Roma, ancora incertezze sul regime di autorizzazione paesaggistica della "zona UNESCO".

Una recente sentenza del TAR Lazio torna ad affrontare il tema del regime di autorizzazione paesaggistica per interventi realizzati nella "zona UNESCO" di Roma, facendo così riaffiorare per operatori, cittadini e per le stesse Pubbliche Amministrazioni coinvolte incertezze operative di non poco conto.

In questo contributo, in modo necessariamente non esaustivo, cerchiamo dunque di esaminare i tratti fondamentali della questione.

I. La sentenza TAR Lazio n. 17967/2023: obbligatoria (anche) l'autorizzazione paesaggistica.

Oggetto del contendere è un intervento edilizio posto in essere su un immobile sito nella Città Storica di Roma, in area ricadente, da PTPR, in "paesaggio degli insediamenti urbani storici", sito all'interno del perimetro della c.d. zona UNESCO.

Alcuni soggetti controinteressati, nel contestare l'intervento oggetto di una SCIA del 2016 (dato cronologico importante, questo, al fine di "perimetrare" le conseguenze della sentenza), hanno in particolare eccepito che le opere oggetto di tale titolo abilitativo avrebbero necessitato non solo del parere previsto ex art. 24, co. 19 NTA PRG (che, in zona UNESCO, sottopone gli interventi a rilevanza esterna al parere della Soprintendenza del Ministero dei beni culturali) ma anche, ricadendo l'immobile in un'area tutelata paesaggisticamente (ex art. 134 e 136 d.lgs. 42/2004), ad autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del d.lgs. 42/2004.

Dinanzi al TAR il soggetto titolare della SCIA ha eccepito - conformemente alla posizione espressa dalla Soprintendenza statale - che per gli immobili ricadenti in zona UNESCO non occorreva acquisire l'autorizzazione paesaggistica, in virtù del disposto dell'allora vigente PTPR adottato il quale, all'art. 43 co. 15 delle NTA disponeva che

Le disposizioni del presente articolo [relativo, appunto, agli "Insediamenti urbani storici e relativa fascia di rispetto"] non si applicano agli insediamenti urbani storici ricadenti fra i beni paesaggistici di cui all’art.134 comma 1 lettera a) del Codice, per i quali valgono le modalità di tutela dei “Paesaggi” e alle parti ricadenti negli insediamenti storici iscritti nella lista del Patrimonio dell’Unesco (Roma – centro storico, Tivoli – Villa d’Este e Villa Adriana, Necropoli etrusche di Tarquinia e Cerveteri) per i quali è prescritta la redazione del Piano generale di gestione per la tutela e la valorizzazione previsto dalla “Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale” firmata a Parigi il 10 novembre 1972 ratificata con legge 6 aprile 1977 n. 184 e successive modifiche ed integrazioni"

Il TAR Lazio, tuttavia, dando seguito ad un proprio orientamento (che avevamo in passato già commentato) ha ritenuto che tale norma del PTPR (come vedremo, oggi vigente con diversa formulazione) non possa essere letta nel senso di esentare dall'autorizzazione paesaggistica ex art. 146 d.lgs. 42/2004 gli interventi posti in essere nell'area UNESCO, con conseguente "sommatoria" tra parere soprintendentizio rilasciato in base al PRG (e al Protocollo d'intesa tra Roma e Ministero).

In tal senso secondo il Giudice amministrativo - e quindi in favore dell'obbligo di  acquisizione della "ordinaria" autorizzazione paesaggistica oltre al parere previsto dall'art. 24 co. 19 NTA PRG Roma - vi sarebbero alcuni elementi, così sintetizzabili:

  • la norma di PTPR (ratione temporis applicabile alla SCIA del 2016) varrebbe tutt'al più "ad escludere soltanto l’applicabilità, nei confronti dei siti storici urbani UNESCO, tra cui espressamente va annoverato quello di “Roma – centro storico”, delle prescrizioni di tutela dalla medesima [ossia le previsioni di cui ai precedenti commi dell'art. 43 NTA PTPR) contemplate per la generalità dei “centri storici” del Lazio, demandando la relativa regolamentazione ad un atto ad hoc (Piano di gestione)";
  • infatti, l'esclusione, in radice, dell'obbligo di autorizzazione paesaggistica si porrebbe in contrasto con il quadro legislativo nazionale e sovranazionale che, nell'istituire siti protetti in base alla convenzione UNESCO, impone livelli di tutela maggiori e non "attenuati";
  • il PTPR mai potrebbe, allora, derogare a indirizzi legislativi nazionali, derivanti da obblighi internazionali, "allegerendo" il regime autorizzatorio per i siti UNESCO.

E' sulla scorta di tali ragioni che il TAR afferma il principio in base al quale "gli interventi edilizi che si intendano intraprendere su immobili ricompresi in luoghi o siti iscritti nella menzionata Lista UNESCO,(...) , devono necessariamente essere subordinati alla preventiva autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 d. lgs. n. 42/2004, quale “atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio” ".

 

II. L'evoluzione della disciplina del PTPR nelle successive approvazioni.

Come detto, la sentenza - pur recando rilevanti affermazioni generali di principio - ha ad oggetto una fattispecie nella quale veniva in rilievo una disposizione - quella relativa al regime delle zone UNESCO ricadenti in PTPR - che nel tempo è stata modificata ben due volte.

La prima versione è quella, sopra richiamata, di cui all'adozione del PTPR, interpretata "restrittivamente" dalla giurisprudenza del TAR Lazio.

Ed è appena il caso di ricordare che detta previsione è stata, nel tempo, pacificamente (sino alle decisioni del TAR Lazio, ultima delle quali quella oggetto del presente breve commento) interpretata come una esenzione dall'obbligo di autorizzazione paesaggistica, come "attestato", tra l'altro, anche dalla Regione Lazio la quale, interpellata in merito alla necessità di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del d.lgs. 42/2004, aveva chiarito che nel centro di Roma, zona UNESCO (in assenza di altri beni/vincoli paesaggistici individuati ex art. 134 d.lgs. n. 42/2004) “non è necessaria la richiesta dell’autorizzazione paesaggistica” (così il parere di cui alla nota prot. 94875 del 19.6.2009, Dipartimento Territorio).

Successivamente, una "seconda versione" della disciplina in esame è stata quella risultante dall'approvazione, avvenuta con la DGR n. 5 del 2.8.2019, pubblicata nel BURL del 13.2.2020, la disposizione è recata nell’art. 44 (“Insediamenti urbani storici e relativa fascia di rispetto“) e, in particolare, al co. 19, in base al quale:

Non si applicano le disposizioni di cui al presente articolo all’insediamento urbano storico sito Unesco – centro storico di Roma. All’interno di tale perimetro, le valutazioni in ordine alla conformità e compatibilità paesaggistica degli interventi sono esercitate dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma, secondo quanto stabilito dal Protocollo d’Intesa tra Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed il Comune di Roma (QI/57701 dell’8 settembre 2009)”

Tuttavia, come è noto, la DGR di approvazione del 2019 è stata oggetto di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dinanzi alla Corte costituzionale dal Ministero dei beni culturali e del paesaggio (oggi "Ministero della Cultura") contro la Regione Lazio, per ritenuta violazione dell'obbligo di concertazione e "coordinamento" in sede di approvazione del Piano territoriale paesaggistico da parte dell'Ente Locale.

E, proprio con specifico riferimento alla disciplina dell'area UNESCO nel ricorso dell'Avvocatura dello Stato si eccepiva che

“per il centro storico di Roma, al quale non si applica l’art. 44, la regione – al comma 19 – modifica il corrispondente testo del 2015, secondo il quale, in relazione alla particolarita’ del sito, era prevista l’applicazione di specifiche prescrizioni di tutela da definirsi congiuntamente tra regione e Ministero. Nel testo approvato, tali previe prescrizioni non sono più contemplate e si rimette ogni valutazione dei singoli interventi alla Soprintendenza, facendo riferimento a un protocollo d’intesa con il Comune di Roma risalente al 2009 e non pertinente. Il PTPR rinuncia così, in sostanza, a esercitare il ruolo doveroso di disciplinare complessivamente e sulla base di una visione d’insieme gli interventi nel sito UNESCO del centro storico di Roma”

In buona sostanza, il Ministero aveva contestato che il rinvio al protocollo d’intesa Roma Capitale – MiBAC non fosse sufficiente ad integrare una idonea disciplina di tutela paesaggistica, occorrendo invece, l’individuazione di “specifiche prescrizioni di tutela da definirsi congiuntamente tra regione e Ministero“.

E' poi intervenuta la sentenza della Corte costituzionale che, accogliendo l'impugnativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha annullato l'approvazione del PTPR.

A valle dell'annullamento e, dunque, di una nuova (stringente) "concertazione" tra Stato (Ministero) e Regione, la disciplina relativa alla zona UNESCO è oggi delineata dal nuovo art. 44, co. 19, delle NTA PTPR, a mente del quale:

Non si applicano le disposizioni di cui al presente articolo all’insediamento urbano storico sito Unesco - centro storico di Roma. L’applicazione di specifiche prescrizioni di tutela da definirsi, in relazione alla particolarità del sito, congiuntamente da Regione e Ministero, decorre dalla loro individuazione con le relative forme di pubblicità. Nelle more della definizione di tali specifiche prescrizioni, il controllo degli interventi è comunque garantito dalla Soprintendenza competente nel rispetto di quanto stabilito dal Protocollo d’Intesa tra Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed il Comune di Roma (QI/57701 dell’8 settembre 2009)

La nuova, e definitiva, versione del PTPR appare, ben più lineare e, a nostro avviso, non suscettibile di essere interpretata secondo i criteri individuati dal TAR Lazio nelle citate decisioni, riferite, infatti al testo del piano paesaggistico solo adottato.

Infatti, la scelta (concertata, si ripete, tra Ministero e Regione) è nel senso di:

  • prevedere la non applicazione della disciplina "ordinaria" che il PTPR detta per gli "insediamenti urbani storici";
  • demandare ad un successivo atto le specifiche prescrizioni per l'area UNESCO di Roma (l'adottando "Piano di gestione");
  • chiarire, in modo cristallino, che fintanto che non interverrà tale nuova disciplina prescrittiva, il regime autorizzatorio è quello individuato dal protocollo di intesa MiC - Roma Capitale , con un sostanziale (ancorché "a tempo") upgrade della disciplina di PRG (art. 24, co. 19 NTA) elevata a normativa "anche paesaggistica".

