caducazione automatica

Appalti pubblici: l'annullamento dell’aggiudicazione non comporta la caducazione automatica del contratto

Il TAR Napoli, con la sentenza n. 2254/2023, dando seguito all’orientamento maggioritario della giurisprudenza, secondo il quale la caducazione automatica del contratto a seguito dell’annullamento giurisdizionale della aggiudicazione è venuta meno con l’entrata in vigore degli artt. 121 e 122 c.p.a., ha affermato che la PA dopo l’annullamento giurisdizionale della aggiudicazione, ha il potere di valutare se sia opportuno o meno procedere alla risoluzione del contratto.

Il caso specifico

Con l’atto introduttivo del giudizio, l’impresa ricorrente ha censurato l’illegittimità del provvedimento adottato dalla SA con cui è stata dichiarata l’inefficacia del contratto stipulato a seguito di un’aggiudicazione annullata in sede giurisdizionale.

Per la società ricorrente il provvedimento è viziato perché l’inefficacia del contratto è stata dichiarata dalla SA, sull’assunzione dell’errato presupposto di diritto che all’annullamento dell’aggiudicazione consegue ipso iure la nullità del contratto.

Per la ricorrente, il provvedimento è altresì viziato sotto il profilo del difetto di motivazione, in quanto la SA non si sarebbe espressa in ordine all’interesse pubblico attuale e concreto allo scioglimento del contratto.

La decisione del TAR

Il TAR, non ritenendo condivisibili gli argomenti della ricorrente, ha rigettato il ricorso.

Preliminarmente, il Collegio si è soffermato sulla questione della giurisdizione e, riconoscendo l’appartenenza alla giurisdizione del giudice amministrativo, ha precisato che l’aver stipulato il contratto non determina per ciò solo lo spostamento della giurisdizione se lo scioglimento del vincolo contrattuale non è conseguito a vizi propri del contratto e, men che meno, al mancato adempimento di prestazioni che sono oggetto delle obbligazioni convenute in contratto a carico delle parti contraenti.

Nel merito, il TAR Napoli ha osservato che, in relazione alla questione della sorte del contratto in seguito all’annullamento della aggiudicazione da parte del giudice, si registrano in giurisprudenza diversi orientamenti:

  • un primo orientamento ritiene che dovrebbero ritenersi automaticamente caducati gli atti, amministrativi e negoziali, posti in essere dall’amministrazione in esecuzione della sentenza di primo grado;
  • quello maggioritario ritiene che la caducazione automatica del contratto a seguito dell’annullamento giurisdizionale della aggiudicazione sia venuta meno, conseguentemente all’entrata in vigore degli artt. 121 e 122 c.p.a., occorrendo comunque una pronuncia del giudice di inefficacia;
  • un altro orientamento ritiene che la parte che abbia ottenuto l’annullamento dell’aggiudicazione dovrebbe poi proporre domanda al giudice ordinario per ottenere la declaratoria di sopravvenuta inefficacia del contratto;
  • secondo un ulteriore orientamento, che è quello sposato dal TAR Napoli, si esclude che all’annullamento dell’aggiudicazione in mancanza di espressa decisione del giudice, possa conseguire la caducazione automatica del contratto che dunque rimarrebbe in vita, fatte salve le determinazioni assunte dall’amministrazione in conseguenza dell’annullamento degli atti di gara;
  • da ultimo, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto possibile disporre, in sede di ottemperanza, la caducazione del contratto d’appalto su ricorso proposto dalla parte vincitrice contenente domanda di subentro in ragione dell’inerzia tenuta dall’amministrazione.

Come anticipato, il TAR Napoli ha ritenuto di condividere l’orientamento secondo cui nel caso in cui sia stata giudizialmente annullata l’aggiudicazione e il giudice non si sia pronunciato sulla efficacia del contratto, non è ammissibile la caducazione automatica di quest’ultimo ma è l’amministrazione, che non può rimanere inerte, a dover assumere le determinazioni necessarie.

In tal senso, la giurisprudenza si è già pronunciata, affermando che: “la stazione appaltante … è tenuta a valutare se, alla luce delle ragioni che hanno determinato l’annullamento dell’aggiudicazione, permangano o meno le condizioni per la continuazione del rapporto contrattuale in essere con l’operatore economico (illegittimo) aggiudicatario, ovvero se non risponda maggiormente all’interesse pubblico, risolvere il contratto e indire una nuova procedura di gara (in applicazione del potere riconosciuto ora dall’art. 108, comma 1 d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50; cfr. Cons. Stato, sez. IV 5 maggio 2016, n. 1798)”.

In questo contesto, - ritiene il TAR Napoli -, il richiamo all’art. 108, comma 1 del d.lgs. 50/2016 appare dirimente, in quanto detto articolo fa riferimento ad ipotesi di risoluzione del contratto dovute a vizi della fase dell’evidenza pubblica o alla necessità di una rinnovazione della gara (per superamento delle soglie o modifica sostanziale del contratto), tanto che esso è stato ricondotto dalla giurisprudenza nell’ambito dell’esercizio dell’autotutela decisoria trattandosi di decisione assunta sulla base del migliore perseguimento dell’interesse pubblico, e di conseguenza nella giurisdizione amministrazione, ancorché la “risoluzione” intervenga in corso di esecuzione del contratto.

In conclusione, secondo il Collegio “deve riconoscersi un potere dell’amministrazione, vuoi fondato sui generali principi dell’autotutela amministrativa, vuoi sull’espressa previsione dell’art. 108 del codice dei contratti, di incidere unilateralmente sulla efficacia del contratto per ragioni riconducibili ai vizi della fare della evidenza pubblica”, come è certamente il caso dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione.

TAR Campania Napoli, Sez. II, 13.4.2023, n. 2254

 


appalti pubblici

Appalti pubblici, consegna lavori d'urgenza e rinuncia al contratto per mancato adeguamento dei prezzi: si può fare!

adeguamento dei prezziIn materia di appalti pubblici, è possibile rinunciare alla stipula del contratto per mancato adeguamento dei prezzi in caso di consegna d’urgenza dei lavori.

Decorsi i termini di vincolatività dell’offerta e a seguito della richiesta di adeguamento dei prezzi del contratto non ancora stipulato, la pubblica amministrazione deve valutare la sussistenza dei presupposti per accordare all’operatore economico la modifica dei prezzi.

Secondo la recente pronuncia del TAR Friuli Venezia Giulia n. 155/2023, infatti, ove l’amministrazione ritenga che non possa darsi luogo all’adeguamento dei prezzi, deve limitarsi a prendere atto della volontà manifestata dall’aggiudicataria di non stipulare il contratto alle condizioni originarie, senza porre in essere atti pregiudizievoli per l’operatore.

