  1. fino a 60 giorni prima dell’udienza, per il deposito di note scritte contenenti le sole precisazioni delle conclusioni;
  2. fino a 30 giorni prima dell’udienza, per il deposito delle comparse conclusionali;
  3. fino a 15 giorni prima dell’udienza per il deposito delle memorie di replica.

In alternativa alla trattazione scritta, il legislatore della riforma ha previsto due schemi: quello della trattazione mista per la quale è sempre necessaria l’istanza di parte e quello della trattazione orale.

In caso di trattazione mista, il giudice dispone lo scambio delle sole note di precisazione delle conclusioni e delle comparse conclusionali. Viene meno, quindi, lo scambio delle memorie di replica.

In caso di trattazione scritta, occorre distingue tra le cause di competenza del tribunale in composizione monocratica e le cause di competenza del tribunale in composizione collegiale.

Per le prime, il giudice invita le parti a precisare le conclusioni e fissa l’udienza per la discussione orale della causa. Per le seconde, invece, il giudice istruttore assegna un termine per il deposito di note scritte di precisazione delle conclusioni e un ulteriore termine per il deposito di note conclusionali.

Modifiche ai procedimenti davanti al giudice di pace

Grandi novità sono state introdotte anche per i procedimenti da instaurarsi davanti al giudice di pace.

Innanzitutto, è stata elevata la soglia per le cause relative a beni mobili fino a € 10.000 euro e per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti fino a € 25.000.

La novità più significativa è che, per tale giudizio, verranno applicate le forme del procedimento semplificato di cognizione.

La domanda deve essere proposta con ricorso, e non più con atto di citazione.

Alla prima udienza, fermo restando l’obbligo di procedere al tentativo di conciliazione, il giudice di pace deve osservare il disposto dell’art. 281 duodecies c.p.c., che prevede che si proceda all’istruttoria necessaria o si mandi la causa in decisione.

Il modello decisorio è identico a quello previsto per la decisione a seguito di discussione orale dinanzi al tribunale in composizione monocratica.

Infine, anche per il giudice di pace troveranno applicazione le disposizioni sul processo civile telematico e, di conseguenza, sono stati apportati i relativi adattamenti alle disposizioni in esame. Tali disposizioni però entreranno in vigore per i procedimenti instaurati successivamente al 30 giugno 2023.

Modifiche introdotte ai procedimenti davanti alla Corte d’Appello

La riforma interviene a modificare anche il giudizio di appello, al fine di assicurarne una maggiore celerità e semplificazione, eliminando strumenti processuali che non hanno dato un buon risultato nel corso del tempo. In particolare, le novità più rilevanti attengono alla eliminazione del filtro previsto dall’art. 348 bis c.p.c. ed all’inserimento di un filtro di diverso tipo: la discussione orale della causa ai sensi dell’art. 350-bis c.p.c.

È stato poi attribuito un nuovo ruolo al consigliere istruttore al quale viene demandato l’espletamento di tutti gli incombenti antecedenti la fase decisoria. Il modello delineato è, pertanto, analogo a quello del rito dinanzi al tribunale in composizione collegiale, in cui è riservata al collegio solo la fase decisoria in senso stretto, mentre tutte le altre fasi processuali sono trattate dinanzi al giudice istruttore.

Infine, sono state limitate le ipotesi di rimessione della causa al primo giudice ai soli casi di violazione del contraddittorio.

Anche il contenuto dell’atto di appello è stato modificato (artt. 342 e 434 c.p.c.). Per le impugnazioni successive al 28 febbraio 2023 l’appello deve essere motivato e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico:

1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato;

2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado;

3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

Diversamente dal giudizio di primo grado non cambia il termine minimo che deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello della prima udienza.  Il legislatore, infatti, eliminando il rinvio all’art. 163 c.p.c. ha previsto che tra la notifica dell’atto di appello e il giorno dell’udienza devono intercorrere termini liberi non minori di 90 giorni se residente in Italia o di 150 giorni se residenti all’estero.

Per quanto riguarda la costituzione del convenuto, l’art. 343 c.p.c. dispone che la comparsa di risposta dell’appellato, che a pena di decadenza deve contenere l’appello incidentale, deve essere depositata entro 20 giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione in appello.