III. Qualche considerazione finale.

Come accennato, se è vero che l'ultima sentenza del TAR Lazio reca affermazioni di principio astrattamente idonee ad "andare oltre" alla normativa ratione temporis applicata (ossia il "vecchio" art. 43, co. 15 NTA PTPR), occorre osservare come ad oggi il vigente art. 44 co. 19 NTA PTPR non pare consentire (salvo sua rituale impugnativa in futuri giudizi amministrativi che dovesse concludersi con una espressa pronuncia di annullamento) di ritenere operante l'obbligo di acquisire l'autorizzazione paesaggistica ex art. 146 d.lgs. 42/2004 per intervento nella Città Storica di Roma Capitale - zona UNESCO.

Nonostante tale (possibile e sommaria) conclusione, appare comunque opportuno ed urgente che, sia per l'attualità che  in relazione a iter urbanistico-edilizi conclusisi in passato, il Ministero, la Regione (e Roma Capitale, in sede di revisione, in itinere, delle NTA PRG) affrontino il tema, fornendo ad operatori privati ed uffici pubblici una chiara linea di indirizzo, onde evitare dubbi, contenziosi e scenari caotici che rischiano di coinvolgere importanti investimenti ed operazioni di riqualificazione della Città.

D'altronde, sia consentito osservarlo, non è dato comprendere l'utilità concreta (al livello di tutela) di doppiare il regime autorizzatorio previsto dal PRG con una ulteriore autorizzazione paesaggistica resa dal medesimo soggetto istituzionale (la Soprintendenza speciale per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma).


Rigenerazione urbana a Roma: sempre dovuto il contributo straordinario negli interventi ex art. 6 L.R. 7/2017?

Un recente parere del Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica di Roma torna a trattare il tema dell'obbligo, o meno, del versamento del contributo straordinario in caso di interventi ex art. 6 L.R. 7/2017, affermando (confermando: il tema era stato già oggetto di "chiarimenti" nella Circolare dello scorso ottobre ) che tutti gli interventi di rigenerazione urbana, in quanto in deroga al PRG, sono soggetti al contributo straordinario secondo la disciplina dell'art. 20 NTA.

A nostro avviso le conclusioni del DPAU - pur molto chiaramente esposte ed argomentate - non sono del tutto condivisibili.

 

I. Il quadro normativo e pianificatorio di riferimento: il contributi straordinario nel PRG di Roma, nella L.R. Lazio 7/2017 ("rigenerazione urbana") e nel D.P.R. 380/01.

I tasselli normativi per inquadrare la questioni sono da rinvenirsi a vari livelli:

  • l'art. 16, co. 4, lett. d-ter) (lettera introdotta nel 2014 e modificata nel 2020),  del D.P.R. 380/01 dove il legislatore prevede che i Comuni, con proprie deliberazioni consiliari, disciplinano l'incidenza degli oneri di urbanizzazione in relazione, tra l'altro, al "maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica o in deroga", con conseguente corresponsione, appunto, del "contributo straordinario";
  • l'art. 20 NTA PRG Roma (approvato nel 2008), disposizione che nel prevedere che "le più rilevanti valorizzazioni immobiliari, generate dalle previsioni del presente PRG rispetto alla disciplina urbanistica previgente, sono soggette a contributo straordinario di urbanizzazione, commisurato a tali valorizzazioni e posto a carico del soggetto attuatore", stabilisce poi che le singole norme di componente individuano quali aumenti di SUL o cambi d'uso determinino l'onere di versamento del contributo straordinario;
  • la L.R. Lazio 7/20107 che nulla dispone in termini generali, limitandosi però a prevedere una riduzione del contributo in parola nei casi di interventi posti in essere dagli enti gestori di edilizia residenziale pubblica (art. 6, co. 4-bis, introdotto nel 2022).

II. Il parere DPAU del 14.11.2023: rigenerazione urbana e contributo straordinario.

A fronte di tale quadro normativo - esaustivamente ricostruito nel proprio parere - il DPAU perviene, in estrema sintesi, alla conclusione che, pur in assenza di un norma "puntuale" nella L.R. 7/2017 (come visto, l'unica disposizione sul punto ha natura "speciale"), la circostanza che gli interventi di rigenerazione urbana sono "in deroga", in uno alla sussistenza della norma nazionale "generale" (l'art. 16, co. 4, lett. d-ter) D.P.R. 380/01), con conseguente assoggettamento degli interventi ex art. 6 L.R. 7/2017 all'obbligo di versamento del contributo straordinario previsto dall'art. 20 NTA PRG.

Quest'ultimo contributo straordinario, afferma il DPAU, sarebbe (ancorché anteriore al 2014) da ricondurre a quello disciplinato dal D.P.R. 380/01 (il quale si inserisce "nell'ambito della materia dei criteri di computo del contributo per oneri di urbanizzazione dovuto dal privato per il rilascio del permesso di costruire")

 

III. Alcuni spunti critici.

Il ragionamento, approfondito, e le conclusioni cui è pervenuto il DPAU non convincono del tutto e meritano alcune riflessioni critiche.

In particolare, non persuade a pieno la riconduzione tout court del contributo straordinario ex art. 20 NTA PRG a quello ex art. 16, co. 4, lett. d-ter) D.P.R. 380/01.

Al riguardo, infatti, il Consiglio di Stato, con la sentenza 12.9.2018, n. 5348  , ha chiarito la differenza tra il contributo straordinario "romano" (il quale "vive in una dimensione tutta urbanistica") ed il contributo straordinario previsto dal D.P.R. 380/01 (il quale si colloca "nell'ambito della materia dei criteri di computo del contributo per oneri di urbanizzazione dovuto dal privato per il rilascio del permesso di costruire"). 

Se è corretta - e a noi pare esserlo - la ricostruzione del Consiglio di Stato, allora dovrebbe constatarsi che, ad oggi, a Roma difetti una disciplina sul contributo straordinario ex art. 16, co. 4, lett. d-ter) D.P.R. 380/01 (che, infatti, la norma affida ad una delibera ad hoc).

Seguendo tale logica, allora, la disciplina del contributo straordinario "romano", dettata dalla normativa di Piano, si riferisce non già a "qualunque" ipotesi di intervento in variante o deroga (come nella fattispecie di c.s. delineata dal D.P.R. 380/01) bensì alle sole ipotesi individuate dalle singole norme di tessuto.

Dunque, al netto della questione "di fondo" (la dubbia assimilabilità del c.s. "nazionale" con il c.s. "romano") difetterebbe, per le ipotesi di interventi ex L.R. 7/2017 estranei alle fattispecie per le quali il PRG prevede il versamento del c.s. ex art. 20 NTA PRG, anche una "copertura" regolamentare da parte dello stesso PRG.

In tale (problematico) contesto, non pare sufficiente, a nostro avviso, agganciare una "implicita" doverosità del c.s. in caso di interventi ex L.R. 7/2017 alla mera previsione dell'art. 6, co. 4-bis il quale ben potrebbe essere inteso a disciplinare una riduzione del contributo straordinario ex art. 16, co. 4, lett. d-ter) D.P.R. 380/01 per i soli casi in cui detto c.s. sia, "a monte", disciplinato specificamente dai singoli Comuni.

 


Piano Regolatore Generale

Permesso di costruire convenzionato: quando?

Con la L. 164/2014 è stato introdotto tramite l'art. 28-bis del D.P.R. 380/01- recependolo da una consolidata prassi amministrativa -  l'istituto del "Permesso di costruire convenzionato".

La norma (che trova poi talune declinazioni anche nelle varie legislazioni regionali) dispone che "Qualora le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata, è possibile il rilascio di un permesso di costruire convenzionato", prevedendosi, ulteriormente, la competenza in capo al Consiglio comunale (ovvero alla Giunta, a seconda della disciplina regionale di riferimento) per l'approvazione della convenzione, la quale "specifica gli obblighi, funzionali al soddisfacimento di un interesse pubblico, che il soggetto attuatore si assume ai fini di poter conseguire il rilascio del titolo edilizio, il quale resta la fonte di regolamento degli interessi" (co. 2).

Il comma 3 della disposizione, poi, individua taluni contenuti della convenzione (cessione di aree, realizzazione di opere di urbanizzazione, caratteristiche morfologiche degli interventi, realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale).

 

Permesso di costruire convenzionato: è necessaria o meno la sua previsione nello strumento urbanistico?

Una prima lettura dell'art. 28-bis TUEd suggerirebbe, ad avviso di chi scrive, che il ricorso all'intervento diretto convenzionato presupponga, "semplicemente", una valutazione puntuale circa le condizioni dell'area di intervento.

Ciò parrebbe suggerito dal citato comma 1 dell'art. 28-bis TUEd il quale, infatti, individua quale requisito per il ricorso al permesso di costruire convenzionato la verifica che "le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata", condizione al ricorrere della quale "è possibile il rilascio di un permesso di costruire convenzionato".

La norma, insomma, sembrerebbe non ricalcare il meccanismo previsto per piani particolareggiati e Piani di Lottizzazione, ossia ipotesi nelle quali è (e deve essere) il PRG a sottoporre l'edificabilità di talune aree a strumento indiretto.

Sicché, sembrerebbe in realtà che - assai opportunamente, peraltro - il Legislatore abbia voluto introdurre nel sistema una ipotesi intermedia tra intervento diretto in deroga all'obbligo di strumento attuativo (l'ipotesi elaborata dalla giurisprudenza del "lotto intercluso") e la regola della necessaria previa approvazione dello strumento attuativo stesso.  E ciò tramite un titolo edilizio, accompagnato da una convenzione e preceduto da una valutazione circa la sussistenza del citato requisito delle "limitate esigenze di urbanizzazione".

In tale logica, per così dire graduata, era sembrata muoversi fino ad oggi la giurisprudenza.

Essa, in particolare, aveva affermato che il permesso di costruire convenzionato “si propone come una modalità alternativa agli strumenti urbanistici attuativi che può essere impiegata qualora le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte, sotto il controllo del Comune, con una modalità semplificata” (Consiglio di Stato n. 8544/2021).

Ancora più di recente - e più chiaramente - TAR Campania, Napoli n. 2281/2022, dopo aver richiamato la citata decisione del Consiglio di Stato, ha precisato che “In sostanza, il permesso di costruire convenzionato - definita versione “alternativa e aggiornata” della lottizzazione convenzionata (T.A.R. Piemonte, Sent. n. 514/2020) - costituisce una modalità semplificata per l’adozione di atti di pianificazione attuativa, la cui più proficua applicazione può avvenire proprio in zone già parzialmente urbanizzate”.

Ecco che, in tale logica, così come il ricorso al titolo diretto in aree soggette a strumento attuativo (al ricorrere della fattispecie del lotto intercluso e della inutilità in concreto del ricorso alla pianificazione di secondo grado), anche il ricorso al permesso di costruire convenzionato (al ricorrere della condizione di esigenze di urbanizzazione suscettibili di esser soddisfatte  in  modalità semplificata) parrebbe non richiedere di una espressa previsione a monte da parte del PRG, trovando la sua legittimazione direttamente nella Legge.