In un simile contesto, secondo i giudici, resta priva di rilevanza l’eventuale consegna d’urgenza dei lavori che, dunque, non comporta la tacita accettazione di tutte le condizioni contrattuali originarie, né l’assunzione di un obbligo all’esecuzione integrale delle prestazioni.

Vediamo nel dettaglio il caso sottoposto all’attenzione del TAR.

I fatti

Un comune aveva indetto una procedura negoziata per l'affidamento in appalto di lavori di restauro e riuso di un complesso edilizio, indicando quale termine finale di presentazione dell’offerta il 18 maggio 2021.
Espletate le formalità di gara, in data 13 luglio 2021 questa veniva aggiudicata ad un RTI, sebbene il relativo provvedimento di aggiudicazione fosse divenuto efficace solo in data 26 ottobre 2021, all’esito della verifica dei requisiti.

In data 29 ottobre 2021 il DL aveva proceduto ad una prima consegna parziale dei lavori “sotto le riserve di legge” che sarebbe stata sciolta dopo il perfezionamento degli atti di approvazione del contratto. Il 10 febbraio 2022 il DL aveva proceduto all’ulteriore consegna dei lavori in via d'urgenza, con la medesima precisazione.

Nell’aprile 2022 la società, resasi conto dell’aumento dei costi esponenziali che continuava a subire in attesa del perfezionamento del contratto, aveva inviato al DL una diffida con cui richiedeva la sospensione lavori e la redazione di una perizia di variante. A tale diffida non faceva seguito alcun riscontro da parte del Comune.

In data 26 agosto 2022 il Comune procedeva finalmente a convocare la società per la firma del contratto prevista per il giorno 7 settembre 2022. Prontamente l’impresa riscontrava il Comune rappresentando la necessità di adeguare le condizioni contrattuali prima della stipulazione del contratto, comunicando, in difetto, di rinunciare alla stipula del contratto.

Nonostante i successivi solleciti, il Comune non riscontrava la richiesta, sicché l’impresa in data 4 ottobre 2022, formalizzava, in via definitiva, la rinuncia alla stipula del contratto.
In data 10 novembre 2022, il RUP rappresentava alla società l’impossibilità, a suo dire, di procedere con una modifica del contratto prima della sua stipula e che, in ogni caso, le esigenze “economiche” dell’impresa potevano essere adeguatamente tutelate tramite i meccanismi di cui all’art. 26 del d.l. 50/2022 (c.d. decreto Aiuti).

Contestualmente, il RUP informava l’impresa che erano in corso delle valutazioni sulle azioni da disporre a tutela della stazione appaltante, in considerazione anche del fatto che il termine di fine lavori sarebbe scaduto in data 7 ottobre 2022, ossia dopo che l’impresa aveva formalizzato la propria rinuncia alla stipula, per cui – a parere dell’Amministrazione- tale comportamento concretizzava l’ipotesi di grave inadempimento e grave ritardo.

Prontamente l’impresa replicava che l’intervenuta consegna dei lavori in via d’urgenza non esimeva l’Amministrazione dal dare corso alla stipulazione del contratto entro il termine di 60 giorni, di cui all’art. 32, comma 8, d.lgs. 50/2016; termine decorso il quale l’aggiudicatario può liberamente sciogliersi dal vincolo, ove ritenesse non più conveniente proseguire con il rapporto.

Precisava infatti l’impresa che per un verso, l’immissione nell’area di cantiere dell’appaltatore era avvenuta quando ancora non era decorso il termine di 60 giorni, né quello di 180 giorni di validità dell’offerta, con la conseguenza che l’impresa non avrebbe potuto in alcun modo sottrarsi all’esecuzione delle opere provvisionali ordinata in quel frangente; per altro verso, che la normativa contempla espressamente l’ipotesi che la consegna dei lavori in via d’urgenza non sia seguita dalla stipulazione del contratto d’appalto, prevedendo, in tal caso, che l’aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione dei lavori ordinati dal direttore dei lavori (art. 32, comma 8, d.lgs. 50/2016).

In altri termini, spiegava l’impresa “la consegna in via d’urgenza non può essere concepita alla stregua di uno strumento mediante il quale si finisca per “sterilizzare” l’obbligo della stazione appaltante di addivenire alla stipulazione del contratto entro il termine di 60 giorni dall’aggiudicazione efficace; né, per identiche ragioni, essa può inibire l’impresa dall’esercizio del proprio diritto di svincolarsi da un rapporto che non sia tempestivamente approdato alla sua fisiologica dimensione contrattuale”.

Ciononostante, il Comune procedeva alla revoca in autotutela dell’aggiudicazione dei lavori disposta dal Comune ai sensi dell’art. 32, comma 8, del d. lgs. 50/2016, in danno dell’operatore economico, con conseguente escussione della polizza e segnalazione all’ANAC.

Il parere dei giudici

Il TAR Friuli ha accolto il ricorso.

Dirimente, secondo i giudici, è il dato per cui alla data del 7 settembre 2022, fissata dal Comune per la stipula del contratto d’appalto, erano già ampiamente decorsi tanto il termine di cui all’art. 32, comma 4, del d.lgs. 50/2016 (“L'offerta è vincolante per il periodo indicato nel bando o nell'invito e, in caso di mancata indicazione, per centottanta giorni dalla scadenza del termine per la sua presentazione”), quanto quello di cui al successivo comma 8 (“Divenuta efficace l'aggiudicazione, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione deve avere luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell'invito ad offrire, ovvero l'ipotesi di differimento espressamente concordata con l'aggiudicatario, purché comunque giustificata dall'interesse alla sollecita esecuzione del contratto. (…) Se la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato, l'aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto”), senza che la stazione appaltante avesse mai chiesto agli offerenti o concordato con gli stessi il loro differimento.

Sicché, secondo i giudici, l’impresa ricorrente ha esercitato una legittima facoltà ad ella spettante: a fronte del rifiuto dell’Amministrazione di procedere a riequilibrare le condizioni economiche dell’istaurando rapporto contrattuale, e non essendo più vincolante l’offerta presentata, l’impresa ha legittimamente manifestato la volontà di rinunciare alla stipula del contratto; di contro, al Comune residuava unicamente la possibilità di valutare “la sussistenza dei presupposti di pubblico interesse per accordare alla ricorrente l’invocata rimodulazione dei prezzi contrattuali”.