Modifiche ai procedimenti davanti alla Corte di Cassazione

Per quanto concerne il giudizio di cassazione, la delega prevede innanzitutto la riforma del c.d. filtro in Cassazione, con la previsione di un procedimento accelerato per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati. In particolare, se il giudice (giudice filtro, in luogo della sezione filtro) ravvisa uno dei possibili suddetti esiti, lo comunica alle parti lasciando loro la possibilità di optare per la richiesta di una camera di consiglio ovvero per la rinuncia al ricorso.

Per quanto riguarda il contenuto del ricorso, il legislatore della riforma ha previsto che il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione e che ciascun motivo deve fare riferimento al documento ad esso inerente e che il contenuto di tale documento deve essere richiamato nel motivo, ai fini della sua comprensibilità (art. 366 c.p.c.)

Importanti modifiche riguardano la fase della trattazione del ricorso per cassazione, il cui riordino viene disciplinato in primo luogo attraverso la previsione dei casi in cui la Corte procede in udienza pubblica. Con riferimento alla pubblica udienza, il legislatore della riforma ha riservato la trattazione dei ricorsi alla pubblica udienza, “quando la questione di diritto è di particolare rilevanza”.

Degno di nota è, infine, il nuovo art. 391 quater c.p.c. con il quale il legislatore della riforma ha previsto la possibilità di impugnare per revocazione le decisioni passate in giudicato, il cui contenuto sia stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione ovvero ad uno dei suoi Protocolli.


Concessioni balneari: dopo la legge concorrenza i ricorsi per le proroghe sono improcedibili.

Concessioni balneari: dopo la Legge concorrenza i ricorsi per le proroghe sono improcedibili.

Il TAR Genova, chiamato a pronunciarsi sull’estensione delle concessioni balneari al 31 dicembre 2033, in virtù dell’ormai abrogata l. 145/2018, ha dichiarato l’improcedibilità di ben 51 ricorsi per sopravvenuta carenza d’interesse, dovuta a sopravvenienza normativa.

Il collegio, con una serie di sentenze sostanzialmente identiche, pubblicate tra il 2 e il 3 gennaio 2023 (TAR Liguria, Sez. I, 2 gennaio 2023, n. 1 e TAR Liguria, Sez. I, 3 gennaio 2023 nn. 9 – 60), rilevato che “in pendenza di giudizio, la legge 30 dicembre 2018, n. 145, che aveva disposto, al suo art. 1, commi 675 e 683, la proroga delle concessioni demaniali marittime ad uso turistico e ricreativo al 31 dicembre 2033, è stata abrogata e sostituita dalla disposizione contenuta nell’art. 3, comma 1, della legge 5 agosto 2022, n. 118, che ha stabilito il termine finale di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in  vigore della legge stessa  al 31 dicembre 2023”, ha dedotto l’irrilevanza della questione inerente la necessità di applicare o disapplicare la l. 145/2018 e, per l’effetto, ha pronunciato l’improcedibilità dei ricorsi.

Ma procediamo con ordine.

A seguito dell’entrata in vigore della l. 145/2018, i comuni liguri, così come la stragrande maggioranza dei comuni italiani, davano attuazione alla previsione normativa che prevedeva la durata delle concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo fino al 31 dicembre 2033.

Senonché, a seguito delle sentenze dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021, i comuni liguri avevano fatto dietro front, revocando tutti i provvedimenti di estensione delle concessioni demaniali marittime.

Detti provvedimenti venivano impugnati dai concessionari, con distinti ma analoghi ricorsi, i quali domandavano non solo l’annullamento di tali atti di revoca ma anche l’accertamento dell’efficacia delle loro concessioni fino al 31 dicembre 2033 in ossequio a quanto disposto dalla l. 145/2018.

L’oggetto di tutti e 51 i ricorsi era, quindi, costituito da atti comunali adottati in vigenza della normativa del 2018 e la questione fondamentale sulla quale doveva pronunciarsi il TAR Genova era, pertanto, quella della necessità di applicare o meno la l. 145/2018 nonché della sua compatibilità con il sovraordinato diritto eurounitario.

Nelle more della definizione di tali giudizi, interveniva però la l. 118/2022 - la nota Legge Concorrenza - con la quale, stabilito un nuovo termine finale di durata delle concessioni demaniali marittime al 31 dicembre 2023, veniva abrogata la l. 145/2018.