D'altronde, a favore di una simile ricostruzione parrebbero militare sia il disposto dell'art. 28-bis D.P.R. 380/01 che, come detto,  in nessun passaggio si riferisce alla necessità di scelta "a monte" da parte del PRG, sia la circostanza che plus semper in se continet quod est minus, di talché, se è possibile ricorrere (addirittura) al titolo diretto "puro" sebbene in presenza di un astratto obbligo di previo strumento attuativo, allora non dovrebbero esservi ostacoli laddove in luogo dello strumento attuativo si ricorra ad uno strumento "diretto ma convenzionato", dove la "regia" pubblica è comunque presente.

Ed in tal senso risulta si fosse orientata anche la prassi amministrativa, come, ad esempio, il parere della Regione Lazio del 24.1.2022 e nel parere del 15.1.2018  dove si evidenzia che vista "la portata generale dell’istituto",  "ne è consentito l’impiego anche quando lo stesso non sia previsto dalle norme tecniche attuative dei singoli piani regolatori".

Le recenti precisazioni del Consiglio di Stato.

Tale ricostruzione è stata, tuttavia, di recente messa in discussione da un diverso (e a nostro avviso non condivisibile) orientamento del Consiglio di Stato.

Ci si riferisce alle sentenze della Sezione IV, 30.5.2023 n, 5293  e 16.10.2023, n. 9001 nelle quali si afferma l'opposto principio secondo il quale "L’art.28-bis del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 rimette agli strumenti urbanistici la definizione delle aree soggette a permesso di costruire convenzionato. In sostanza, si tratta di una disposizione che deve comunque essere declinata nello strumento urbanistico. Il “convenzionamento” costituisce infatti una modalità semplificata introdotta dalla legge statale al posto del piano attuativo che, nel caso di specie, per l’intervento di cui trattasi, lo strumento urbanistico non richiede".

Tale impostazione, per le ragioni poc'anzi esposte, non convince.

Infatti, come visto, da un lato non pare che l'art. 28-bis TUEd rinvii in qualche modo ad una presupposta valutazione da parte del PRG.

D'altronde, la valutazione che l'art. 28-bis demanda al Comune circa la circostanza che "le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata" pare riferibile più ad una valutazione "del caso concreto" (ossia della singola istanza edificatoria) che non "generale" e "a monte".

Simile approdo interpretativo del Consiglio di Stato, inoltre, necessita di essere vagliato anche alla luce delle "scelte di dettaglio" poste in essere dalla legislazione regionale.

E' il caso, ad esempio, della L.R. Lazio n. 36/1987, il cui art. 1-ter, dispone al comma 1 che " L’accertamento delle condizioni per l’utilizzo del permesso di costruire convenzionato di cui all’articolo 28 bis, comma 1, del d.p.r. 380/2001 è effettuato dalla Giunta comunale, anche su istanza del soggetto attuatore entro sessanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza da parte del medesimo soggetto". 

Impostazione, quest'ultima, che pare presupporre in radice non già la sussistenza di una scelta "astratta e generale" da parte del PRG, quanto, piuttosto, conferire (in armonia con l'art. 28-bis TUEd) una potestà valutativo-discrezionale riferita al "caso concreto".

 

 


Rigenerazione urbana a Roma: il (problematico) rapporto tra Carta per la Qualità ed interventi ex art. 6 L.R. 7/2017

Con Determina del_14.4.2023 , il Dipartimento Programmazione ed Attuazione Urbanistica - DPAU ha istituito la "Procedura per la valutazione delle proposte di interventi in attuazione dell’art. 6 della L.R.7/2017 dei beni inseriti nell’elaborato “Carta per la Qualità” del PRG Vigente".

La disciplina procedimentale in questione, se da un lato fornisce una risposta "formale" alla questione dei rapporti tra art. 6 L.R. Lazio 7/2017 sulla rigenerazione urbana ed art. 16, co. 10, N.T.A. P.R.G., dall'altro lato, suscita a nostro avviso alcune perplessità circa il tema, sostanziale, e di fondo, di "quanto e come" le previsioni/prescrizioni della Carta per la Qualità possano influire sull'attuazione degli interventi diretti di rigenerazione urbana.

In questo contributo, quindi, alcune considerazioni al riguardo.

I. L'onere di acquisire il parere della Sovrintendenza Capitolina nei progetti ex art. 6 L.R. 7/2017.

L'assunto dal quale prende le mosse la disciplina regolamentare in esame è che l'obbligo di acquisire il parere della Sovrintendenza Capitolina non sia derogabile in base al disposto dell'art. 6 L.R. 7/2017.

Tale assunto affonda le sue radici nel riscontro che, a preciso quesito del DPAU, ha fornito la Regione Lazio in un parere del 22.7.2022, secondo cui non costituendo il parere né una modalità attuativa né una prescrizione esso deve comunque essere richiesto, anche per gli interventi ex art. 6 L.R. 7/2017.

Tale lettura, d'altronde, ha trovato conferma anche nella giurisprudenza del TAR Lazio.

 

II. Il problema degli eventuali "divieti" posti dalla Carta per la Qualità.

Il parere regionale, tuttavia, non affronta in alcun modo il tema (sostanziale e non procedimentale) di fondo: cosa ne è dei casi in cui le previsioni della Carta per la Qualità si pongano come ostative a determinati interventi, invece ammissibili (tanto dal punto di vista della categoria edilizia quanto da quello della destinazione d'uso) tramite le deroghe ex art. 6 co. 1-2 della L.R. 7/2017?

Si pensi, a titolo di esempio, a quelle "indicazioni" dell'elaborato G.1 della CQ, ovvero dettate direttamente dall'art. 16 NTA PRG, che considerano ammissibili solo talune specifiche destinazioni ovvero che limitino le categorie di intervento vietando la demolizione e ricostruzione

In tali casi il parere della Sovrintendenza che recepisca sic et simpliciter tali previsioni finisce per divenire una "prescrizione" in contrasto con i commi 1 e 2 dell'art. 6 L.R. 7/2017 che, come noto, da un lato considerano sempre possibili gli interventi di ristrutturazione edilizia e demo-ricostruzione con ampliamento volumetrico (a condizione che siano raggiunte le finalità di rigenerazione urbana ex art. 1 L.R. 7/2017) e, dall'altro, ammettono i cambi d'uso in deroga a speciali limitazioni di Piano.

Insomma: un conto è affermare che l'obbligo di richiedere il parere alla Sovrintendenza non si pone (in sé) come una prescrizione, altro è ammettere che tramite il contenuto del parere possano trovare ingresso quelle medesime prescrizioni pianificatorie che la L.R. 7/2017 ha invece ritenuto derogabili (sempre a condizione, unica, del perseguimento delle finalità di rigenerazione urbana).

 

III. Le conseguenti criticità ed una possibile lettura "adeguatrice"

Ecco che - sia pur nell'apprezzabile sforzo di tracciare una disciplina procedimentale univoca - la DD dello scorso aprile lascia aperti alcuni dubbi di legittimità.

In particolare, dunque, appare quantomeno problematico ipotizzare che - appurato preliminarmente il perseguimento di obiettivi di rigenerazione urbana (verifica tutt'altro che facile e lineare, stante la genericità della L.R. 7/2017 sul punto) - un intervento ex art. 6 L.R. 7/2017 possa essere denegato per un mero contrasto con le previsioni della Carta per la Qualità (ad esempio vietando un cambio d'uso perché non ammesso da tale elaborato di PRG ovvero non ammettendo un dato intervento di ristrutturazione edilizia o demolizione e ricostruzione in quanto non ammesso su un dato immobile in quanto censito in CQ).

In tale prospettiva, allora, una possibile lettura mediana ed "adeguatrice" può consistere nella possibilità che la Sovrintendenza Capitolina (in seno alla Commissione istituita per l'esame delle pratiche ex art. 6 L.R. 7/2017), lungi dal dare pedissequa applicazione alle indicazioni (ossia: prescrizioni) della Carta per la Qualità, concorra, dal punto di vista dell'esame dell'impatto del progetto rispetto ai caratteri storici ed architettonici, a valutare se gli obiettivi di rigenerazione urbana siano perseguiti anche in caso di trasformazione (fisica e/o funzionale) di un immobile tutelato dalla medesima CQ e ciò, auspicabilmente, non secondo la logica "on-off", bensì dell'apporto collaborativo e del c.d. dissenso costruttivo.

Prospettiva, quella ora ipotizzata, comunque particolarmente difficile da perseguire laddove ci si trovi ad affrontare progetti che - in ossequio al co. 1 dell'art. 6 L.R. 7/2017 - si realizzino tramite l'intervento di demolizione e ricostruzione con ampliamento volumetrico.

 

 


NCC e Taxi: dalla Corte di Giustizia uno stop chiaro al contingentamento delle licenze.

In tema di servizio di trasporto pubblico non di linea, una delle questioni più discusse e delicate è quella del contingentamento delle licenze. Il tema, come è noto, non è oggetto di riflessione esclusivamente "giuridica" ma anche economica (note sono le proposte di liberalizzazione delle licenze Taxi, come ad esempio quelle illustrate dall'Istituto Bruno Leoni).

La più volte abbozzata, discussa e preannunciata riforma della "Legge quadro" n. 21/92 è ancora arenata e si trascina di legislatura in legislatura.

Un importante input perviene però, sul tema del contingentamento delle licenze, dalla Corte di Giustizia, con la sentenza della I Sezione 8.6.2023 in C.50/21.

I. Il caso sottoposto alla CGUE: il contingentamento licenze NCC a Barcellona.

In virtù dell'articolata disciplina nazionale e locale (catalana),  è determinata "la limitazione del numero di licenze di servizi di NCC a un trentesimo delle licenze di servizi di taxi" nel territorio dell'agglomerato urbano di Barcellona.

Il Tribunal Superior de justicia de Cataluña, a fronte di tale restrizione nell'accesso al mercato NCC, ha quindi sottoposto alla CGUE il quesito "Se [l’articolo] 49 e [l’articolo] 107, paragrafo 1, TFUE ostino a disposizioni nazionali – legislative e regolamentari – che, senza alcuna ragione plausibile, limitano le autorizzazioni NCC a una ogni trenta licenze di taxi o meno".