Precisa il TAR che ove il Comune avesse ritenuto (come, di fatto, ha ritenuto) che non vi fossero margini per procedere all’adeguamento dei prezzi contrattuali “altro non avrebbe potuto/dovuto fare che prendere lealmente atto della volontà legittimamente manifestata dall’aggiudicataria e, poi, assumere le conseguenti determinazioni per assicurare, se ancora di suo interesse, la realizzazione dei lavori che qui vengono in rilievo”.

Quanto alla consegna dei lavori, invece, i giudici hanno precisato che alla ricorrente non erano mai stati consegnati i lavori, in via definitiva e nella loro totalità, ma sempre e solo una consegna parziale la quale non può “costituire vincolo incondizionato per l’aggiudicataria alla stipula del contratto, viepiù laddove, come nella fattispecie in esame, la stipula stessa venga richiesta ad offerta non più vincolante e ampiamente oltre il termine di 60 (sessanta) giorni dall’efficacia dell’aggiudicazione. Né, tanto meno, può costituire vincolo per l’aggiudicataria all’esecuzione dei lavori nella loro interezza, essendo evidente che nessuno può essere tenuto ad eseguire lavori per la cui esecuzione non è stato mai autorizzato, né tanto meno essere ritenuto responsabile se non l’ha fatto”.

A confermare ciò, secondo i giudici, sarebbe la stessa formulazione dell’art. 32, comma 8, del d.lgs. 50/2016, il quale rende palese come la consegna in via d’urgenza sia un istituto autonomo e distinto rispetto alle vicende che possono condizionare le sorti del contratto.

Del pari, le misure previste dal legislatore per gestire il fenomeno dell’aumento dei prezzi e, segnatamente, il meccanismo previsto dall’art. 26 del d.l. 50/2022 (c.d. decreto aiuti) non possono comportare l’accettazione incondizionata del contratto atteso che si tratta “di strumenti che prevedono (…)l’accesso a fondi limitati e sono destinati ad assolvere a necessità impreviste e sopravvenute nel corso dell’esecuzione del contratto (Cons. Stato, Sez. V, 11.1.2022, n. 202)” (T.A.R. Toscana, sez. I, 4 luglio 2022, n. 885)”.

TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 17.4.2023 n. 155


ssuu

Intervento nomofilattico delle SSUU del decreto ingiuntivo non opposto.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con una recente sentenza dello scorso 6 aprile, hanno affrontato il delicato tema del superamento del giudicato del decreto ingiuntivo non opposto, in ossequio al principio di effettività della tutela del consumatore, alla luce della direttiva 93/13 e dell’art. 19 del TUE.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, chiamate a pronunciarsi sulla sorte dell’opposizione all’esecuzione proposta dal consumatore che, non avendo opposto il decreto ingiuntivo nei termini, ha eccepito, per la prima volta dinanzi al Giudice dell’Esecuzione, l’abusività delle clausole del contratto in base al quale era stato emesso il decreto ingiuntivo, hanno affermato che il Giudice del monitorio è tenuto a compiere d’ufficio il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore e che qualora tale verifica non sia stata effettuata, l’eventuale abusività delle clausole contrattuali potrà essere accertata in fase esecutiva.

Il caso specifico.

La questione giunta all’attenzione della Suprema corte prende avvio dall’emissione di un decreto ingiuntivo reso in favore di un professionista che sulla base del titolo esecutivo non opposto, è intervenuto in una procedura immobiliare già pendente nei confronti del consumatore debitore.

In sede di procedura esecutiva, dopo che il giudice aveva depositato il progetto di distribuzione della somma ricavata dalla vendita del complesso immobiliare, il debitore consumatore si è opposto adducendo l’insussistenza del diritto di credito in ragione della nullità del decreto ingiuntivo perché emesso da un giudice territorialmente incompetente.

L’opposizione all’esecuzione è stata, però, rigettata dall’adito Tribunale.

Il debitore consumatore ha, quindi, proposto, ricorso straordinario dinanzi la Corte di cassazione, eccependo la violazione e/o l’errata interpretazione della direttiva 93/13 e dell’art. 19 del TUE, con riferimento al principio dell’effettività della tutela del consumatore, mettendo in discussione l’impossibilità, a fronte di un decreto ingiuntivo non opposto, sia di un secondo controllo, sia di una successiva tutela, una volta spirito il termine per proporre opposizione nei confronti del decreto ingiuntivo.

I principi di diritto.

Esaminata la controversa questione, nonostante la rinuncia al ricorso per cassazione, la Suprema Corte ha ritenuto di doversi soffermare su una questione di particolare importanza e di enunciare, nell’interesse della legge, principi di diritto, al fine di dare il necessario seguito ai dicta della CGUE pronunciati da ultimo con la sentenza n. 693/19 del 17 maggio 2022.

Occorre premettere, che, in tema di tutela del consumatore, la CGUE ha chiarito che gli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993, relativi alle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, “…devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa -per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità -successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole”.

Per la CGUE, costringere il consumatore a proporre l’opposizione per far valere i propri diritti si pone in contrasto con lo stesso principio del rilievo d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali che anche nell’ambito del procedimento monitorio è funzionale all’effettività della tutela del consumatore sotto il profilo della non vincolatività delle clausole medesime, ai sensi dell’art. 6, par. 1, del consumatore.

Secondo la giurisprudenza della CGUE (tra le altre: le sentenze Pannon, Banco Espanol de Credito, Aziz, Profi Credit Polska; le sentenze: 9.11.2020, in C-137/08, VB Penzugyi Lizing; 11.3.2020,in C-511/17, Lintner; 4.6.2020, in C-495/19,  Kancelaria Medius; 30.6.2022,  in C- 170/21, Profi Credit Bulgaria), il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, connessa all’oggetto della controversia, purché gli elementi di diritto e di fatto già in suo possesso, suscitino seri dubbi a riguardo, dovendo quindi, adottare d’ufficio misure istruttorie necessarie per completare il fascicolo, chiedendo alle parti di fornirgli informazioni aggiuntive a tale scopo.

