Avvalimento e gara divisa in più lotti: la società ausiliaria può partecipare anche in proprio?
L'istituto dell'avvalimento è sempre stato oggetto di discussione. Cosa può formare oggetto di avvalimento e cosa no? Cosa deve contenere il contratto di avvalimento, a pena di nullità?
La giurisprudenza amministrativa tenta di rispondere alle svariate questioni che nell’ambito di numerose procedure di gara si presentato in concreto.
Ed è proprio questo il caso del TAR Campania che, con la sentenza in esame, è stato chiamato a rispondere, oltre alle questioni “più classiche” anche ad un'ulteriore domanda che ha destato particolare attenzione: può una società ausiliaria partecipare anche in proprio nella medesima gara alla quale partecipa l’impresa ausiliata, se la gara è divisa in più lotti?
La risposta è sì.
Vediamo il perché.
Il caso specifico
Un comune indiceva una procedura di gara aperta per l’affidamento del servizio di gestione di 21 asili nido e micronidi di infanzia. La procedura prevedeva la suddivisione in 5 lotti, ciascuno dotato di proprio codice nonché la selezione, per ciascun lotto, di un operatore con cui addivenire alla stipula di un Accordo quadro a sua volta prodromico alla stipula di singoli contratti applicativi.
Una società, pacificamente sprovvista dei requisiti di capacità economico finanziaria e tecnico professionale, decideva di partecipare alla selezione per il lotto n 1, dichiarando di avvalersi di un'altra società. Quest'ultima, a sua volta, partecipava, in proprio, alla medesima gara ma per il lotto n. 5.
Senonché, la commissione di gara, esaminate le domande, riteneva di dover escludere la società ausiliata per due ordini di ragione:
- Carenza dei requisiti di partecipazione stante il loro utilizzo da parte dell’ausiliaria ai fini della partecipazione alla medesima gara, in proprio, ma per un altro lotto.
- Nullità per genericità del contratto di avvalimento.
L’ausiliata, ritendo l’esclusione illegittima impugnava il provvedimento deducendo la violazione ed errata interpretazione dell’art. 89, comma 7, del d.lgs. 50/2016 stante l'autonomia dei due lotti (1 e 5) nonché la sufficiente specificità del contratto di avvalimento alla luce della natura di avvalimento di garanzia.
La decisione del TAR
Il TAR ha ritenuto il ricorso meritevole di accoglimento partendo da un principio consolidato in giurisprudenza per cui la gara articolata in più lotti non costituisce una unica procedura ma tante gare autonome e distinte quali sono i lotti.
Conseguentemente, - così testualmente il TAR – “se, pertanto, la gara non può considerarsi unitaria, ma plurima, nei termini appena spiegati, è del tutto irrilevante, ai fini della partecipazione della ricorrente alla gara per il lotto 1, la partecipazione della sua ausiliaria, in via autonoma e con l’utilizzo dei medesimi requisiti oggetto dell’avvalimento, per il lotto n. 5, per come ritenuto dall’Amministrazione resistente”.
Ad avviso del Collegio, dunque, escludere una società ausiliata perché nella medesima gara, ma per altro lotto, vi partecipa anche l’ausiliaria, si pone in contrasto con i principi di concorrenza e di favor partecipationis.
Conclude, pertanto, il Collegio che la natura plurima della gara esclude l’operatività, nel caso di specie, del divieto imposto dal sopra richiamato art. 89, comma 7, del d.lgs. 50/2016.
L’art. 89, comma 7, del d.lgs. 50/2016, infatti, prevede che “In relazione a ciascuna gara non è consentito, a pena di esclusione, che della stessa impresa ausiliaria si avvalga più di un concorrente, ovvero che partecipino sia l'impresa ausiliaria che quella che si avvale dei requisiti”.
Quanto invece alla nullità del contratto di avvalimento, ritenuto dalla Commissione troppo generico, il Collegio ha sostanzialmente ripercorso quello che ad oggi è un approdo consolidato nella giurisprudenza, ossia la distinzione, ai fini della validità del contratto di avvalimento, tra avvalimento di c.d. tecnico od operativo e avvalimento di garanzia.
Si parla di avvalimento operativo nel caso in cui l’ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata le risorse organizzative indispensabili per assicurare i requisiti di capacità tecnico-professionale richiesti per l’esecuzione dell’appalto; si ha avvalimento di garanzia quando l’oggetto del “prestito” sono la solidità economica e finanziaria e/o il patrimonio di esperienza dell’ausiliaria.
Ebbene, solo per l’avvalimento c.d. tecnico od operativo è richiesto necessariamente che dal contratto risulti l’impegno dell’impresa ausiliaria a prestare il proprio apparato organizzativo; per l’avvalimento di garanzia, invece, è sufficiente che dal contratto si evince l’impegno dell’ausiliaria a prestarsi e mettersi a disposizione dell’ausiliata.