Il tema, quindi, ruota sulle restrizioni alla liberta di stabilimento ai sensi dell'art. 49 TFUE che, ricorda la stessa CGUE nell'inquadramento giuridico della vicenda, "possono essere ammesse solo a condizione, in primo luogo, di essere giustificate da un motivo imperativo di interesse generale e, in secondo luogo, di rispettare il principio di proporzionalità, il che implica che esse siano idonee a garantire, in modo coerente e sistematico, la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non eccedano quanto necessario per conseguirlo (sentenza del 7 settembre 2022, Cilevičs e a., C‑391/20, EU:C:2022:638, punto 65 nonché giurisprudenza ivi citata)".

Le ragioni imperative di interesse generale illustrate dalle Autorità spagnole dinanzi alla CGUE consistono nell'obiettivo di garantire "la qualità, la sicurezza e l’accessibilità dei servizi di taxi nell’agglomerato urbano di Barcellona, considerati come un «servizio di interesse generale», in particolare mantenendo un «equilibrio adeguato» tra il numero dei prestatori di servizi di taxi e quello dei prestatori di servizi di NCC, poi, una corretta gestione del trasporto, del traffico e dello spazio pubblico all’interno di tale agglomerato urbano e, infine, la protezione dell’ambiente in detto agglomerato".

In particolare, il contingentamento operante a Barcellona mirerebbe a proteggere la sostenibilità economica del servizio Taxi (soggetto ad obblighi di servizio universale e tariffe regolate) a fronte della concorrenza derivante dai prestatori di servizio NCC (p.ti 65-67 sentenza)

II. Le valutazioni della CGUE: la sostenibilità economica del servizio Taxi è inidonea a giustificare la misura protezionistica in danno degli NCC.

La Corte evidenzia, quale premessa generale e fondamentale, che "obiettivi di natura puramente economica non possono costituire un motivo imperativo di interesse generale idoneo a giustificare una limitazione di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (sentenze dell’11 marzo 2010, Attanasio Group, C‑384/08, EU:C:2010:133, punto 55, e del 24 marzo 2011, Commissione/Spagna, C‑400/08, EU:C:2011:172, punto 74 nonché giurisprudenza ivi citata). La Corte ha segnatamente dichiarato, in tal senso, che l’obiettivo di garantire la redditività di una linea d’autobus concorrente, quale motivo di natura puramente economica, non può costituire un motivo imperativo di interesse generale (sentenza del 22 dicembre 2010, Yellow Cab Verkehrsbetrieb, C‑338/09, EU:C:2010:814, punto 51)".

Data tale premessa - pienamente in linea con precedenti arresti della medesima CGUE - si afferma conseguentemente che "l'obiettivo di garantire la praticabilità economica dei servizi di taxi deve essere considerato, anch’esso, un motivo di natura puramente economica che non può costituire un motivo imperativo di interesse generale (...)".

Un ulteriore ed importante passaggio della sentenza attiene alla qualificazione del servizio di Taxi quale "servizio di interesse economico generale" (c.d. SIEG).

Le Autorità spagnole avevano, infatti, cercato di giustificare la misura protezionistica in ragione del fatto che ai prestatori del servizio Taxi è affidato un SIEG.

Al riguardo la CGUE contrappone due ordini di rilievi.

Da un primo punto di vista la Corte mette in discussione la sussistenza di una così pregnante normativa pubblicistica (in punto di obblighi di servizio pubblico), atteso che " un servizio può rivestire un interesse economico generale quando detto interesse presenti caratteri specifici rispetto a quello di altre attività della vita economica" e che "dunque che le imprese beneficiarie siano state effettivamente incaricate dell’adempimento di obblighi di servizio pubblico e che tali obblighi siano chiaramente definiti nel diritto nazionale, il che presuppone l’esistenza di uno o più atti di esercizio del potere pubblico che definiscano in maniera sufficientemente precisa almeno la natura, la durata e la portata degli obblighi di servizio pubblico gravanti sulle imprese incaricate dell’adempimento di tali obblighi". 

Un secondo ordine di considerazioni attiene al rilievo che, in ogni caso, ai sensi dell'art. 106 TFUE, le imprese incaricate di un SIEG sono comunque soggette alle regole di concorrenza potendosi derogare alle stesse solo laddove sia dimostrato che queste si pongano come un ostacolo all'adempimento del servizio di interesse economico generale.

La questione si sposta, quindi, sulla valutazione circa la proporzionalità delle misure adottate a tutela dei prestatori del servizio Taxi in danno dei prestatori del servizio NCC.

La Corte perviene alla conclusione che il contingentamento del servizio NCC non è idoneo a perseguire i dichiarati obiettivi di "gestione del trasporto, del traffico e dello spazio pubblico nonché di protezione dell’ambiente" e ciò in ragione dell'avvenuta dimostrazione del fatto che  (i) i servizi di NCC riducono il ricorso all’automobile privata; (ii) non determinano interferenze circa l'occupazione della viabilità pubblica (essendo precluso agli NCC lo stazionamento); (iii) sono caratterizzati da digitalizzazione e flessibilità; (iv) in base alla normativa statale è incentivata una flotta che adopera energie alternative.

Inoltre, sottolinea la conclusivamente la CGUE, in ogni caso il perseguimento di finalità di interesse generale (che non possono comunque coincidere con scopi meramente economici)  legate a talune forme di protezione dei prestatori del servizio Taxi ben potrebbe essere perseguita con misure meno invasive rispetto al contingentamento del numero delle licenze, previsione, quest'ultima, in ogni caso violativa del principio di proporzionalità.

III. I possibili impatti sul diritto interno.

La decisione è di sicuro interesse poiché, enunciando il principio per il quale la misura del contingentamento - oggi vigente nel nostro ordinamento per il rilascio delle licenze Taxi - è da considerarsi in linea di principio anticompetitiva e comunque non giustificabile se non in relazione ad altri interessi pubblici imperativi (tra i quali è da escludere la mera protezione dei soggetti già autorizzati ed operanti), rafforza i dubbi di legittimità del sistema a numero chiuso operante in Italia.

Ma il principio enucleato dalla sentenza CGUE nel ribadire che ogni misura restrittiva della concorrenza (i) deve essere connessa a un motivo imperativo di interesse generale e (ii) deve essere rigorosamente vagliata alla luce del principio di ragionevolezza ed adeguatezza rispetto alle finalità pubbliche perseguite, porta all'attenzione del Legislatore (e, semmai, dei Giudici nazionali che dovessero essere aditi dai singoli operatori economici lesi dalle restrizioni normative e regolamentari), pare estensibile anche a numerose altre prescrizioni che si sostanziano di fatto in contingentamenti di vario genere discendenti dall'assetto, per molti aspetti ormai obsoleto, della Legge 21/92 (si pensi, ad esempio, al necessario riferimento della licenza ad un singolo veicolo).


L'ammissibilità della sanatoria strutturale: un nuovo "nodo al pettine" dell'accertamento di conformità.

La c.d. sanatoria strutturale (o sismica) è oggetto di un recente "ripensamento" da parte della giurisprudenza, amministrativa e penale.

Si tratta di un nuovo "nodo al pettine" dell'accertamento di conformità.

Il tema è, nella prassi, delicatissimo, sol che si consideri (e non sfugge certo agli operatori dell'edilizia) come sia frequentissimo, nell'ambito dell'accertamento di conformità, dover regolarizzare non solo le carenze urbanistico-edilizie in senso stretto ma anche quelle attinenti alle autorizzazioni sismiche.

Nella prassi degli Uffici competenti è prevalentemente ritenuta operante la prassi di rilasciare una "sorta" di autorizzazione strutturale/sismica in sanatoria che consente la chiusura dell'iter di sanatoria edilizio-urbanistica.

 

I. La normativa nazionale.

In particolare, pur nota nella “prassi” amministrativa consolidata, la c.d. sanatoria sismica (ossia l’esecuzione degli adempimenti amministrativi necessari ai sensi degli artt. 93 e ss. TUEd - “denuncia dei lavori” ed “autorizzazione” – successivamente all’ultimazione dell’intervento edilizio) non è disciplinata dal TUEd, il quale, infatti, disciplina il presupposti, effetti e procedimento di sanatoria con esclusivo riferimento ai profili abilitativi edilizi (e ciò agli artt. 36 e 37, relativi all’accertamento di conformità).

Dispone, in particolare, l’art. 93 TUEd che nelle zone sismiche “chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni, è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmetterne copia al competente ufficio tecnico della regione”. Il successivo art. 94, poi, conferma che “nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità (…) , non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione”.

L’unica norma che, nel TUEd, affronta la questione delle opere realizzate senza previa autorizzazione/deposito presso il Genio civile è quella di cui all’art. 98, co. 3, che nel regolare il procedimento penale prevede la possibilità che il Giudice ordini la demolizione ovvero impartisca “le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme stesse”, così autorizzando il mantenimento dell’opera, pur in assenza del previo atto di assenso ex artt. 93-94 TUEd.

Chiaramente, a stretto rigore, non è questa la autorizzazione sismica in sanatoria in senso stretto: tale “autorizzazione” al mantenimento dell’opera, infatti, non costituisce un atto autorizzatorio amministrativo adottato dalla competente Amministrazione (ossia il Genio civile), benché tragga fondamento anche nelle valutazioni che il Genio civile trasmette alla Procura della Repubblica).

Sicché può affermarsi che il TUEd non disciplina puntualmente la autorizzazione sismica in sanatoria.

Essa, tuttavia, trova un possibile riconoscimento “indiretto” in alcune disposizioni di legge, nella loro interpretazione (anche giurisprudenziale) nonché disciplina, di legge e regolamento, al livello regionale.

 

II. Il recente orientamento giurisprudenziale negativo.

Non vi sarebbero quindi ragioni per affrontare ulteriormente la questione se non si fossero registrate, negli ultimi mesi, due decisioni del Giudice amministrativo e una decisione della Cassazione penale che – in maniera tranchant e netta – hanno affermato l’inesistenza dell’autorizzazione sismica in sanatoria.

Ci si riferisce, in particolare, alle sentenze TAR Lazio, Latina, Sez. I, 13.10.2020, n. 376 nonché TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,1.3.2021, n. 1347 e Cassazione Penale 20.1.2023, n. 2357

La prima sentenza ha ad oggetto un provvedimento del Genio civile della Regione Lazio di diniego di una autorizzazione sismica in sanatoria, in quanto in contrasto con gli artt. 93 e 94 TUEd.

Il TAR Lazio ha ritenuto l’impugnativa infondata, osservando, in primo luogo che il TUEd, agli artt. 93 e ss. non contempla espressamente un iter di sanatoria sismica, diversamente da quanto disposto per la disciplina edilizia.

Né tale ammissibilità può essere inferita dagli artt. 96 e ss. relativi ai profili penalistici ovvero dalla circostanza che in seno al procedimento di accertamento di conformità ex art. 36 TUed è solito procedersi alla previa sanatoria sismica, quale atto presupposto.