Su tali indicazioni europee, armonizzate alla normativa nazionale, la Corte di cassazione ha enunciato i seguenti principi diritto:

Il giudice del monitorio:

  1. deve svolgere, d’ufficio, il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore in relazione all’oggetto della controversia;
  2. a tal fine procede in base agli elementi di fatto e di diritto in suo possesso, integrabili, ai sensi dell’art. 640 c.p.c., con il potere istruttorio d’ufficio, da esercitarsi in armonia con la struttura e funzione del procedimento d’ingiunzione:

b.1.) potrà, quindi, chiedere al ricorrente di produrre il contratto e di fornire gli eventuali chiarimenti necessari anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore;

b.2) ove l’accertamento si presenti complesso, non potendo egli far ricorso ad un’istruttoria eccedente la funzione e la finalità del procedimento (ad es. disporre c.t.u.), dovrà rigettare l’istanza d’ingiunzione;

  1. c) all’esito del controllo:

c.1) se rileva l’abusività della clausola, ne trarrà le conseguenze in ordine al rigetto o all’accoglimento parziale del ricorso;

c.2) se, invece, il controllo sull’abusività delle clausole incidenti sul credito azionato in via monitoria desse esito negativo, pronuncerà decreto motivato, ai sensi dell’art. 641 c.p.c., anche in relazione alla anzidetta effettuata delibazione;

c.3) il decreto ingiuntivo conterrà l’avvertimento indicato dall’art. 641 c.p.c., nonché l’espresso avvertimento che in mancanza di opposizione il debitore-consumatore non potrà più far valere l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e il decreto non opposto diventerà irrevocabile.

Il giudice dell’esecuzione:

  1. a) in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, ha il dovere – da esercitarsi sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito - di controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull’esistenza e/o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo;
  2. b) ove tale controllo non sia possibile in base agli elementi di diritto e fatto già in atti, dovrà provvedere, nelle forme proprie del processo esecutivo, ad una sommaria istruttoria funzionale a tal fine;
  3. c) dell’esito di tale controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole – sia positivo, che negativo - informerà le parti e avviserà il debitore esecutato che entro 40 giorni può proporre opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c. per fare accertare (solo ed esclusivamente) l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo;
  4. d) fino alle determinazioni del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c., non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito;

(ulteriori evenienze)

  1. e) se il debitore ha proposto opposizione all’esecuzione ex art. 615, primo comma, c.p.c., al fine di far valere l’abusività delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto, il giudice adito la riqualificherà in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa (translatio iudicii);
  2. f) se il debitore ha proposto un’opposizione esecutiva per far valere l’abusività di una clausola, il giudice darà termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva - se del caso rilevando l’abusività di altra clausola – e non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del giudice dell’opposizione tardiva sull’istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore.

Il giudice dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.:

  1. una volta investito dell’opposizione (solo ed esclusivamente sul profilo di abusività delle clausole contrattuali), avrà il potere di sospendere, ex art. 649 c.p.c., l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, in tutto o in parte, a seconda degli effetti che l’accertamento sull’abusività delle clausole potrebbe comportare sul titolo giudiziale;
  2. procederà, quindi, secondo le forme di rito.

 

Cass. civ. SSUU, sentenza 6 aprile 2023, n. 9479


corte di giustizia

La Corte di giustizia sulle concessioni demaniali: la proroga del titolo concessorio deve essere disapplicata dai giudici nazionali e dalle autorità amministrative, comprese quelle comunali.

La Corte di giustizia, con la sentenza del 20 aprile 2023 resa nella causa C-348/22, ha definitivamente chiuso ogni partita possibile in tema di concessioni demaniali marittime.

Dopo aver esaminato le questioni pregiudiziali formulate, in sede di rinvio, dal TAR Puglia, sede di Lecce, la Corte di giustizia ha affermato che i giudici nazionali e le autorità amministrative, comprese quelle comunali, debbano applicare le norme pertinenti di diritto dell’Unione, disapplicando le disposizioni di diritto nazionale non conformi alle stesse.

Con la pronuncia in commento è stata definitivamente messa una pietra sopra ad ogni ulteriore possibilità di sostenere che sia esclusa l’applicabilità della direttiva Bolkestein al settore delle concessioni balneari.

Per la Corte di Giustizia, infatti, la direttiva 2006/123 è perfettamente valida, in quanto correttamente adottata con la maggioranza necessaria; la stessa, inoltre, deve applicarsi alle concessioni di occupazione del demanio marittimo anche quando non presentino un interesse transfrontaliero certo, ma meramente interno.

Gli obblighi contenuti nella Bolkestein, inoltre, devono ritenersi enunciati in modo incondizionato e sufficientemente preciso, sicché gli stessi sono immediatamente produttivi di effetti diretti. Ne consegue che l’obbligo di disapplicare le disposizioni nazionali anticomunitarie incombe non solo in capo ai giudici, ma pure in capo alle autorità amministrative, ivi comprese quelle comunali.

Un punto importante, inoltre, è quello relativo alla valutazione della scarsità delle risorse naturali e delle concessioni disponibili: l’art. 12 della direttiva Bolkestein, - afferma la CGUE-, deve essere interpretato nel senso che non osta a che tale valutazione avvenga combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione. Si tratta di una precisazione degna di nota dopo la sentenza Promoimpresa, nella quale invece l’accertamento sulla scarsità della risorsa era stato demandato al giudice nazionale, prescrivendo di prendere in considerazione anche il fatto che le concessioni sono rilasciate a livello comunale.

È stata ritenuta irricevibile, invece, in quanto irrilevante ai fini della decisione principale, la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità con l’art. 12 della direttiva Bolkestein dell’art. 49 del Codice della navigazione, che prevede l’automatica devoluzione, al termine del periodo concessorio, delle opere inamovibili realizzate sul demanio, senza che sia corrisposto alcun indennizzo. Sul punto, ad ogni modo, anche la VII sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza 5 settembre 2022, n. 8010, ha interpellato la Corte di Giustizia, che dunque avrà modo di pronunciarsi.

L’esito della decisione della Corte di giustizia era dai più già annunciato.

La sentenza in commento si inserisce in uno scenario normativo e giurisprudenziale, in cui l’incertezza e la confusione la fanno da padrona. Infatti, dal rinvio pregiudiziale disposto dal TAR Lecce al pronunciamento della Corte di Giustizia, la vicenda normativa delle concessioni demaniali, nel nostro ordinamento, è stata particolarmente intensa.

A soli tre mesi di distanza dal rinvio pregiudiziale disposto dal TAR Lecce, il legislatore italiano, messo anche alle strette dall’Adunanza plenaria con le ormai note sentenze nn.  17 e 18 del 2021, ha adottato la Legge 5 agosto 2022, n. 118 entrata in vigore il 27 agosto 2022, con la quale è stato individuato quale termine ultimo di validità delle concessioni vigenti il 31 dicembre 2023.