Conseguentemente, il TAR Campania, rilevato che nel caso di specie si trattava di un avvalimento di garanzia e che dalla documentazione contrattuale emergeva l’impegno contrattuale dell’ausiliaria, ha ritenuto il contratto perfettamente lecito e valido.
(TAR Campania, Sez. IV, 10.10.2022, n. 6214)
by Sara Turzo
AGCM, concessioni demaniali marittime relative ai punti di ormeggio: il requisito dell'esperienza riduce il favor partecipationis
Con una recente delibera (n. 38 del 24 ottobre 2022), l’AGCM ha affermato che il requisito dell'esperienza maturata richiesto da un disciplinare di gara per l’affidamento delle concessioni demaniali marittime relative ai punti di ormeggio riduce notevolmente il favor partecipationis.
Il caso
E' stata sottoposta all’attenzione dell’AGCM la determina conclusiva di una procedura di selezione competitiva esperita da un comune per l’affidamento delle concessioni demaniali marittime relative ai punti di ormeggio che tra i requisiti richiedeva l'esperienza maturata nella attività di ormeggio di imbarcazioni e natanti. Nel caso specifico, era accaduto che le istanze presentate nel corso della procedura avevano ricevuto il massimo punteggio con riferimento a tutti i criteri di valutazione previsti dal disciplinare, ad eccezione del requisito esperienziale, cui era stato attribuito un valore pari a zero a fronte del massimo punteggio ottenuto dai concessionari uscenti. Tale requisito, infatti, attribuiva fino a 6 punti per aver esercitato la gestione di attività di ormeggio di imbarcazioni e natanti, attribuendo 0,5 punti per ogni anno di attività svolta, consentendo quindi la valorizzazione dell’attività pregressa fino ad un periodo di 12 anni.
La posizione dell’AGCM
L’AGCM, esaminati gli atti di gara, ha evidenziato nel parere in commento come il requisito relativo ad attività pregressa svolta nell’ambito della gestione di posti di ormeggio sia ingiustificatamente restrittivo in quanto preclude di concorrere “ad armi pari” per l’assegnazione delle concessioni per coloro i quali hanno scarsa o nulla (recente) esperienza pregressa nel settore.
Questo perché, - continua l’AGCM -, l’attività in argomento è tipicamente svolta in regime concessorio.
Conseguentemente, per l’AGCM prevedere tra i requisiti il possesso dell’esperienza pregressa finisce per favorire operatori che dispongono o che comunque hanno disposto nel recente passato di concessioni demaniali marittime.
E così che precludendo di fatto la partecipazione alla procedura competitiva ai nuovi soggetti entranti nel mercato, nonché ai soggetti con una recente esperienza nel settore, ma temporalmente limitata, il requisito dell’esperienza pregressa è idoneo a determinare una potenziale significativa riduzione del favor partecipationis.
È idoneo, cioè, ad integrare una preferenza in favore di operatori già attivi sul mercato, a pregiudizio di soggetti con poca o inesistente esperienza nel settore, così da restringere il novero dei partecipanti
Le considerazioni dell’AGCM
Nel promuovere un dinamismo concorrenziale in un settore come quello delle concessioni dei beni demaniali marittimi, l’Autorità nel proprio parere evidenzia come nel caso di specie il requisito della pregressa esperienza risulta, altresì, idoneo a ridurre i benefici potenziali derivanti dal ricorso a procedure di gara, quali ad esempio maggiori introiti derivanti dai canoni concessori. Nel caso esaminato dall'AGCM, era infatti emerso che le istanze concorrenti avevano offerto maggiorazioni del canone del 200% e del 300%, a fronte di quelle dei gestori uscenti del 5% e del 10%, determinando così un evidente danno per il comune, corrispondente ai minori introiti per i canoni concessori.
(AGCM, Bollettino dell’Autorità n. 38/2022)
by Sara Turzo
CGUE: obbligo di gara per il trasporto pubblico marittimo veloce di passeggeri sullo stretto di Messina
Con una recente sentenza, la CGUE ha affermato che i contratti di trasporto pubblico marittimo veloce di passeggeri non possono essere conclusi senza che sia previamente esperita una procedura di gara.
La vicenda processuale
Nell’ottobre 2018, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano affidava in via diretta, senza che venisse esperita alcuna procedura di gara pubblica, la prestazione del servizio di trasporto marittimo veloce di passeggeri fra il porto di Messina e il porto di Reggio Calabria.