E così che il TAR Liguria, preso atto dell’intervenuta abrogazione della l. 145/2018, con le sentenze qui in commento, ha rilevato l’irrilevanza delle questioni che accomunavano tutti i ricorsi e ne ha dichiarato l’improcedibilità per sopravvenienza normativa.

In particolare, il TAR Liguria in una delle 51 sentenze, (vedi link sotto),  si è così pronunciato: “Deve necessariamente rilevarsi, dunque, l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, correlata al verificarsi di una situazione di diritto del tutto nuova e sostitutiva rispetto a quella esistente al momento della proposizione del ricorso, tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della sentenza, in quanto il ricorrente non potrebbe comunque ottenere il bene della vita richiesto (cfr. Cons. di Stato, VI, 2.8.2021, n. 5705; id., VI, 8 aprile 2020, n. 2325; id., III, 13.7.2011, n. 4229), ovvero l’estensione dell’efficacia della c.d.m. al 31.12.2033”.

Il TAR ligure, poi, si è interrogato anche sull’eventuale rilevanza che avrebbe potuto avere, nel caso di specie, l’attuale pendenza alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea della questione pregiudiziale sollevata dal TAR Lecce. Si rammenta, al riguardo, che il TAR Puglia ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per decidere su ben 9 quesiti relativi – il n. 1 – alla validità o meno della Direttiva 2006/123 e - i restanti dal n. 2 al n. 9 - all’interpretazione del diritto unionale (TAR Puglia, Lecce, Ord. 11.5.2022, n.  743).

Ebbene, il TAR Genova non ha dubbi: “quale che sia la decisione eventualmente adottata dalla CGUE sui quesiti proposti, la stessa potrebbe incidere - al più – sugli atti amministrativi adottati sulla base della normativa nazionale abrogata (legge n. 145/2018), ma giammai sulla sopravvenuta legislazione italiana e sui conseguenti – e vincolanti – provvedimenti ad essa consequenziali”.

Infine il collegio, nel motivare l’improcedibilità dei ricorsi, individua implicitamente anche un possibile futuro percorso di tutela degli interessi per i concessionari uscenti.

Chiarisce che l’art. 3 della legge 5 agosto 2022, n. 118, integra propriamente una legge-provvedimento, in quanto esso non disciplina in via astratta e generale lo statuto di tutte le future concessioni demaniali marittime, ma dispone in concreto su casi e rapporti – ancorché numerosi - specifici e determinati, ovvero su tutte le concessioni demaniali marittime in essere alla data di entrata in vigore della legge (27.8.2022) sulla base di proroghe o rinnovi disposti anche ai sensi della l. 145/2018.

Ora, per giurisprudenza consolidata, in caso di sopravvenuta legge-provvedimento il ricorso proposto contro l'originario atto amministrativo deve essere dichiarato improcedibile, ma l’interessato che si sente in qualche modo leso da tale legge-provvedimento può impugnare innanzi al giudice amministrativo gli eventuali atti esecutivi della legge provvedimento.

Come correttamente rilevato dal TAR, nel caso di specie, gli atti esecutivi non sono stati ancora adottati.

Ricordiamo a tal proposito che il governo ha tempo fino a febbraio 2023 per emanare i decreti attuativi previsti dalla Legge Concorrenza.

Dalla loro adozione dipendono dunque le sorti dei concessionari uscenti, ma anche di coloro i quali sono interessati ad investire nel settore delle concessioni demaniali marittime.

Concludendo, dunque, le pronunce del TAR Genova evidenziano ancora di più la necessità di un celere intervento statale.

Lo stato di confusione e di incertezza che aleggia intorno al settore delle concessioni demaniali marittime, che di fatto impedisce di programmare il futuro della attività, non giova a nessuno.

(TAR Liguria Genova, Sez. I, 2.1.2023, n. 1)


sopralluogo

Qual è la funzione delle dichiarazioni dell’appaltatore rese in sede di sopralluogo?

Le dichiarazioni rese dall’appaltatore all’esito del sopralluogo svolgono la funzione di assicurare che l’aggiudicatario prenda precisa conoscenza dei luoghi su cui eseguire i lavori e delle condizioni che possano influire sulla corretta esecuzione dei lavori.

Pertanto, “le criticità riscontrate nel montaggio/smontaggio rientrano pertanto nel generico rischio di impresa, e se delle stesse l’appaltatore ne è divenuto consapevole solo all’atto della concreta messa in opera non è circostanza imputabile alla stazione appaltante”.