Sennonché, il sistema di riforma introdotto dalla legge Concorrenza, apparentemente improntato all’accelerazione, è stato parzialmente frenato dal c.d. decreto Milleproroghe (d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. in L. 24 febbraio 2023, n. 14) che ha previsto un generale differimento dei termini inizialmente previsti per l’attuazione della riforma delle concessioni demaniali in chiave concorrenziale, prorogando, di fatto, di un altro anno, le concessioni in essere che avrebbero dovuto cessare al 31 dicembre 2023.

Se, da un lato, però, il legislatore italiano, con il decreto Milleproroghe, ha voluto concedere maggiore tempo al Governo per dare attuazione alla riforma introdotta dalla legge Concorrenza, dall’altro, il Consiglio di Stato si è sempre contrapposto, in maniera netta, a qualsiasi proroga, anche a quella introdotta dalla legge di conversione del decreto Milleproroghe, ritenendola in contrasto con il diritto europeo.

Emblematica, in tal senso, è stata la sentenza n. 2192 del 1° marzo 2023, con la quale, a distanza di pochi giorni dalla conversione del D.L. 29 dicembre 2022, n. 198 (c.d. Milleproroghe), il Consiglio di Stato, pronunciandosi su un ricorso proposto dall’Autorità Garante della Concorrenza (AGCM) avverso una delibera di giunta comunale che aveva disposto l’estensione delle concessioni demaniali marittime fino al 2033 in base a quanto stabilito dalla L. 145/2018, ha espressamente statuito che: “sulla base di quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, con le ricordate sentenza nn. 17 e 18 del 2021, non solo i commi 682 e 683 dell’art. 1 della L. n. 145/2018, ma anche la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato”.

La sentenza del 1° marzo 2023, che ha generato grande scalpore, non è però stata l’unica, in tema di concessioni demaniali, ad esser stata pubblicata, dopo la conversione in legge del decreto Milleproroghe. Con la sentenza n. 2740 del 15 marzo 2023, la sezione settima del Consiglio di Stato, chiamata a pronunciarsi sul rigetto di un’istanza di rinnovo o proroga di una concessione di un’area boscata, ha nuovamente ribadito che alle concessioni demaniali si applicano l’art. 12 della direttiva servizi 2006/123 (ne abbiamo parlato qui).

I giudizi di Palazzo Spada, dunque, nel ribadire l’applicabilità dell’art. 12 della direttiva servizi 2006/123 alle concessioni demaniali, hanno continuato a disapplicare la proroga del titolo concessorio, di volta in volta, invocata dal concessionario uscente.

Ora, a seguito del pronunciamento della Corte di Giustizia, in tema di concessioni demaniali, sembra essere inevitabile, oltre che indifferibile, un’inversione di rotta del Governo e del Parlamento.

Ora più che mai è necessario un repentino intervento legislativo, con il quale venga assunta una posizione chiara in merito alla riforma delle concessioni demaniali marittime.

In attesa, dunque, di conoscere le prossime indicazioni che il Governo intenderà assumere, i principi espressi dalla Corte di giustizia con la decisione dello scorso 20 aprile rappresentano il faro guida per i giudici amministrativi e per le amministrazioni comunali.

CGUE, 20 aprile 2023, c-348/22


infortunio sul lavoro

Infortunio sul lavoro: in caso di subappalto il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente?

La Corte di Cassazione, con una recentissima sentenza dello scorso 3 aprile, richiamando principi già espressi in sede penale ma applicabili anche in ambito di responsabilità civile, ha chiarito che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 494/1996, in caso di subappalto, il dovere di sicurezza, gravante sul datore di lavoro, opera anche in relazione al committente.

Giunge all’attenzione della Suprema Corte una triste vicenda di infortunio sul lavoro occorsa presso un cantiere installato per la realizzazione di un forno di verniciatura.

Lo sfortunato lavoratore, mentre era intento al montaggio di moduli per la realizzazione del predetto forno (a tal fine era stata realizzata una struttura metallica di sostegno alta circa 4 metri), munito di casco, scarpe, guanti antinfortunistici e cinture di sicurezza, era salito, su una scala attrezzata per raccogliere un cavo rimasto all’interno del modulo e gettarlo in basso per le successive operazioni. Senonché, subito dopo esser entrato nel modulo posto all’altezza di circa 4 metri, cadeva, riportando lesioni da cui era poi originata la morte.

La moglie e i figli, quindi, al fine di ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla morte del proprio congiunto, convenivano, innanzi al Tribunale competente, oltre alla società datrice di lavoro anche la società committente e la sub committente. I lavori di montaggio moduli per la realizzazione di un forno di verniciatura erano stati subappaltati alla società datrice di lavoro dello sfortunato lavoratore dalla società sub-committente.

Su tali premesse, gli originari attori deducevano un obbligo di vigilanza a carico della committente e della sub-committente, prospettando, altresì, una responsabilità della committente per la mancata verifica della concreta attuazione del piano di sicurezza e coordinamento (PSC). Era emersa, infatti, una discrepanza tra il suddetto piano e il piano operativo di sicurezza (POS) predisposto dal subappaltatore. Per il PSC era necessario che vi fosse idonea impalcatura o ponteggio o altra misura che consentisse l’aggancio di funi ovvero di cinture di sicurezza, mentre il POS prevedeva solo funi disposte a croce, a modo di protezione.

Il Tribunale adito, rigettava, tuttavia, la domanda, con pronuncia confermata anche dal giudice di secondo grado, ritenendo che non era stata dimostrata un’ingerenza della committente e della sub-committente tale da comprimere il ruolo autonomo del subappaltatore nella causazione del tragico evento.

Impugnata la sentenza della Corte d’Appello, i ricorrenti rilevavano l’erroneità della sentenza nella parte in cui non era stato considerato che la discrepanza tra i due piani era immediatamente percepibile dai due committenti, non era stato ritenuto applicabile il d.lgs. 494/1996, dal quale emergeva la posizione di garanzia del committente e, infine, nella parte in cui non era stato considerato che era risultata la specifica assunzione da parte della sub-committente di cooperare con le ditte subappaltatrici perché venissero attuate le idonee misure di prevenzione e sicurezza.

La Corte di Cassazione, esaminati i motivi, ha ritenuto il ricorso fondato.

Richiamando principi già espressi in sede penale, la Suprema Corte ha chiarito che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 494/1996, in caso di subappalto, il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente.

Tuttavia, ha precisato la Corte, dal committente non può esigersi un controllo pressante continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori.

Ne consegue, pertanto, che ai fini della configurazione della responsabilità del committente, occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché all’agevole e immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo.

Sulla base di tali premesse ermeneutiche la Suprema corte ha ritenuto che l’omessa richiesta di allineamento dei due piani (PSC e POS) da parte delle committenti, nonostante la discrasia fosse facilmente evincibile, perché documentale, avrebbe dovuto essere approfondita dal giudice di merito.