Tale affidamento diretto veniva contestato dall’operatore uscente per incompatibilità con il Regolamento (CEE) 3577/92, dinanzi al TAR Lazio, il quale respingeva il ricorso proposto, ritenendo che, ai sensi dell’art. 47, comma 11-bis del d.l. 50 del 24 aprile 2017, il servizio in questione potesse essere qualificato come servizio di trasporto ferroviario e, pertanto, in ossequio alla normativa europea (Regolamento CE 1370/2007), potesse essere oggetto di affidamento diretto.
Adito il Consiglio di stato, quest’ultimo ha però dubitato della legittimità comunitaria dell’art. 47, comma 11 – bis del d.l. 50/2017.
Più nel dettaglio, ad avviso del giudice del rinvio, l’art. 1, paragrafo 1 e l’art. 4, paragrafo 1 del regolamento 3577/92 ostano ad una disposizione nazionale, l’art. 47, comma 11 – bis del d.l. 50/2017, appunto, che abbia lo scopo di equiparare dei servizi di trasporto marittimo a dei servizi di traporto ferroviario, qualora tale equiparazione abbia l’effetto di sottrarre il servizio in questione all’applicazione della normativa in materia di appalti pubblici che sarebbe ad esso altrimenti applicabile.
A questo proposito, occorre ricordare che l’art. 1, paragrafo 2, seconda frase del Regolamento (CE) 1370/2007 prevede l’applicabilità di quest’ultimo al trasporto pubblico di passeggeri in acque marine nazionali, “fermo restando” le disposizioni del regolamento 3577/1992.
Il citato regolamento 3577/92 all’art. 1 stabilisce chiaramente il principio della libera prestazione dei servizi ai trasporti marittimi all’interno degli Stati membri. Il successivo art. 4, paragrafo 1, primo comma prevede che uno Stato membro può concludere il servizio pubblico con le compagnie di navigazione che partecipano segnatamente ai servizi regolari da e verso le isole o imporre loro obblighi di servizio pubblico come condizione per la fornitura di servizi di trasporti marittimi. Il secondo comma di tale disposizione esige che uno Stato membro, se conclude contratti di servizio pubblico o impone obblighi di servizio pubblico, lo faccia su base non discriminatoria nei confronti di tutti gli armatori dell’Unione.
La decisione della CGUE
La Corte di giustizia, con la decisione in rassegna, ha puntualizzato che le norme in materia di appalti pubblici non sono identiche a seconda che si tratti di servizi di trasporto pubblico di passeggeri via mare oppure di servizi di trasporto pubblico di passeggeri per ferrovia. Invero, l'affidamento diretto, previsto dal Regolamento (CE) 1370/2007, si applica all'esercizio nazionale e internazionale di servizi pubblici di trasporto passeggeri per ferrovia, nonché al trasporto ferroviario e su strada. Tuttavia, gli Stati membri possono estenderla anche al trasporto di passeggeri “via mare nazionale”, ma tale estensione può essere operata solo se non entra in contrasto con il regolamento 3577/92 che in caso di conflitto è destinato a prevalere. A parere, dunque, del giudice europeo, non si può ammettere che una misura nazionale proceda ad una riqualificazione di taluni servizi, non tenendo conto della natura reale di questi ultimi e arrivando a sottrarli all’applicazione delle norme ad essi applicabili.
Sulla scorta del principio di diritto, il Consiglio di Stato dovrà adesso risolvere il contenzioso ancora pendente davanti sé, il cui esito appare giocoforza orientato verso una sola possibile strada: il trasporto pubblico marittimo veloce di passeggeri sullo stretto di Messina deve essere messo a gara.
(CGUE, 13.10.2022, causa C‑437/21)
by Sara Turzo
Contratti pubblici: è legittima la risoluzione del contratto prima della consegna dei lavori?
È legittima la risoluzione del contratto prima della consegna dei lavori? In questi casi l’Amministrazione può riscuotere la garanzia prestata dall’appaltatore?
Il Tribunale Civile di Torino ha recentemente risposto positivamente il primo quesito, ribadendo che per l’escussione della garanzia la stazione appaltante è tenuta a provare di aver subìto un danno risarcibile.
Vediamo in dettaglio il caso.
Una società, risultata aggiudicatrice di un appalto per la manutenzione dei servizi antincendio presso taluni immobili di proprietà della stazione appaltante, ha chiamato in giudizio quest’ultima per aver ingiustamente risolto il contratto.
In particolare, la società, nel contestare la risoluzione, ha sostenuto che, non essendo ancora intervenuta la consegna effettiva dei lavori, la committente non poteva risolvere il contratto ma al più poteva applicare le sole penali; ha censurato, altresì, l’illegittimità dell’escussione della fideiussione da parte della stazione appaltante sull’assunto che la stessa non aveva subìto alcun danno e, infine, ha eccepito l'inesistenza o comunque l'illegittimità della clausola risolutiva espressa perché non doppiamente sottoscritta ex art. 1342 cc.