A ciò il Giudice Amministrativo ha aggiunto il rilievo che la disciplina del Lazio – in armonia con gli artt. 93 e 94 TUEd – non contempla la autorizzazione sismica in sanatoria prescrivendo al contrario, espressamente, la necessità di una autorizzazione preventiva.

La decisione del TAR Lazio-Latina, n. 376/2020 è stata appellata dinanzi al Consiglio di Stato.

Di analogo tenore è la seconda decisione richiamata, TAR Campania, Napoli n. 1347/2021.

In tale sentenza – ancorché riferita a fattispecie più articolata – il Giudice Amministrativo ha ribadito (richiamando anche TAR Lazio, Latina n. 376/2020) come l’assenza di una “puntuale disciplina positiva dell’autorizzazione sismica in sanatoria”, in un ambito così delicato per gli interessi pubblici coinvolti quale la staticità degli edifici, non sarebbe possibile introdurre una sanatoria di matrice giurisprudenziale (ossia non sorretta da una norma). Il TAR sottolinea, poi, che nemmeno sarebbero legittime norme regionali che disponessero espressamente una tale forma di sanatoria.

Tale decisione – ed è dato singolare – pare non tener conto del Regolamento Regionale Campania 11.2.2010 n. 4 vigente al tempo dell’adozione dei provvedimenti oggetto del contenzioso che prevedeva espressamente la autorizzazione sismica in sanatoria.

Più recente, poi, tali argomenti sono stati condivisi anche dalla Cassazione penale (n. 2753/2023) dove si arriva ad affermare, perentoriamente, che "il rispetto del requisito della doppia conformità è da ritenersi escluso in caso di violazione della disciplina antisismica".

 

III.  Il riconoscimento, indiretto, della sanatoria strutturale, nella precedente giurisprudenza

A fronte di tali segnalati arresti negativi, assai espliciti, si segnalano diverse decisioni precedenti che, sia pur indirettamente, hanno sempre dato per presupposta la esistenza della sanatoria strutturale o sismica.

Così, in particolare, ragiona il Giudice penale, allorquando precisa che gli effetti della “sanatoria sismica” non producono l’estinzione del reato (ad es. Cass. Penale, n. 51562/2019) nonché il Giudice amministrativo che afferma che la “autorizzazione sismica in sanatoria opera come l’accertamento di conformità” (così, ad esempio, proprio TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 21.10.2020, n. 4647, ma anche TAR Lazio, Sez. II-bis, 7.5.2021, n. 5389 secondo cui “la s.c.i.a. in sanatoria del 14 luglio 2020 non può produrre effetti senza l’autorizzazione del Genio Civile (cfr. TAR Lombardia, II, n.1303 del 2020, TAR Toscana, III, n.1038 del 2017)” ).

Sicché – si ripete: ad oggi – l’orientamento giurisprudenziale avviato dal TAR Latina e “ratificato” dal TAR Campania nelle sentenze di cui si è dato atto appare del tutto isolato, il che non lascia prevedere un suo probabile consolidamento.

Peraltro, come accennato, la decisione del TAR Lazio-Latina è stata appellata dinnanzi al Consiglio di Stato, il che porterà la questione ad essere decisa (di qui ai prossimi due-tre anni però) anche da parte del massimo grado della Giustizia Amministrativa.

 

III. Le ragioni in favore della sanatoria sismica

Il primo assunto da cui muovono le due decisioni (il TUEd non contempla alcuna autorizzazione sismica in sanatoria) è suggestivo ma non del tutto condivisibile, ad avviso di chi scrive.

Infatti la mera circostanza che gli artt. 93 e 94 TUEd non prevedano espressamente la “sanatoria sismica” appare insufficiente ad inferire, da ciò, che il Legislatore abbia voluto tassativamente escludere tale forma di titolo postumo.

In linea generale, infatti, è stato osservato come le autorizzazioni postume (o sanatorie) costituiscono un istituto di carattere generale ( parere Mi.BACT 13373/2016:  “è del tutto pacifico, in dottrina e giurisprudenza, l’ammissibilità delle autorizzazioni postume, così dette “ora per allora”, in tutti i settori dell’ordinamento amministrativo, anche in mancanza di espressa previsione di legge”).

Non a caso, nell’ambito di una disciplina altrettanto rilevante quanto a interesse pubblico tutelato, nel d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali) il Legislatore laddove ha ritenuto necessario vietare il titolo in sanatoria ciò ha disposto espressamente: ci si riferisce all’art. 146 del citato d.lgs.

Se fosse bastato il “non contemplare” il titolo postumo al solo fine di escluderne la possibilità (tesi delle decisioni in esame) non si comprenderebbe la logica di averlo escluso espressamente nell’ambito della disciplina del Codice dei beni culturali.

E lo stesso art. 36 TUEd nel disciplinare modalità e limiti del titolo in sanatoria, presuppone l’esistenza, in astratto, della possibilità implicitamente ammessa dall’ordinamento di titoli “ora per allora” (non a caso pacificamente ammessa prima dell’entrata in vigore della L. 47/1985 quanto agli atti abilitativi edilizi).

Inoltre – ed è argomento solo superficialmente affrontato dalle decisioni in questione – è proprio la disciplina ex art. 36 TUEd (nonché art. 37 TUEd, SCIA in sanatoria) a presupporre l’esistenza della sanatoria sismica, quale atto di assenso presupposto per l’ottenimento dell’accertamento di conformità.

Tanto che la giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. 101/2013) ha chiarito – dando per assunto e “per scontato” la sussistenza della sanatoria sismica – come l’accertamento di conformità richieda la doppia conformità anche alla disciplina sismica (c.d. doppia conformità strutturale). Infatti, allorquando il Governo ha impugnato la normativa Toscana, dando così avvio al contenzioso conclusosi con la sent. 101/2013, non è stata messa in discussione in radice la legittima possibilità di una “sanatoria sismica” (o, quantomeno, di una verifica postuma circa le relative norme tecniche), quanto “solamente” posta la questione della c.d. doppia conformità strutturale. La quale postula – e non esclude – l’esistenza di una sanatoria/verifica postuma al livello sismico

Il che pare militare nel senso della  esistenza della sanatoria sismica, quale presupposto dell’accertamento di conformità edilizio, sia pur con le precisazioni in ordine alla necessaria doppia conformità strutturale (sulle quali qui non ci soffermeremo).

D’altra parte, al livello puramente empirico, se si dovesse escludere a priori la possibilità di conseguire la sanatoria sismica, ciò determinerebbe l’effetto di impedire la positiva definizione di una elevatissima quota di istanze di accertamento di conformità.

A ciò va aggiunto un “inciso”.

Anche ad ammettere la non ammissibilità “formale” di una autorizzazione sismica in sanatoria (ipotesi che, si badi, in caso di discipline regionali, come quella della regione Campania ad esempio, dovrebbe passare per pronunce della Corte costituzionale e non per via meramente interpretativa), resta la circostanza che esiste senz’altro la possibilità di porre in essere una “verifica postuma (soluzione, questa, infatti, sposata da alcune Regioni).

Tale possibilità è insita, infatti, nel sistema dell’accertamento di conformità ex art. 36-37 TUEd, così come, peraltro, interpretato dalla Corte costituzionale nella sentenza 101/2013 citata.

 Peraltro, le stesse NTC 2018 sembrano, sia pur indirettamente, rivolgersi alle ipotesi di valutazioni strutturali da compiere (anche) in sede di sanatoria, riferendosi a “opere realizzate in assenza o difformità dal titolo abilitativo, ove necessario al momento della costruzione, o in difformità alle norme tecniche per le costruzioni vigenti al momento della costruzione” (cfr. § 8.3).

 


Il difficile bilanciamento tra tutela dell’ambiente e iniziativa economica. Il "caso Ovindoli" tra protezione della fauna e sviluppo sostenibile.

Negli ultimi anni è parsa evidente l'attenzione che rivolge il Giudice amministrativo verso la tutela ambientale, la quale, come noto, costituisce un bene costituzionalmente protetto.

In precedenza ci siamo occupati di una vicenda che ha posto l'attenzione sul diritto ad un ambiente salubre, il quale rappresenta sempre più un fattore che condiziona le scelte quotidiane, comprese le iniziative di carattere economico (a questo link è possibile consultare il testo integrale della news).

Il caso sommariamente analogo che qui si affronta riguarda l'ampliamento di un impianto sciistico all'interno di comune abruzzese, realizzazione che soggiace ad un provvedimento autorizzativo complesso.

Avverso la decisione di primo grado del Giudice amministrativo, quest'ultimo adito con esito positivo da alcune associazioni ambientaliste che censuravano le risultanze istruttorie culminate nel rilascio del titolo autorizzativo, il comune interessato all'iniziativa ha interposto appello deducendo una serie di motivi, accomunati dalla correttezza logica e giuridica del provvedimento autorizzativo dell'impianto ricadente all'interno di area protetta.

Sotto il profilo ambientale, gli aspetti e gli argomenti della decisione del Supremo Consesso amministrativo (di riforma della pronuncia di primo grado) sono molteplici poiché riguardano singoli fattori che entrano in gioco allorquando si realizza (anche in termini di ampliamento) un'opera complessa, come quella di un impianto sciistico, che assolve, certamente, a delle finalità turistiche, ma anche di promozione sociale e di sviluppo economico.

L'argomento chiave è che lo sviluppo dell'iniziativa deve necessariamente considerare le incidenze sullo stato di conservazione dell'habitat preesistente nella zona.

Il primo profilo meritevole di attenzione è l'interesse alla decisione da parte delle associazioni ambientaliste, anch'esse parte della vicenda, in relazione alle quali il Consiglio di Stato, richiamando la normativa istitutiva del Ministero dell'ambiente e delle norme in materia di danno ambientale (l. 8 luglio 1986, n. 349 e s.m.i.), ha chiaramente confermato l'indirizzo interpretativo secondo il quale le associazioni ambientaliste sono legittimate in relazione all'impugnazione di atti amministrativi "che si considerino lesivi dei valori ambientali, paesistici, storici o artistici di un'area determinata" (Cons. St. Sez. IV, 6 marzo 2023, n. 2279).

A ben guardare, proprio la legge 349/1986 ha cristallizzato, all'art. 18, le esigenze di tutela dei soggetti portatori di interessi collettivi, introducendo ex lege la possibilità per le associazioni ambientaliste di intervenire nei giudizi di danno ambientale ovvero di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti legittimi.