Ciò è quanto affermato dalla Corte d’appello di Bari, che nel confermare la sentenza resa dal Tribunale di Foggia, ha rigettato l’appello proposto dall’appaltatore perché “salvo che si voglia attribuire al verbale di consegna lavori un valore meramente formale, emerge come il sig. [alias l’appaltatore] avesse concretamente maturato la convinzione di poter procedere alla fornitura e messa in opera di quanto oggetto dell’appalto, prendendo visione dei luoghi su cui eseguire i lavori e considerando come criticità unicamente la continuità cromatica e la resistenza allo shock termico”.

Il caso specifico

La Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Foggia affidava un appalto per la fornitura e posa in opera di lastre in vetro poste a copertura della biblioteca.

A seguito di sopralluogo sul luogo di esecuzione, l’appaltatore dichiarava “di non avere difficoltà o dubbiezza, di essere perfettamente edotto di tutti i suoi obblighi e di accettare, con il presente atto, la formale consegna per l’oggetto suindicato, senza sollevare alcuna eccezione o riserva”. Venivano, tuttavia, espresse delle perplessità in ordine alla continuità cromatica delle vetrate ed alla loro resistenza allo shock termico.

Senonchè, in corso d’opera e dopo aver ricevuto due acconti, l’appaltatore contestava alla committente le modalità di esecuzione dell’appalto, sospendendo l’esecuzione.

Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. la committente conveniva in giudizio l’appaltatore affinchè venisse dichiarata la risoluzione del contratto di appalto per colpa dell’appaltatore che, in corso d’opera, aveva sollevato delle contestazioni che avrebbe dovuto (e potuto) formulare in sede di sopralluogo.

Costituitosi in giudizio, l’appaltatore si difendeva sostenendo che lo stato dei luoghi non era specificato e descritto nel contratto di appalto.

Il Tribunale di Foggia, accolta la tesi della committente, riteneva la mancata esecuzione dei lavori imputabile integralmente all’appaltatore.

Avverso la sentenza di primo grado veniva proposto gravame dall’appaltatore, il quale sosteneva che non vi era stato alcun inadempimento da parte sua, ma solo la presa d’atto della impossibilità di eseguire dei lavori come commissionati. Censurava poi la sentenza sotto il profilo delle prove perché il giudice di primo grado avrebbe immotivatamente rigettato la richiesta di prova dell’appaltatore, ritenendo di potere decidere sulla base della sola documentazione. Reiterava, dunque, la richiesta di ammissione di prova testimoniale ai sensi dell’art. 356 c.p.c.

La decisione

La Corte d’appello di Bari, con la pronuncia in commento, nel rigettare l’appello ha confermato in toto la sentenza resa dal giudice di primo grado.

Preliminarmente, un breve cenno merita la decisione della Corte di ritenere non ammissibile la richiesta istruttoria. A tal fine, occorre premettere che le richieste istruttorie, non ammesse dal giudice, devono essere reiterate in modo specifico, diversamente si intende che la parte vi ha rinunciato. Su tali premesse, il giudice dell’appello ha ritenuto non ammissibile la richiesta istruttoria formulata dalla parte in quanto, in primo grado, tale richiesta non era stata reiterata in modo specifico.

Nel merito, ricostruito il quadro normativo di riferimento e, in particolare, richiamati gli artt. 1655 e ss del Codice civile, la Corte ha evidenziato che “[…] ove la società appellante avesse agito con maggiore diligenza, avrebbe potuto rendersi conto delle condizioni della struttura sulla quale avrebbe dovuto essere eseguito il montaggio, formulando differentemente la propria offerta o formalizzando altre riserve all’atto della consegna dei lavori”.

Per la Corte d’appello di Bari, dunque, le criticità riscontrate in corso d’opera rientrano nel generico rischio d’impresa, e se delle stesse l’appaltatore ne è divenuto consapevole solo all’atto della concreta messa in opera non è circostanza imputabile alla stazione appaltante.

Tale principio vale in ragione della situazione apparente del sito. Il sopralluogo, infatti, non presuppone indagini tecniche, prelievi e/o saggi. Pertanto, la dichiarazione si limita per sua natura a quanto appare sul sito.

(Corte App. Bari, Sez. II, 16.11.2022, n. 1672)