Costituitasi in giudizio, la committente ha dichiarato che la risoluzione era stata decisa all'esito di gravi inadempimenti da parte della società aggiudicataria. In particolare, aveva rilevato che i lavoratori che la società appaltatrice aveva proposto di impiegare non rispettavano i requisiti del bando e quelli premiali offerti. Il possesso dei requisiti minimi di gara non era stato oggettivamente valutato dalla stazione appaltante: nonostante le richieste di integrazione rivolte alla società, questa non aveva prodotto documenti idonei a riscontrare la sussistenza dei requisiti dichiarati.
La committente ha chiamato in giudizio la Compagnia assicurativa per l'escussione della garanzia, la quale, a sua volta, ha eccepito l’abusività della garanzia per totale assenza del danno risarcibile in capo alla stazione appaltante. Trattenuta la causa in decisione, il giudice ha esaminato alcune questioni aventi carattere preliminare.
La prima, concernente la possibilità o meno della committente di procedere alla risoluzione contrattuale prima di dare inizio all'esecuzione del contratto, è stata risolta positivamente dal giudicante.
A parere del giudice, infatti, indipendentemente dalle regole della specifica gara d’appalto, risulta nella logica delle cose che l’appaltatore, prima di iniziare l’appalto, documenti il possesso da parte dei lavoratori dei requisiti di professionalità richiesti: il possesso dei requisiti di professionalità, infatti, rappresenta una precondizione per l'esecuzione dell’appalto.
Per il Tribunale , dunque, la pretesa della committente di ricevere l’elenco dei lavoratori con le relative qualifiche professionali prima dell’inizio dell’esecuzione dell’appalto, è perfettamente legittima in quanto adempimento preliminare necessario per la consegna dei lavori, sicché in linea teorica la committente può procedere alla risoluzione del contratto di appalto ancor prima di dare inizio all’esecuzione del contratto.
La seconda, invece, riguardante la mancata doppia sottoscrizione ex art. 1342 c.c. della clausola risolutiva espressa, è stata definita dal giudice richiamando una giurisprudenza consolidata, per cui "la clausola risolutiva espressa non ha carattere vessatoria, in quanto essa non è riconducibile ad alcuna delle ipotesi previste dall’art. 1341 c.c.".
Fatte queste premesse, il giudice ha ritenuto che il comportamento della società affidataria integrasse un grave inadempimento degli obblighi assunti: la società non è stata, infatti, in grado di dimostrare il possesso, da parte dei lavoratori, dei requisiti minimi del bando né tantomeno di quelli offerti come premiali dalla stessa società.
Il Tribunale ha pertanto considerato legittima la risoluzione disposta e in linea con il dettato dell’art. 108 del d.lgs. 50/2016.
Tuttavia, la domanda volta all’incameramento della garanzia è stata disattesa. Il Tribunale ha infatti ritenuto che nel caso di specie non vi fosse un danno risarcibile. Richiamando l'art. 103 del d.lgs. 50/2016, ha precisato che la garanzia fideiussoria ha ad oggetto:
- le maggiori somme pagate dalla committente rispetto alle risultanze della liquidazione finale e non il pagamento delle eventuali penali;
- il rimborso delle eventuali maggiori somme pagate dalla committente per il completamento dei lavori nel caso di risoluzione del contratto disposta in danno del contraente;
- il rimborso delle eventuali somme pagate dalla committente per quanto dovuto dal contraente per inadempienza e inosservanza delle norme e prescrizioni dei contratti collettivi di lavoro, delle leggi e dei regolamenti sulla tutela, protezione, assicurazione assistenza e sicurezza fisica dei lavoratori comunque presenti in cantiere.
Per il riconoscimento di tali somme è però necessario un pregiudizio effettivamente subito dalla committente, la quale è tenuta a fornirne compiuta prova. Non essendo stata raggiunta nel caso in esame la prova del danno, la richiesta di escussione avanzata dalla committente è stata ritenuta abusiva.
Per consolidata giurisprudenza, l’incameramento della garanzia presuppone la prova del danno effettivo, non potendo pertanto discendere dalla mera risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore qualora in concreto la committente non abbia patito alcun danno.
La committente non ha provato di aver subito un danno economico risarcibile, avendo sostanzialmente speso la medesima somma che avrebbe dovuto corrispondere alla società attrice.