Uno dei passaggi motivazionali più significativi è quello relativo al contenuto dello studio di impatto ambientale (ricompreso nella progettazione propedeutica all'autorizzazione) concernente le misure di mitigazione previste per la tutela della fauna, specificatamente della "Vipera ursinii", quale animale tutelato dalla direttiva Habitat 92/43/CEE., oggetto di specifica censura da parte dei soggetti ricorrenti di primo grado.

Tale argomento conduce ad un ragionamento alquanto complesso della tutela ambientale.

Per giungere alla decisione, infatti, il Consiglio di Stato non si è limitato ad operare un richiamo normativo del bene faunistico, bensì ha rivolto un vero e proprio "ammonimento" verso gli interessati, affermando che "Laddove si parta dal presupposto che qualsiasi attività che presenti controindicazioni rispetto alla significativa permanenza della vipera oggetto di tutela debba essere vietata, sarebbe necessario vietare anche il pascolo di animali indicato nello studio come fonte di pericolo, la presenza di escursionisti", osservando puntualmente che "è necessario contemperare le esigenze di carattere ambientali con altri interessi parimenti meritevoli di tutela".

Muovendo da tali presupposti, che certamente ripropongono la problematica propria del diritto dell'ambiente ovvero la tutela di interessi di pari valore, il Giudice d'appello ha richiamato lo storico pronunciamento reso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 85 del 2013 che ha affermato che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri.

Tale argomento conduce ad un ragionamento alquanto complesso della tutela ambientale.

Secondo tale pronuncia, la tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro, giacché se così non fosse, si verificherebbe "l'illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona".

Nella vicenda esaminata si è conclusivamente evidenziato che "il bene di rilievo costituzionale da contemperare con la tutela dell’ambiente era il diritto all’esercizio di un’attività di impresa cui era connesso il diritto al lavoro dei dipendenti. Il caso in esame presenta lo stesso apparente contrasto tra le esigenze di sviluppo economico di una comunità e il rischio di compromettere l’ambiente che va ridotto al minimo, ma che non può diventare un ostacolo insormontabile salvo che l’intervento da autorizzare presenti delle caratteristiche assolutamente incompatibili con la tutela ambientale".

Secondo il Giudice amministrativo, lo sviluppo economico rappresenta certamente un interesse meritevole di tutela che, in relazione alla tutela dell'ambiente, non deve necessariamente porsi in termini ostativi, bensì in termini di integrazione, potendo l'esercizio di attività d'impresa sempre e comunque garantire una tutela effettiva delle componenti ambientali, a volte anche in misura maggiore rispetto a quelle preesistenti.

La sentenza rappresenta una ulteriore evoluzione della giurisprudenza amministrativa, degno di nota: infatti, se fino ad oggi (specie in tema di autorizzazioni di impianti da fonti energetiche rinnovabili c.d. FER) le decisioni si erano spesso occupate di bilanciare i valori costituzionali  tra loro “affini” del paesaggio e dell’ambiente (in un certo senso, e come rilevato da alcune decisioni, “facce della stessa medaglia” nella prospettiva del c.d. sviluppo sostenibile), in questo caso peculiare il Consiglio di Stato ha applicato lo stesso metodo ed approccio avuto riguardo al rapporto tra i valori ambientali/paesaggistici e la tutela dello sviluppo economico in senso stretto. E ciò, peraltro, con una sentenza anche “coraggiosa”, nella parte in cui non solo viene declinato il principio di non prevalenza a priori (ossia implicante sempre e comunque la c.d. opzione zero) della tutela ambientale rispetto allo sviluppo economico, ma il medesimo principio viene applicato “in concreto” dal Giudice Amministrativo che, sulla base delle risultanza procedimentali, conferma la correttezza del provvedimento autorizzatorio (in luogo, ad esempio, di soluzioni processuali spesso adoperate dai giudici amministrativi, consistenti nel rinviare alla P.A. per un nuovo esame e motivazione).

Peraltro, in una prospettiva più ampia, occorre ricordare anche che il tema della verifica degli impatti “economici” in sede di valutazione ambientale, trova una sua conferma anche nella disciplina della VAS recata dal d.lgs. 152/2006. Infatti, l’art. 4, co. 3, del Codice dell’Ambiente dispone che “La valutazione ambientale di piani, programmi e progetti ha la finalità di assicurare che l'attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, e quindi nel rispetto della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un'equa distribuzione dei vantaggi connessi all'attività economica”.

Principio, quello ricordato, che ha trovato ad esempio applicazione in TAR Toscana, 23 marzo 2017, n. 1387, laddove è stato evidenziata la illegittimità di parere di VAS in quanto “quest’ultima si sarebbe limitata alla valutazione degli aspetti ambientali, senza prendere in considerazione le ricadute socio economiche delle scelte di pianificazione E’ necessario, pertanto, che detta valutazione presupponga lo svolgimento di un’analisi di fattibilità economica, comportando lo svolgimento di una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all'utilità socio - economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla cosiddetta opzione - zero, vagliando quindi tutte le possibili interrelazioni che la scelta urbanistica può arrecare alla salute umana, al paesaggio, all'ambiente in genere, al traffico ed anche all'economia di tutto il territorio coinvolto (…). ”

In conclusione, tornando alla recente sentenza del Consiglio di Stato, si può ritenere di essere al cospetto di una motivazione condivisile e, certamente, in linea con gli attuali orientamenti prevalenti in tema di “sviluppo sostenibile”, ferma restando la necessità di un vaglio “caso per caso”.

(Cons. St. Sez. IV, 6 marzo 2023, n. 2279)


Rigenerazione urbana a Roma e zona A di PRG: ammessi gli interventi demoricostruttivi ex art. 6 L.R. 7/2017

La Regione Lazio interviene a chiarire l'ammissibilità in zona A di PRG, ai sensi della disciplina della rigenerazione urbana ex L.R. Lazio 7/2017 , degli interventi di demoricostruzione (e ripristino di fabbricati diruti).

I. Il quesito del DPAU

Il parere regionale del 24.2.2023 origina da una richiesta di parere del DPAU.

In particolare, il Dipartimento aveva chiesto alla Regione se, a termini dell'art. 6 della L.R. 7/2017, sia possibile porre in essere un intervento di ripristino di un edificio
crollato o demolito in zona A ("Città Storica", secondo il PRG di Roma, secondo l'art. 107 delle NTA).

II. Il parere regionale: oltre i confini del mero ripristino degli edifici diruti.

Le indicazioni della Regione, pur muovendo dal caso specifico (di ripristino di fabbricati diruti) si estendono all'intero tema della ristrutturazione edilizia demoricostruttiva.

III. La demoricostruzione in zona A alla luce dell'art. 3 TUEd.

La Regione, nel parere, procede innanzi tutto a raccordare le categorie di intervento contemplate dall'art. 6 della L.R. 7/2017 con l'art. 3, co. 1, lett. d) D.P.R. 380/01, ricordando, che la questione dell'applicabilità della disposizione regionale anche al caso di fabbricati diruti è già stata risolta, in positivo, con un precedente parere (che abbiamo commentato in precedenza), nel quale, peraltro, era stato sottolineato come in tale fattispecie l'intervento non possa beneficiare della premialità di cubatura di cui alla norma regionale.

Il secondo tema scrutinato dalla Regione - anch'esso assai discusso e del quale ci siamo spesso occupati - è quello della ammissibilità e dei limiti degli interventi demoricostruttivi e di ripristino di fabbricati diruti in zona A di PRG.

La Regione, sul punto, dopo aver ricostruito la disciplina risultante dall'art. 3, co. 1, lett. d) D.P.R. 380/01 (a valle delle modifiche operate nel biennio 2020-2022) ha confermato la tesi (che avevamo sostenuto sin dall'approvazione dall'approvazione della L. 120/2020) secondo la quale, se è vero che considera tali interventi demoricostruttivi (o di ripristino) come ristrutturazione solo laddove fedelissimi, tuttavia occorre considerare la clausola delle previsioni legislative e di strumenti urbanistici.  Clausola, alla luce della quale normative regionali (e/o di PRG) possono ricondurre gli interventi demoricostruttivi nell'alveo della ristrutturazione anche in assenza del requisito della totale fedeltà al preesistente.

IV. Il rapporto tra l'art. 3 TUEd e l'art. 6 L.R. 7/2017.

Il parere, posta tale premessa (che si pone, peraltro, in linea anche con la Circolare congiunta Funzione Pubblica - MIT del dicembre 2020) si interroga sulla idoneità dell'art. 6 L.R. 7/2017 ad integrare la eccezione ammessa dall'art. 3, co. 1, lett. d), D.P.R. 380/01.

Al riguardo - del tutto coerentemente al dato normativo - la Regione osserva come l'art. 6 della L.R. 7/2017, integri proprio una norma "speciale" (peraltro connessa al perseguimento di obiettivi di rigenerazione urbana) e che la stessa non escluda dal proprio ambito territoriale di applicazione gli immobili in zona A di PRG (escludendo solo quelli ricadenti in "insediamenti urbani storici" di PTPR).

Sottolinea poi il parere che eventuali diverse qualificazioni recate dal PRG degli interventi di demolizione e ricostruzione, avuto riguardo alla necessità che essi siano più o meno fedeli al preesistente, come nel caso delle NTA dello strumento urbanistico di Roma, sono senz'altro cedevoli rispetto alla normativa regionale, e ciò in ragione del fatto che l'art. 6 L.R. 7/2017 ammette "sempre" gli interventi di ristrutturazione edilizia o di demolizione e ricostruzione.

 

V. Demoricostruzione non incondizionata: il perseguimento delle finalità ex art. 1 L.R. 7/2017.

Quanto precede, tuttavia, con alcune cautele che il parere mette in evidenza, tornando su un tema assai caldo e dibattuto, anche alla luce di alcune recenti vicende giurisdizionali (ci riferiamo ad esempio alla sentenza di recente commentata proprio su un caso di demoricostruzione in zona A di PRG): l'art. 6 della L.R. 7/2017 richiede, quale "condizione di ingresso" nel regime derogatorio e premiale, il perseguimento di (almeno) una delle finalità di rigenerazione e riqualificazione indicate dall'art. 1 della medesima legge.

Il tema è complesso e meriterebbe - a nostro avviso - una miglior definizione da parte del legislatore, atteso che il "giudizio" ovvero la "asseverazione" circa il perseguimento delle finalità di rigenerazione (a causa della indeterminatezza delle formule ex art. 1 L.R. 7/2017) rischia di essere sempre, o quasi, opinabile e possibile fonte di contenzioso tra P.A. e privati. Su questo profilo fummo facili profeti.

Da qui il (comprensibile) caveat della Regione circa il fatto che

costituendo le zone A ambiti di particolare delicatezza, pregio storico-artistico e centralità culturale e territoriale, particolarmente spiccata deve essere la cura ed il rigore delle amministrazioni comunali nel dare attuazione alla legge; in particolare risulta più maiessenziale un vaglio puntuale delle finalità di rigenerazione e riqualificazione degli interventi proposti e delle caratteristiche qualitative dei relativi esiti.