Il giudice di appello avrebbe dovuto verificare se l’omessa richiesta di allineamento dei due piani in funzione della più idonea sicurezza sia stata condotta omissiva tale che abbia causalmente contribuito in chiave probabilistica all’evento, consistito proprio in una caduta per omesso fermo delle indossate cinture di sicurezza.

(Cass. civ. Sez. III, ord. 3.4.2023, n. 9178)

 

 


rotazione

Principio di rotazione: analisi della recente giurisprudenza alla luce anche del nuovo codice dei contratti pubblici.

La sentenza n. 98 del 2023 del TAR Toscana offre un ottimo spunto per ribadire l’ormai consolidato orientamento del Consiglio di stato sulle ipotesi derogatorie del principio di rotazione nonché per analizzare le novità introdotte dallo schema del nuovo codice dei contratti pubblici che, al principio di rotazione, dedica un intero articolo.

Il principio di rotazione, di derivazione interna e non comunitaria, è stato introdotto nel nostro ordinamento al fine di tutelare le micro, piccole e medie imprese.

Il principio di rotazione è sempre stato al centro di numerosi dibattiti. La giurisprudenza amministrativa, infatti, si è spesso trovata a dover pronunciare sulla corretta applicazione dell’istituto e/o sulle possibili ipotesi derogatorie.

Nella fattispecie concreta giunta all’attenzione del TAR Toscana, il ricorrente ha censurato il comportamento della stazione appaltante che aveva avviato una ricerca di mercato preliminare ufficiosa tra sette imprese selezionate dalla stazione appaltante, in deroga al principio di rotazione.

Tale deroga, a detta della stazione appaltante, trovava giustificazione nel fatto che la ditta uscente aveva svolto il servizio in modo diligente, professionale e affidabile e che il mercato in esame era costituito da un numero limitato di prodotti.

Il TAR Toscana, nell’accogliere il ricorso, ha evidenziato come il generico riferimento, nella determinazione della stazione appaltante, al fatto che il gestore uscente aveva svolto il servizio in modo diligente, professionale e affidabile, sia insufficiente a giustificare la deroga.

In particolare, il TAR Toscana ha evidenziato che per derogarsi al principio di rotazione è necessario che nella motivazione si faccia riferimento al numero eventualmente circoscritto e non adeguato  di operatori presenti sul mercato,  al particolare e difficilmente replicabile grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero al peculiare oggetto e alle specifiche caratteristiche del mercato di riferimento (Cons. St. sez. V 3.4.2018, n. 2079; Cons. St. sez. IV, 31.8.2017, n. 4125).

La sentenza in commento si inserisce perfettamente nel solco di un filone giurisprudenziale (Cons. St., sez. V, 17.3.2021, n. 2292; Cons. St. Sez. V, 31.3.2020, n. 2182) ormai consolidato secondo cui “il principio di rotazione non è regola preclusiva (all’invio del gestore uscente e al conseguente suo rinnovato affidamento del servizio) senza eccezione, potendo l’amministrazione derogarvi fornendo adeguata, puntuale e rigorosa motivazione delle ragioni che l’hanno a ciò indotta”.

Tali principi sono confluiti nell’art. 49 dello schema del nuovo codice dei contratti pubblici, che è interamente dedicato al principio di rotazione, il che rappresenta di per sé già una grande novità. Infatti, il codice dei contratti pubblici vigente richiama il principio di rotazione solo al comma 1 dell’art. 36, imponendo il rispetto del principio di rotazione degli inviti. Per il resto, la disciplina del principio di rotazione è contenuta nelle Linee guida ANAC n. 4.

L’art. 49 riprende, in parte, le previsioni di cui alle citate Linee guida, innovando tuttavia su taluni profili significativi, in relazione ai quali si è ritenuto di calibrare diversamente l’operatività del principio, precisandone la portata con riferimento ad ambiti rivelatisi critici.

Le principali novità introdotte dallo schema del nuovo codice dei contratti pubblici sono:

  • in caso di procedura negoziata il principio di rotazione comporta il divieto di invito a procedure dirette all’assegnazione di un appalto nei confronti del contraente uscente (comma 2). La rotazione si ha, quindi, solo a carico del soggetto che abbia conseguito la precedente aggiudicazione, escludendo, invece, dal divieto coloro che erano stati soltanto invitati alla precedente procedura negoziata, senza conseguire poi l’aggiudicazione.
  • in casi debitamente motivati con riferimento alla particolare struttura del mercato e alla riscontrata effettiva assenza di alternative, nonché di accurata esecuzione del precedente contratto l’esecutore uscente può essere reinvitato o essere individuato quale affidatario diretto (comma 4).
  • è consentito derogare alla rotazione per gli affidamenti diretti di importo inferiore a 5.000 euro (comma 6).

TAR Toscana, Sez. I, 31.1.2023, n. 98


inquinamento

Danno alla salute da inquinamento atmosferico: è competente il giudice ordinario.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con una recente sentenza, hanno ritenuto il giudice ordinario competente in materia di richiesta di risarcimento del danno alla salute da inquinamento atmosferico.

La Corte di Cassazione, pronunciandosi sul ricorso di un cittadino milanese che agiva, nei confronti del Comune di Milano e della Regione Lombardia, per ottenere il risarcimento dei danni subiti per il mancato rispetto dei limiti di inquinamento, ha offerto un’analisi puntuale sul riparto di giurisdizione in materia di danno ambientale.

Il caso specifico.

Un cittadino milanese ha adito il Tribunale ordinario di Milano al fine di ottenere la condanna dell’amministrazione locale e regionale al risarcimento dei danni subiti a causa del mancato rispetto dei limiti fissati dal d.lgs. 13 agosto 2010 n. 155, a tutela della salute umana. A sostegno della domanda, ha dedotto che il superamento di detti limiti gli aveva causato una serie di patologie respiratorie.

Senonché, il Tribunale Ordinario di Milano ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice amministrativo, evidenziando che la giurisdizione del giudice amministrativo derivava dal fatto che nel caso di specie l’attore lamentava il mancato esercizio da parte del Comune e della Regione dei poteri amministrativi finalizzati alla tutela dei cittadini dall’inquinamento atmosferico.

La causa è stata, dunque, riassunta innanzi al TAR per la Lombardia, il quale, a sua volta, ritenendo che la controversia appartenesse alla giurisdizione del giudice ordinario, ha sollevato il conflitto negativo di giurisdizione.