La committente, infatti, aveva affidato l’incarico alla seconda classificata alle medesime condizioni cui si era impegnata la società attrice, mentre le spese sostenute per le ore di lavoro dei dipendenti della committente - resesi necessarie per la gestione dell’appalto – sono state ritenute dal Tribunale costi che sarebbero stati comunque sostenuti anche nel caso in cui l’appalto con l’attrice avesse avuto un andamento regolare, sicché non rappresentano un danno risarcibile.
(Trib. Torino, Sez. specializzata imprese, 12.7.2022, n. 2967)
by Sara Turzo
Annotazioni ANAC: tra vicende professionali pregresse e sospensioni cautelari
Il TAR Lazio ha di recente avuto modo di soffermarsi sul tema delle vicende professionali pregresse dell’operatore economico partecipante alla gara e della loro rilevanza ai fini dell’annotazione del casellario ANAC, nonché del modus operandi dell’ANAC in caso di accoglimento di un’istanza di sospensione avverso l’inserimento dell’annotazione nel casellario informatico.
Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici, un operatore economico aveva provveduto, nel corso di una procedura di gara, a notiziare tempestivamente la stazione appaltante di alcuni eventi professionali che lo avevano interessato: in particolare, una risoluzione contrattuale e due revoche di aggiudicazione.
Senonché la stazione appaltante, dopo aver chiamato l’operatore economico a fornire dei chiarimenti, ne aveva disposto l’esclusione, rilevando che le violazioni sarebbero state commesse nell’arco temporale (triennio) delineato dalle Linee guida n. 6 e riferite a contratti aventi il medesimo oggetto di quello da affidare, con reiterazione altresì dei comportamenti sanzionati.
All’esito della disposta esclusione, la stazione appaltante aveva, altresì, inviato all’ANAC la segnalazione ai sensi dell’art. 80, comma 12, del d.lgs. 50/2016, nonché la comunicazione delle informazioni obbligatorie.
All’esito del procedimento avviatosi innanzi all’ANAC, quest’ultima aveva disposto l’inserimento nel casellario informatico, sezione B, dell’annotazione nei confronti dell’operatore economico.
Ed è proprio su detta annotazione, impugnata dall’operatore economico, che è stato chiamato a decidere il TAR Lazio.
Orbene, il ricorrente aveva sostenuto in giudizio l’illegittimità dell’annotazione sotto un duplice aspetto.
In primis, per insussistenza dei presupposti per la compilazione del modulo “A” da parte della stazione appaltante, in quanto la società non avrebbe reso alcuna falsa dichiarazione o documentazione relativa a gravi illeciti professionali, mentre con riferimento alla risoluzione subita, questa era stata già sottoposta all’attenzione dell’ANAC, che aveva concluso per un’annotazione informativa, non interdittiva.
In secondo luogo, aveva sostenuto che il provvedimento dell’ANAC sarebbe stato carente delle ragioni di utilità della notizia segnalata dalla stazione appaltante.
Nelle more del giudizio, il TAR aveva sospeso l’efficacia degli atti impugnati e, dunque, dell’annotazione.
Ciò nonostante, l’ANAC aveva proceduto con l’inserimento di un’annotazione integrativa che dava atto dell’accoglimento della domanda cautelare presentata dal ricorrente nel giudizio volto all’annullamento del provvedimento dell’ANAC recante la comunicazione dell’annotazione del ricorrente nel casellario informatico.
Il ricorrente aveva impugnato con motivi aggiunti la nota integrativa dell’ANAC, sostenendo che l’Autorità avrebbe dovuto rimuovere temporaneamente l’annotazione nella sezione B, accessibile alle stazioni appaltanti, ed inscrivere l’annotazione nella sezione C, ad accesso della sola Autorità, sino alla conclusione del giudizio.
Per la ricorrente, infatti, l’inserimento dell’integrazione sarebbe stato illegittimo in quanto l’art. 39 del Regolamento ANAC stabilisce che: “Il dirigente, qualora il provvedimento di annotazione dell’Autorità sia sospeso in via cautelare dal giudice, rimuove temporaneamente l’annotazione dalla sezione B e la iscrive nella sezione C del Casellario, fino alla decisione di merito”.
Il TAR Lazio, nel convenire con le tesi del ricorrente, ha accolto sia il ricorso introduttivo sia i motivi aggiunti.
Quanto al ricorso introduttivo, il Collegio ha confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui:
- prima di procedere all’iscrizione nel casellario informatico, l’ANAC è tenuta a valutare l’utilità della notizia alla luce delle circostanze di fatto esposte dall’operatore economico. In tal senso, precisa il Collegio, le vicende professionali pregresse, se debitamente rese note alla stazione appaltante, non possono condurre ad annotazione nel casellario informatico;
- l’annotazione deve essere riportata in maniera puntuale ed esatta;
- la notizia meritevole di annotazione deve essere adeguatamente motivata.