Dunque, in zona A - come e più che per il resto del territorio - il tema dirimente è quello della verifica del perseguimento delle finalità indicate dalla legge.

 

 

 

 


Rigenerazione urbana nel lazio

Rigenerazione urbana ex L.R. Lazio 7/2017: i (discutibili) paletti del TAR Lazio agli interventi ex art. 6.

Rigenerazione urbana nel lazioLa recente sentenza del TAR Lazio, 27.12.2022, n. 17543, relativa ad un intervento di demolizione e ricostruzione ex art. 6 L.R. Lazio n. 7/2017, offre diversi spunti di riflessione in ordine ai presupposti di applicabilità della disciplina laziale sulla rigenerazione urbana.

La pronuncia, relativa ad una vicenda procedimentale piuttosto articolata, ha ad oggetto il diniego di permesso di costruire da parte di Roma Capitale per un intervento di demolizione e ricostruzione, con ampliamento volumetrico, e contestuale cambio d’uso da alberghiero a residenziale.

Il progettato intervento prevedeva, in particolare, su un immobile censito in Carta della Qualità e ricadente in Zona A di PRG ("Città Storica") una demolizione e ricostruzione, con ampliamento di SUL e cambio d'uso da alberghiero a residenziale.

Tra i temi esaminati dal TAR che cercheremo in questo contributo di esaminare si segnalano:

  1. La verifica, in sede di iter abilitativo edilizio, del perseguimento delle finalità ex art. 1 L.R. 7/2017 e nonché della concorrente necessità, ritenuta in ogni caso operante secondo il TAR, che l’immobile ricada in un area “degradata”;
  2. (in particolare) il presupposto della “dismissione” dell’immobile, di cui alla lettera b) dell’art. 1 co. 1, ai fini della ammissibilità dell’intervento
  3. la rilevanza, in ipotesi di interventi su immobili tutelati dalla Carta per la Qualità, del parere della Sovrintendenza Capitolina;
  4. l’applicabilità delle deroghe ex art. 8, co. 3, L.R. 7/2017.

Ben si comprende, quindi, come la decisione sia di particolare importanza, visti i temi sopra delineati (mai esaminati dal TAR Lazio in maniera così sistematica, a quanto ci consta).

I.      Il rapporto tra la L.R. 7/2017 e l’art. 5, co. 9, del D.L. 70/2011: gli interventi ex art. 6 L.R. 7/2017 richiedono che l’immobile           ricada in un ambito “degradato”?

Il TAR Lazio – con un certo sforzo sistematico (al di là delle conclusioni raggiunte, sulle quali svolgeremo diverse notazioni critiche) – cerca di offrire una premessa interpretativa atta a indagare il rapporto tra la normativa regionale (la L.R. 7/2017) e la disciplina statale di riferimento, ossia l’art. 5, co. 9, D.L. 70/2011).

Tale disposizione, in particolare, dispone che

"Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano: a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale; b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse; c) l'ammissibilità delle modifiche di destinazione d'uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari; d) le modifiche della sagoma necessarie per l'armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti"

Il TAR, svolta una rassegna della giurisprudenza (costituzionale e amministrativa) relativa alla norma statale suddetta, individua quindi un principio, alla luce del quale interpretare la normativa di cui alla L.R. 7/2017 del Lazio.

In particolare il TAR afferma che

non la semplice volontà di riqualificare un edificio a destinazione non residenziale dismesso o in via di dismissione può sorreggere un intervento incrementativo edilizio da realizzare con ampliamento di volumetria e superficie utile, essendo imprescindibile, al fine di conseguire la premialità richiesta, il perseguimento del duplice fine alternativamente richiesto dalla norma, ossia la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente o la riqualificazione di un’area urbana degradata”.

Rammenta, ancora, il TAR che la norma di cui all’art. 5, co. 9, DL 70/2011 – e, dunque, le singole norme regionali “attuative” – debba essere interpretata restrittivamente.

Ciò premesso, la sentenza si sofferma sull’art. 1, co. 1, della L.R. 7/2017 e, in particolare, sulla lettera b) di tale disposizione (e ciò in quanto l’intervento oggetto del giudizio era proposto, ex art. 6 della medesima Legge, per il dichiarato fine di demolire e ricostruire, con cambio d’uso a residenziale, un fabbricato alberghiero in quanto dismesso/in via di dismissione).

In particolare la lettera in parola si riferisce alla finalità di

incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, favorire il recupero delle periferie, accompagnare i fenomeni legati alla diffusione di piccole attività commerciali, anche dedicate alla vendita dei prodotti provenienti dalla filiera corta, promuovere e agevolare la riqualificazione delle aree urbane degradate e delle aree produttive, limitatamente a quanto previsto dall'articolo 4, con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare”.

La disposizione viene interpretata dal TAR nel senso che

la legge regionale abbia subordinato l’attuazione degli interventi edilizi da essa previsti – tra cui quello che si propone di realizzare la ricorrente – al fine di: a) razionalizzare il patrimonio edilizio esistente o b) promuovere e agevolare la riqualificazione delle aree urbane degradate e delle aree produttive con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare”.

Rammenta il TAR che, come già rilevato in relazione alla norma “madre” statale, pure per la disciplina regionale occorre interpretare (anche) la stessa alla luce della “esigenza che ogni intervento edilizio premiale sia subordinato al perseguimento di alcune finalità di pubblico interesse specificamente individuate dalla legge e in particolare, per quanto riguarda il caso di specie, alla razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente e alla riqualificazione delle aree urbane degradate.

Aggiunge la sentenza, ulteriormente, che

a) va esclusa ogni interpretazione estensiva della stessa che renda ammissibili interventi edilizi del tipo di quelli consentiti dalla legge rivolti ad edifici privi di quei caratteri di degrado, abbandono, dismissione, inutilizzo o in via di dismissione o rilocalizzazione che la norma pretende per legittimare il compimento di siffatti interventi incentivanti;

b) gli interventi in questione, in tanto possono beneficiare di detta legislazione di favore in quanto, comunque, abbiano ad oggetto edifici insistenti in aree urbane degradate e, in assenza di detto presupposto, l’intervento non può essere consentito”.

In questo ragionamento del TAR il passaggio più critico – ed a nostro avviso errato, avuto riguardo alle disposizioni di Legge - attiene al secondo “principio” delineato, ossia la necessità che qualunque intervento ex L.R. 7/2017 (dunque, anche quelli diretti ex art. 6) debba avere ad oggetto edifici insistenti in aree urbane degradate.

È la stessa sentenza, d’altronde, a riconoscere come tale regola non sia delineata né dalla norma statale né, tantomeno, dalla legge regionale del Lazio.

Tant’è che il TAR segnala che

sia l’art. 5, comma 9, del d.l. n. 70/2011, che l’art. 1, comma 1, lett. b) della L.R. Lazio n. 7/2017, non prevedono un legame di concatenazione tra la riqualificazione delle aree degradate e quella degli edifici in stato di degrado ovvero di abbandono”

Tuttavia – e questo pare l’anello debole e fortemente criticabile del ragionamento del TAR, a nostro avviso – la sentenza afferma che

“è pur vero che proprio tale dato rafforza l’esegesi sopra svolta, nel senso che non occorre la previa riqualificazione dell’area su cui insiste l’edificio in stato di abbandono per consentire su di esso interventi attuativi della legislazione derogatoria, ma è comunque indispensabile che lo stesso insista su un’area degradata e abbisognevole di riqualificazione”.

A conforto di tale affermazione (se non “petizione”) di principio la sentenza richiama – quale presunta “prova” – il disposto dell’art. 3 L.R. 7/2017.

Così si esprime il TAR:

Ad ulteriore riprova della correttezza dell’ipotesi interpretativa qui sostenuta si colloca l’art. 3 della legge regionale in questione, il quale – intitolato “ambiti territoriali di riqualificazione e recupero edilizio” – affida ai consigli comunali il compito di individuare, anche su proposta dei privati, ambiti territoriali urbani nei quali, in ragione delle finalità di cui all'articolo 1, sono consentiti, previa acquisizione di idoneo e valido titolo abilitativo, interventi di ristrutturazione edilizia e urbanistica o interventi di demolizione e ricostruzione (….). Sono, pertanto, i comuni a dover individuare gli ambiti urbani che necessitano di razionalizzazioni del patrimonio edilizio esistente o di riqualificazione in quanto ricomprendenti aree urbane degradate.”

Il richiamo a tale norma, tuttavia, risulta del tutto contraddittorio ed errato, quantomeno se con esso si vuole dimostrare la necessità che gli interventi diretti – quelli ex art. 6 L.R. 7/2017 – siano realizzabili solo in aree degradate e da riqualificare.

Infatti, l’art. 3 della L.R. ha ad oggetto la individuazione, da parte dei Comuni, degli “Ambiti territoriali di riqualificazione e recupero edilizio”, entro i quali sono ammissibili specifiche ipotesi di intervento delineate dal medesimo art. 3.

L’art. 6 della L.R. 7/2017 è, come noto e ormai pacifico, del tutto autonomo rispetto all’art. 3 ed alla individuazione, ivi prevista, di aree degradate/da riqualificare (al riguardo rinviamo a diversi precedenti pareri regionali in passato segnalati  ove la Regione ha sempre ribadito come l'art. 6 operi a prescindere da atti di "perimetrazione").

Ecco perché la conclusione cui perviene la sentenza, sul punto, è chiaramente frutto di una lettura errata.

Infatti, se è vero che, come osserva il TAR, l’art. 1, co. 1, lett. b) L.R. 7/2017 “in tanto permette di intervenire su edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare in quanto, attraverso di essi, si pervenga a concorrere alla riqualificazione di aree urbane degradate o di aree produttive, con l’esclusione di ogni generalizzata “liberalizzazione” degli interventi edilizi ampliativi dell’esistente ove non connessi al perseguimento delle finalità previste dalla legge, tra le quali rientra la riqualificazione di contesti urbani degradati, la cui individuazione è rimessa, dall’art. 3 della legge regionale in parola, ai consigli comunali”, ciò non implica che per gli interventi ex art. 6 sia imposto che l’intervento ricada in un ambito “degradato”, dovendosi invece leggere nella norma la volontà del Legislatore di favorire interventi anche su immobili singoli, a prescindere dal contesto, purché siano perseguite finalità riferite o riferibili al singolo immobile).