A parere del TAR, dovendosi seguire il petitum sostanziale, la giurisdizione è del giudice ordinario perché nel caso di specie è stato chiesto il risarcimento del danno derivato all’attore dalla condotta asseritamente illegittima ritenuta dalle amministrazioni e non - come ritenuto dal Tribunale Ordinario di Milano - l’adozione di un provvedimento amministrativo.

La decisione.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ritenuto che in caso di controversia in materia di danno alla salute, la giurisdizione deve essere devoluta al giudice ordinario.

Nel caso di specie, il cittadino ricorrente, pur lamentandosi dell’inerzia delle amministrazioni resistenti, ha chiesto il risarcimento del danno alla salute e alla vita di relazione da lui subiti in conseguenza dell’inerzia amministrativa.

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha avuto l’occasione di ribadire che in materia di danno ambientale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie derivanti dall’impugnazione, da parte dei soggetti titolari di un interesse alla tutela ambientale, dei provvedimenti amministrativi adottati dal Ministero dell’ambiente per la precauzione, la prevenzione e il ripristino ambientale.

Sono invece devolute al giudice ordinario le cause risarcitorie o inibitorie promosse da soggetti ai quali il fatto produttivo di danno ambientale abbia cagionato un pregiudizio alla salute o alla proprietà, nonché le controversie, nelle quali il privato, deducendo l’omessa adozione, da parte della pubblica amministrazione degli opportuni provvedimento a tutela del diritto alla salute, domandi nei confronti della stessa il risarcimento del danno non patrimoniale.

(Cass. Civ. Sez. Un. Ord. 23 febbraio 2023, n. 5668)


anac

Tardivo versamento del contributo ANAC: è legittima l’esclusione?

Con la recente pronuncia dello scorso 3 febbraio, il Consiglio di Stato ha affermato che in caso di tardivo versamento del contributo ANAC l’esclusione non è legittima.

Un concorrente partecipava ad una procedura di gara e, non avendo effettuato il pagamento del contributo ANAC, veniva invitato dalla stazione appaltante a regolarizzare tale pagamento in sede di soccorso istruttorio.

La società concorrente provvedeva a regolarizzare il pagamento del contributo ANAC entro il termine massimo concesso dalla stazione appaltante. Tale termine, tuttavia, risultava essere successivo alla scadenza della presentazione delle offerte.

Per tale ragione, la stazione appaltante decideva di escludere la società dalla procedura di gara. Nello specifico, la stazione appaltante evidenziava che l’art. 11 del disciplinare di gara prevedeva, per il caso di mancato pagamento entro il termine di presentazione delle offerte, una espressa comminatoria di esclusione.

La società concorrente impugnava detta esclusione dinanzi al TAR Umbria, il quale, richiamata la lex specialis di gara, confermava la bontà dell’operato della stazione appaltante.

In sede di appello, la società concorrente, nell’evidenziare l’erroneità della sentenza resa dal TAR Umbria, precisava come  la causa di esclusione prevista dal disciplinare di gara esula dal novero delle cause di esclusione previste dalla legge e, come tale, deve essere considerata nulla. Per la società ricorrente, dunque, l’art. 11 del disciplinare di gara non avrebbe dovuto trovare applicazione.

Il Consiglio di stato, ritenuto fondato il motivo, ha accolto il ricorso ed ha annullato l’esclusione.

In particolare, i giudici hanno rilevato che rispetto all’art. 1, comma 67 della l. n. 266/2005, che ha introdotto l'obbligatorietà del versamento del c.d. contributo ANAC, l’art. 11 del disciplinare di gara si rivela più limitante e rigoroso perché l’effetto espulsivo ivi previsto consegue anche al solo tardivo pagamento del contributo, oltre che per il suo omesso pagamento.

In definitiva, dunque, a parere del Consiglio di Stato, l’art. 11 del disciplinare di gara, escludendo rilevanza al soccorso istruttorio e conferendo alla tempistica del pagamento un peso determinante, contrasta con l’art. 83, comma 8,  del d.lgs. 50/2016, il quale prevede che “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizione a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal codice e dal altre disposizioni vigenti” nonché con l’art. 1, comma 67 della l. 266/2005, il quale contempla “l’obbligo di versamento del contributo da parte degli operatori economici quale condizione di ammissibilità dell’offerta nell’ambio delle procedure finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche”.

La pronuncia in commento è estremamente importante e si inserisce nel grande dibattito che ruota intorno al contributo ANAC. La giurisprudenza, infatti, è sul punto estremamente discordante e finanche contradditoria.

Basti pensare che solo pochi giorni prima della pubblicazione della sentenza del Consiglio di stato, il TAR Sardegna, nel richiamare precedenti pronunce rese sia dai giudici di merito che dallo stesso Consiglio di Stato, ha addirittura ritenuto inapplicabile il soccorso istruttorio in caso di mancato pagamento del contributo ANAC, se non previsto dal bando.

Cons. Stato, Sez. III, 3.2.2023, n. 1175

TAR Sardegna, Sez. II, 18.1.2023, n. 14


energia

Energia: è possibile sostituire il combustibile fossile con il CSS?

Un’interessante pronuncia del TAR Umbria chiarisce che è possibile sostituire il combustibile di origine fossile con il CSS.

Nello specifico, il TAR Umbria precisa che per soddisfare il fabbisogno energetico degli impianti industriali, il combustibile di origine fossile può essere sostituito con il CSS, cioè con il combustibile ottenuto dalla componente secca (plastica, carta, fibre tessili, ecc.) dei rifiuti non pericolosi, sia urbani sia speciali, purché non venga aumentata la capacità produttiva autorizzata.

Il caso specifico.

La vicenda giunta all’attenzione del TAR Umbria trae origine dal ricorso presentato da un comune che contrastava l’operato della Regione la quale, preso atto dell’intervenuta modifica non sostanziale dell’installazione autorizzata, relativa all’utilizzo di CSS in parziale sostituzione dei combustibili di origine fossile, aggiornava, con determina regionale, le condizioni e le prescrizioni dell’AIA (autorizzazione integrata ambientale) rilasciata in favore della società energivora.

Per il comune ricorrente, tale determina dirigenziale risultava viziata sotto plurimi aspetti: a) per indebita pretermissione della VIA; b) perché la modifica sarebbe sostanziale; c) perché la Regione non avrebbe valutato gli effetti cumulativi degli impianti; d) perché l’iter svolto dalla Regione avrebbe privato il sindaco dei suoi poteri di impartire prescrizione a tutela della salute ex art. 29  quater e 29 octies del d.lgs. 152/2006; d) perché la Regione non avrebbe esperito la valutazione d’incidenza.