Quanto ai motivi aggiunti, il Collegio ha chiarito che, in ossequio al disposto normativo dell’art. 39 del Regolamento ANAC, l’annotazione dell’Autorità nella sezione “B”, a seguito della sospensione dell’efficacia del provvedimento oggetto di annotazione dopo la pronuncia cautelare, deve essere rimossa temporaneamente (con iscrizione nella sezione C del Casellario) e non essere oggetto di ulteriore integrazione, come invece accaduto nel caso di specie.
TAR Lazio, Sez. I-quater, 8.9.2022, n. 11699
by Sara Turzo
Sopravvenienze contrattuali: il principio di buona fede può cambiare anche la sorte di un contratto di fornitura
Nei contratti di durata, nello spazio temporale che investe l’esecuzione di un contratto possono verificarsi degli eventi che mutano il contesto giuridico ed economico in cui il negozio si è formato.
Gli eventi che intervengono dopo la sottoscrizione di un contratto, durante l’esecuzione e, dunque, prima della sua conclusione si definiscono sopravvenienze.
Il tema delle sopravvenienze nell'ambito dei contratti pubblici, solitamente ricondotto agli appalti di lavori, investe anche le forniture.
È il caso posto all’attenzione del Tribunale di Napoli il quale, in caso di sopravvenienze – dovute nel caso specifico ad un aumento eccezionale ed imprevisto dei prezzi di materiali – ha posto l’accento su un sistema rimediale basato non più solo su istituti caducatori, bensì anche manutentivi e conservatori, basati sulla clausola generale della buona fede.
Il fatto
La società affidataria di un appalto pubblico per la fornitura, installazione e manutenzione di server e storage per Cluster di Supercalcolo conveniva in giudizio la stazione appaltante, la quale aveva ingiustamente risolto il contratto per inadempimento dell’appaltatore, con anche applicazione delle penali.
Occorre premettere che l’oggetto dell’appalto si componeva di 2 fasi: una prima fase, denominata fornitura base ed una seconda, denominata fornitura opzionale, che poteva essere attivata a totale discrezione della stazione appaltante entro un termine prefissato dalla lex specialis. I prezzi della fornitura, anch’essi “scomposti” in base alla fase di riferimento, erano fissi ed invariabili.
All’atto dell’esercizio dell’opzione da parte della stazione appaltante di avvalersi della seconda fase del contratto, tuttavia, la società affidataria aveva evidenziato che le condizioni di mercato erano mutate per un eccezionale aumento dei prezzi di alcune componenti previste nella fornitura opzionale (Fase 2) e che, dunque, la fornitura si sarebbe potuta concretizzare solo a seguito “di una rivisitazione condivisa della configurazione del sistema che tenga conto degli eccezionali aumenti dei prezzi di questi ultimi anni”.
La stazione appaltante, di contro, in assenza di esplicite pattuizioni contrattuali, risolveva il contratto per inadempimento, applicando le relative penali, per mancata erogazione della fornitura a far data dalla attivazione della fase opzionale.
I motivi di censura
La società affidataria deduceva in giudizio che, per circostanze imprevedibili, i prezzi delle memorie (componente per la fornitura della Fase 2) si erano triplicati e che, dunque, in luogo della risoluzione, si sarebbero potuti applicare gli articoli 1467 c.c. e 1664 c.c.: in altre parole, secondo la società, l’eccezionale aumento dei costi dei materiali tecnologici avrebbe giustificato una rinegoziazione del contratto, o comunque una revisione dei prezzi contrattualmente pattuiti.
Con specifico riferimento alla normativa speciale in materia d’appalti, la società attrice richiamava, altresì, l’art. 106, comma 11, del d.lgs. 50/2016 che impone di preservare il rapporto d’appalto solo quando le “variazioni” siano circoscritte entro il limite del c.d. “quinto d’obbligo” (pari al 20% dell’importo contrattuale) e non anche quando, come nella specie, le richieste della committente “stravolgano” l’oggetto del contratto, imponendo all’appaltatore prestazioni di importo eccedente di gran lunga il 50% dell’importo contrattuale.
Eccepiva, infine, l’inapplicabilità della clausola contrattuale sui prezzi fissi ed invariabili, la doverosità della stazione appaltante della revisione del prezzo, nonché la illiceità delle penali.
Ad avviso dell’appaltatore, dunque, l’aumento dei prezzi delle memorie rendeva il contratto non più conforme alla realtà negoziale e all’assetto degli interessi che avevano originariamente spinto la società a partecipare alla gara e sottoscrivere il contratto.
Si costituiva in giudizio la stazione appaltante, sostenendo che alcun meccanismo di revisione dei prezzi poteva operare in relazione al contratto: l’abrogazione dell’art. 115 del Codice del 2006 che espressamente regolava la revisione dei prezzi fa sì che le sopravvenienze ad oggi sono regolate esclusivamente dall’art. 106 del d.lgs. 50/2016 e non dall’art. 1664 c.c., per cui un meccanismo di revisione di prezzi può essere previsto solo consensualmente. Nel caso di specie il meccanismo di revisione di prezzi era stato precisamente escluso dalla clausola contrattuale sui prezzi fissi ed invariabili, per cui non poteva operarsi alcuna revisione dei prezzi contrattualmente pattuiti.
La decisione del Tribunale
Il Tribunale di Napoli - dopo un lungo percorso motivazionale, che parte dal generale dovere di buona fede ex art. 1375 c.c. che incombe sulle parti nell’esecuzione del contratto - ha affermato l’illegittimità della risoluzione disposta dalla committente per inadempimento dell'appaltatore.
In particolare, il Tribunale ha rammentato che, in via generale, la buona fede implica il dovere di ciascuna parte di realizzare l’interesse dell’altra o di evitare di recarle danno, anche con l’adempimento di obblighi non previsti dalla legge o dal contratto. Le parti, pertanto, sono tenute ad eseguire il contratto senza pretendere dalla controparte un sacrificio ingiustificato ed eccessivo del proprio interesse negoziale per realizzare quello proprio: diversamente, infatti, si determina uno squilibrio patrimoniale non ammesso nell’ordinamento.
E ciò, specie ove, come accaduto nel caso di specie, il prezzo delle memorie è grandemente aumentato in ragione del macroscopico aumento dell’utilizzo delle RAM in altri supporti, circostanza mai verificatasi prima, come peraltro accertato anche dal CTU.
Nello specifico, poi, il giudicante ha richiamato il Codice dei contratti pubblici ed ha ricordato che dopo l’abrogazione dell’art. 115 del Codice del 2006 - che recava un’ipotesi doverosa ed inderogabile di revisione di prezzi periodica, che avrebbe determinato la nullità della clausola contrattuale sui prezzi fissi ed invariabili -, manca un’analoga previsione nel vigente art. 106 del d.lgs. 50/2016 che regola le modificazioni del rapporto a vario titolo.
Di conseguenza, dando una lettura interpretativa al combinato disposto dell’abrogato art. 115 del Codice del 2006 e del vigente art. 106 del Codice del 2016, il giudice ha affermato che la stazione appaltante non poteva procedere a richiedere l’esecuzione del contratto perché, considerando l’aumento dei costi delle memorie di almeno il 50%, la variazione del sinallagma era superiore ad 1/5 considerato dal comma 11 dell’art. 106 del Codice del 2016.
Il Tribunale si è, dunque, interrogato sulle sorti del contratto qualora, come nel caso di specie, non sia possibile addivenire ad una revisione dei prezzi.
Nel caso di specie, infatti, era da escludere sia la colpa dell’appaltatore al quale non poteva essere richiesto l’adempimento perché eccessivo rispetto a quanto stabilito dall’art. 106, comma 11 del Codice del 2016, sia la colpa del committente, il quale non è obbligato alla rinegoziazione, né per legge, né per contratto.
Per il Tribunale, dunque, occorre far riferimento ai principi generali in materia di contratti e risoluzione, con riguardo alle ipotesi di squilibrio del sinallagma funzionale nei contratti di durata incolpevole: nel caso di specie, dunque, i giudici hanno applicato l’art. 1467 c.c. che disciplina la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
È noto, infatti, che l’art. 1457 c.c. opera qualora le circostanze esterne che hanno inciso sul contratto squilibrandolo siano imprevedibili e perciò non ricomprendibili nel rischio economico del contratto, ossia nell’alea o comunque nel rischio fisiologico proprio di ciascun contratto.
Il giudice ha dunque dichiarato risolto il contratto in forza del disposto dell’art. 1467 c.c. (eccessiva onerosità sopravvenuta) in favore dell'appaltatore.
Considerazioni operative
La sentenza in parola conferma, dunque, seguendo il principio di conservazione del contratto, che è necessario far riferimento non più soltanto alle (statiche) disposizioni scolpite nell’accordo intercorso tra le parti, ma è necessario individuare nella clausola generale di buona fede la fonte di integrazione dell’accordo con ulteriori obblighi comportamentali non specificamente disposti dalla legge.
In altre parole, in assenza di una specifica norma codicistica che disciplini la rinegoziazione dei contratti, anche nell'ambito di un contratto pubblico vige l’obbligo di avviare le trattative che potrebbero condurre alla rinegoziazione del contratto, alla luce clausola generale della buona fede: il contratto sopravvive ma adeguato e rinegoziato.