La decisione.

Il TAR Umbria, nel rigettare in toto il ricorso, ha evidenziato che la società energivora aveva presentato la comunicazione di modifica non sostanziale dell'impianto sotto la vigenza del d.l. 31.5.2021 n. 77 (c.d. decreto Semplificazioni-bis), il quale all’art. 35 comma 3 richiama il parametro della capacità produttiva preesistente, quale presupposto dell’autorizzazione ad utilizzare il CSS.

Invero, l’art. 35 del d.l. 77/2021, al comma 3 prevede che “Gli interventi di sostituzione dei combustibili tradizionali con CSS-combustibili […] che non comportino un incremento della capacità autorizzata,  non costituiscono una modifica sostanziale […] e richiedono il solo aggiornamento del titolo autorizzatorio”.

Su tali premesse, quindi, il collegio, rigettando tutte le doglianze avanzate dal ricorrente, ha ritenuto l’operato della Regione conforme alla normativa di settore vigente ratione temporis.

L'unica possibilità per il comune di contrastare la sostituzione del combustile di origine fossile con il CSS sarebbe quella di adottare ordinanze sindacali qualora sussistano documentati pericoli per la salute pubblica.

Il collegio, infatti, evidenzia che il sindaco ben potrà optare, qualora lo ritenga necessario, per l’esercizio dei propri poteri inibitori in materia di salute pubblica di cui agli artt. 216 e 217 del r.d. 27.7.1934, n. 1265, nonché quelli di igiene e sanità pubblica, ambientale e di incolumità e sicurezza ex artt. 50 e 54 d.lgs. 267/2000.

Le ultime novità normative.

Si segnala, per completezza espositiva, che il 17.1.2023 è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale la Legge 13.1.2023, n. 6, di conversione del d.l. 18 novembre 2022, n. 176, recante misure urgenti di sostegno nel settore energetico e di finanza pubblica. All'art. 4-bis della legge 6/2023 viene specificato che per le attività soggette al rilascio della VIA e dell’AIA, fino al 31 marzo 2024, è possibile sostituire il combustibile naturale (metano) con combustibili alternativi, compreso il combustibile solido secondario (CSS) con una procedura considerata come modifica non sostanziale. Per i combustibili alternativi si intendono quelli consentiti dall'Allegato 10, parte quinta del Testo Unico Ambientale (d.lgs. n. 152/2006). Il gestore dell’impianto può dunque procedere alla sostituzione del combustibile decorsi 30 giorni dalla comunicazione ed in assenza di un provvedimento di diniego motivato da parte dell’autorità competente rilasciato entro il medesimo termine. La deroga accordata ha validità per 6 mesi dalla comunicazione.

T.A.R. Umbria, Sez. I, 12.1.2023, n. 28

 


L’onere della prova tra teoria della regolarità causale e strumenti logico-processuali di corroboration e cumulative redundancy.

L’onere della prova tra teoria della regolarità causale e strumenti logico-processuali di corroboration e cumulative redundancy.

 

Il Tribunale ordinario di Bari, con una sentenza dello scorso ottobre, richiamando la teoria della regolarità causale e gli strumenti logico-processuali di corroboration e cumulative redundancy offre un interessante spunto per riflettere sull’onere della prova.

Il caso specifico oggetto di contenzioso dinnanzi al Tribunale di Bari riguardava una richiesta di risarcimento danni formulata dal proprietario di un immobile che, a suo parere, versava in pessimo stato di manutenzione per colpa imputabile all’ex coniuge che, nonostante avesse ricevuto l’immobile a titolo di casa familiare, l’aveva lasciata in totale stato di abbandono, impendendo altresì all’ex marito di riprenderne il possesso.

Si costituiva in giudizio l’ex moglie, la quale, deducendo l’insussistenza di qualsiasi sua colpa nella causazione dei danni subiti dall’immobile, dichiarava che nessun danno era a lei eziologicamente ricollegabile.

Nello specifico, l’ex moglie precisava che nell’accordo di separazione risultava che l’ex marito avesse assunto l’impegno di eseguire tutti i lavori di messa in sicurezza dell’immobile per assicurare alle figlie minori di vivere in un ambiente salubre. Tale impegno, tuttavia, non era stato correttamente onerato dall’ex coniuge e, pertanto, stante il gravoso inadempimento, l’ex moglie era stata costretta a trovare una diversa e provvisoria sistemazione abitativa per tutelare la salute propria e delle figlie minori.

Orbene, nell’indagine di eventuali responsabilità, il giudice istruttore, precisato che, oltre al collegamento subiettivo con l’agente, occorre accertare le conseguenze dannose che derivano dal fatto illecito/inadempimento, legate da un nesso di causalità giuridica all’azione umana, evidenziava come su ciascuna delle parti dovesse ricadere l’onere della prova, secondo la dicotomia fatti costitutivi (attore) e fatti impeditivi, modificativi, estintivi (convenuto).

Su tali premesse, il giudice istruttore individuava, nel caso di specie, i fatti costituiti e i fatti impeditivi/modificativi/estintivi, rispettivamente, nell’inadempimento dell’obbligo di custodia dell’ex moglie e nell’abbandono della causa avvenuto legittimamente stante le condizioni di insalubrità dell’immobile per inadempimento dell’ex marito all’obbligo di esecuzione dei lavori.

Così ricostruito l’impianto argomentativo, il giudice istruttore, al fine di verificare e accertare il raggiungimento o meno della prova, gravante su entrambe le parti, distingueva, da un lato, il compendio probatorio in ordine all’obbligo di custodia, gravante sull’ex moglie e, dall’altro, il compendio probatorio in ordine all’impedimento all’accesso nell’immobile, gravante sull’ex marito.

In disparte le risultanze istruttorie raggiunte nel caso in commento, la sentenza in esame costituisce un ottimo vademecum sui diversi strumenti probatori presenti nel nostro ordinamento.

Il giudice istruttore, infatti, nella ricostruzione del legame tra illecito ed evento dannoso, è ricorso:

  • alla teoria della regolarità causale, che è una tecnica di imputazione dei danni per cui non è sufficiente la relazione causale della c.d. “condicio sine qua non” per determinare una causalità̀ giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante, non appaiono del tutto inverosimili;
  • a strumenti logico-processuali di corroboration e cumulative redundancy, ossia avvaloramento di una tesi ed esclusione delle ipotesi alternative onde raggiungere il più elevato standard di probabilità logica.

(Trib. Bari, sez. I, sent.  20.10.2022, n.3825)