Qualora, invece, tale rinegoziazione non sia possibile, trovano applicazione i principi generali in materia di contratti e risoluzione di cui all’art. 1467 c.c.
(Tribunale di Napoli, Sez. III, 15.7.2022, n. 7151)
I confini delle reciproche concessioni nel contratto di transazione
La transazione è l’istituto finalizzato a conseguire il superamento del conflitto sfociato in una lite, o per prevenire quest’ultima, attraverso reciproche concessioni che danno vita ad una nuova regolazione del rapporto intersoggettivo non più conflittuale.
Il presupposto primario del contratto di transazione è, quindi, che ci sia una lite attuale o una potenziale, - giacché funzione della transazione è anche quella di porsi quale strumento negoziale di prevenzione di una lite-, e che ciascuna parte sacrifichi in parte la propria pretesa, mediante reciproche concessioni.
Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di transazione, sotto il profilo delle reciproche concessioni.
I fatti
Una società ingiungeva, nei confronti di un’altra società, il pagamento del corrispettivo per lavori di manutenzione eseguiti. In punto di fatto, la società ricorrente deduceva di essere addirittura creditrice di un importo maggiore rispetto a quello azionato in via monitoria, giacché in forza di un accordo concluso con la società avversaria l’entità del credito era stata ridotta rispetto all’importo originario.
Il giudice di primo grado, qualificato l’accordo negoziale intervenuto tra le parti come transazione, revocava il decreto ingiuntivo per integrale pagamento di quanto pattuito in via transattiva, avvenuto nelle more del giudizio.
L’impianto motivazionale veniva confermato anche in sede di gravame.
Avverso la sentenza della Corte d’appello, la società ricorre per Cassazione, censurandola nella parte in cui è stato erroneamente qualificato l’accordo come transazione, sull’assunto che difetterebbero i presupposti della transazione.
La società ricorrente qualificava l’accordo intercorso tra le parti come remissione parziale del debito, condizionata al pagamento del dovuto alle scadenze pattuite.
A parere della società ricorrente, dunque, tra le parti non vi era alcun rapporto con carattere di incertezza, ma soltanto un inadempimento da parte della società avversaria e quest’ultima non aveva compiuto alcuna concessione.
Pertanto, l’accordo doveva essere qualificato come un mero riconoscimento del debito e non come una transazione.
La decisione della Corte di Cassazione
Nel richiamare l’art. 1965 c.c.., norma che definisce il contratto di transazione, la Corte di Cassazione rigetta la tesi della società ricorrente.
In particolare, la Corte afferma che per integrare l’elemento della “res litigiosa” non occorre che le rispettive tesi delle parti abbiano assunto la determinatezza propria della pretesa, essendo sufficiente l’esistenza di un dissenso potenziale, pur se ancora da definire nei più precisi termini di una lite, e non esteriorizzata in una rigorosa formulazione.
Con riferimento alle reciproche concessioni, la Corte ha, poi, evidenziato come sia stato ritenuto idoneo anche un accordo con il quale le parti si limitano ad apportare modifiche solo quantitative ad una situazione già in atto e a regolare il preesistente rapporto mediante reciproche concessioni, consistenti (anche) in una bilaterale e congrua riduzione delle opposte pretese in modo da realizzare un regolamento di interessi sulla base di un “quid medium” tra le prospettazioni iniziali.
Più in generale, è stato affermato dai giudici di legittimità che in tema di transazione, le reciproche concessioni devono essere intese in correlazione con le reciproche pretese e contestazioni e non già in relazione ai diritti effettivamente a ciascuna delle parti spettanti.
Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, dunque, l’accordo concluso dalle parti integrava una vera e propria transazione. Allo scopo, infatti, di superare un dissenso potenziale, l’accordo prevedeva che la debitrice si obbliga a versare alla ricorrente un importo che costituiva un quid medium tra la pretesa avanzata da quest’ultima e quanto invece riteneva di dover versare la debitrice.
Indicazioni operative
Il contratto di transazione può essere dunque definito come un contenitore, all’interno del quale le parti possono ricondurre i più svariati rapporti giuridici tra loro esistenti e dal quale possono scaturire nuovi rapporti, nei limiti della disponibilità ad opera delle parti dei diritti che ne formano oggetto.
Ad ogni buon conto, ciò che conta è che dalla scrittura contenente la transazione risultino gli elementi essenziali della transazione e, quindi, la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista, la “res dubia” o la “res litigiosa”, vale a dire la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche delle parti, nonché il nuovo regolamento di interessi che, mediante reciproche concessioni, viene a sostituirsi a quello precedente cui si riconnetteva la lite o il pericolo di lite.
(Cass. civ., Sez. III, 31.8.2022, n. 25600)
by Sara Turzo