D'altronde di ciò è significativo il fatto che la L.R. 7/2017 esclude dal campo di applicazione solo le porzioni di territorio ricadenti negli insediamenti urbani storici di PTPR, ammettendo quindi gli interventi in tutti gli altri tessuti dei PRG, ivi incluse le zone A.

Il TAR, insomma, finisce per confondere un proprio “auspicio” in un limite che, tuttavia, la norma non contempla (e, ovviamente, “condivisibile” o meno che sia la norma della Legge regionale, non è compito del Giudice Amministrativo integrarla con regole esterne al diritto positivo, peraltro traendole da altre disposizioni della medesima legge, come l’art. 3, che nulla hanno a che fare con il disposto dell’art. 6).

 

II.       Il rilievo dell’assenza del requisito dell’essere l’immobile dismesso/in via di dismissione.

Il secondo tema – che qui esaminiamo, tra i vari affrontati in sentenza – attiene al fatto che l’intervento edilizio proposto si giustificava, come finalità ex art. 1, co. 1, lett. b), L.R. 7/2017, all’essere il fabbricato alberghiero dismesso/in via di dismissione.

Si tratta di un profilo puramente di merito, rispetto al quale, stando alla ricostruzione fattuale e documentale della sentenza (ovviamente non siamo a conoscenza di tutti gli atti e documenti di causa), la decisione appare invece piuttosto coerente.

Il richiedente aveva dichiarato di voler intervenire ex art. 6 L.R. 7/2017, con demolizione e ricostruzione, incremento di SUL e cambio d’uso a residenziale, in ragione del fatto che l’immobile versava era in via di dismissione, ossia una delle finalità di recupero ex art. 1, co. 1, lett. b), L.R. 7/2017.

Sulla base dei documenti esaminati in giudizio (in base ai quali il TAR è pervenuto al convincimento che “l’attività alberghiera sull’immobile per cui è causa non definitivamente cessata, ma solo temporaneamente sospesa per scelta della ricorrente, e riattivabile pertanto in qualsiasi momento”) pare (si sottolinea: nei limiti della conoscenza dei fatti/documenti di causa da parte nostra) ragionevolmente escludibile il richiamo alla specifica finalità ex art. 1 L.R. 7/2017.

Peraltro, tale aspetto appare anche “autosufficiente” rispetto al tema, ampiamente esaminato (con conclusioni a nostro avviso errate ed in contrasto con il dato normativo) della necessità che l’immobile ricada in un ambito “degradato”. Il che rende l'ampio - e secondo noi errato - excursus sul rapporto con il "degrado del contesto" nemmeno essenziale nella logica della sentenza.

Infatti, torniamo a sottolinearlo, l’art. 1, co. 1, lett. b) pone la finalità di “riqualificazione delle aree urbane degradate” su un piano autonomo e alternativo rispetto a quello di recupero di “complessi edilizi e di edifici in stato di degrado o di abbandono o dismessi o inutilizzati o in via di dismissione o da rilocalizzare”.

 

III.          Carta della Qualità, parere della Sovrintendenza Capitolina, ed art. 6 L.R. 7/2017.

Nella vicenda in esame viene in rilievo anche un parere negativo della Sovrintendenza capitolina, rientrando l’immobile in Carta per la Qualità.

Al di là del merito “tecnico” del parere (sul quale ovviamente non abbiamo elementi, in positivo od in negativo, per esprimere valutazioni) il tema che si pone è comprendere come e "a che titolo" rilevi il parere della Sovrintendenza capitolina.

Da quanto emerge dalla decisione in esame, esso pare rilevare non tanto ai fini della norma di PRG che attribuisce il potere valutativo alla Sovrintendenza (art. 16, co. 10, NTA PRG Roma), quanto piuttosto per il fatto che lo stesso dia “concretezza” al non ricorrere dei presupposti per applicare la normativa della L.R. 7/2017.

Infatti, osserva il TAR, “il parere in questione risulta, a giudizio del Collegio, congruamente ed adeguatamente motivato con riferimento non solo alle caratteristiche precipue dell’edificio, ma anche alle relazioni che il medesimo intrattiene con il tessuto edilizio dell’area su cui insiste, attestandone il coerente inserimento nel contesto urbano della zona, obiettivamente una delle più pregevoli della Capitale”.

Dunque, il parere della Sovrintendenza – nella complessiva logica della sentenza del TAR – pare saldarsi non tanto, o non solo, alla funzione ad esso assegnata dal PRG di Roma, quanto piuttosto, o soprattutto, quale “formalizzazione” delle valutazioni circa il ricorrere del perseguimento delle finalità ex art. 1 L.R. 7/2017 (con il riemergere anche della questione del tessuto urbano non degradato).

Il che lascia emergere il vuoto normativo su come, chi e sulla base di quali presupposti regolatori possa essere svolto il giudizio (altamente discrezionale) circa il perseguimento di una delle finalità ex art. 1 L.R. 7/2017 (tema che in precedenza abbiamo segnalato essere di particolare delicatezza).  Detto altrimenti, in questo caso ben può dubitarsi che tale valutazione - ai fini della L.R. 7/2017 - competesse alla Sovrintendenza capitolina, verosimilmente spettando la valutazione allo Sportello Unico dell'Edilizia.

Ove, al contrario, si guardi al parere della Sovrintendenza in sé e per sé, ossia nell’ambito della funzione tipica ex art. 16 NTA P.R.G. il dubbio (ma è tema non espressamente esaminato dalla sentenza) è che lo stesso non potrebbe rilevare quale elemento ostativo alla realizzazione dell’intervento giacché andrebbe ad integrare una norma di Piano (la Carta Qualità tale è, non costituendo un vincolo sovraordinato ex d.lgs. 42/2004) come tale derogata dall’art. 6 L.R. 7/2017 (diversamente è a dirsi per il mero onere procedimentale, come da noto parere regionale).

In tal senso, con riferimento all’applicazione della legislazione derogatoria sul recupero dei sottotetti, il medesimo TAR Lazio, di recente, ha infatti notato che mentre la disciplina procedimentale, ossia l’obbligo di acquisire il parere della Sovrintendenza ex art. 16, co. 10, NTA PRG, non subisce deroghe, invece “una efficacia derogativa [della normativa speciale sul recupero dei sottotetti] potrà venire in rilievo nel merito del parere della Soprintendenza ai fini dell’assenso del progetto (nel senso che l’Autorità dovrà valutare il merito architettonico prescindendo da eventuali limiti strutturali)” (TAR Lazio, Sez. II-bis, 6.6.2022, n. 7299).

 

IV.      L’applicabilità delle deroghe ex art. 8, co. 3, L.R. 7/2017 in caso di demoricostruzione.

L’ultimo tra i temi che passiamo in rassegna è quello della possibilità, in caso di intervento diretto di demolizione e ricostruzione con ampliamento ex art. 6 L.R. 7/2017, di beneficiare delle deroghe ex art. 8, co. 3, L.R. 7/2017, nella parte in cui ammette “Per la ricostruzione degli edifici demoliti” la deroga alle densità fondiarie e alle altezze massime di cui agli artt. 7 e 8 del DM 1444/68, in applicazione dell’art. 2-bis D.P.R. 380/2001.

Ad avviso del TAR sarebbe corretto quanto affermato nel provvedimento, ossia che, vista la menzione, da parte del provvedimento dei soli interventi di “ricostruzione degli edifici demoliti”, sarebbero esclusi gli interventi di “demolizione e ricostruzione: “la norma riferisce la deroga in questione ai soli casi in cui il progetto riguarda solamente “la ricostruzione degli edifici demoliti” e non ai casi, ben diversi, di demolizione e ricostruzione, quale quello oggetto del presente gravame”.

Tale passaggio della sentenza appare oltremodo forzato e fuori dalla logica della L.R. 7/2017 (al di là, lo ripetiamo, dalle valutazioni sulla “opportunità” o correttezza intrinseca della legge, temi che il TAR non può risolvere “in autonomia”, dovendo, se del caso, quantomeno evocare, puntualmente, profili di incostituzionalità e deferire le relative questioni alla Consulta).

Le ragioni (interpretative) di questa nostra valutazione sono presto dette.

In primo luogo, laddove la norma si riferisce alla “ricostruzione”, essa chiaramente non ha ad oggetto l’ipotesi (a dir poco marginale) della ripristino di fabbricati “già demoliti”, ma ha di mira chiaramente il “tipico” intervento di rigenerazione/riqualificazione contemplato dalla L.R. 7/2017, ossia la demolizione e ricostruzione. Non a caso, la norma parla sì di “ricostruzione” ma nello specifico di “edifici demoliti” (non parlando, invece, degli edifici semplicemente “crollati”).

D’altronde, che un intervento di ricostruzione, non nell’ambito di una ristrutturazione edilizia tramite demo-ricostruzione, possa determinare un incremento di altezza/densità pare averlo escluso la stessa Regione Lazio che, pur ammettendo l’applicazione dell’art. 6 L.R. 7/2017 a fabbricati diruti, ha precisato che in tal caso non può aversi incremento di SUL (https://legal-team.it/rigenerazione-urbana-lazio-lart-6-si-applica-anche-ai-fabbricati-crollati-o-demoliti/).

Altro argomento che smentisce, quasi platealmente, la singolare tesi del TAR è il richiamo che l’art. 8 L.R. 7/2017 opera all’art. 2-bis D.P.R. 380/01 (si badi: norma statale attuata dalla disposizione regionale): il co. 1-ter di quest’ultima previsione, infatti, ha ad oggetto proprio gli interventi di “demolizione e ricostruzione” e non già solo quelli di "ricostruzione".

Insomma, la tesi del TAR al riguardo appare molto più che discutibile.

 


Rigenerazione urbana nel lazio

Rigenerazione urbana nel Lazio e a Roma: le novità della L.R. 19/2022 e della Circolare DPAU del 24.10.2022.

Rigenerazione urbana nel lazioTorniamo a trattare di rigenerazione urbana nel Lazio (e a Roma). Negli ultimi mesi, infatti, si sono susseguite significative novità. Il “motore” dei recenti sviluppi è da individuare, in parte, nella dialettica tra Roma Capitale (DPAU) e la Regione Lazio.

I. Vincoli di quote/percentuali di destinazioni d’uso.

In tal senso il tema più “rumoroso” è stato quello, prettamente romano, del mix funzionale imposto dall’art. 45, co. 6, NTA PRG per la Città consolidata.

La questione – che abbiamo in passato ampiamente approfondito, peraltro, come si vedrà, anticipando le evoluzioni che andiamo qui a commentare – era essenzialmente se una norma di PRG che preveda, in caso di cambio, d’uso una certa quota di SUL vincolata a determinate funzioni, sia da intendersi derogabile per effetto dell’art. 6, co. 2, L.R. 7/2017 sulla rigenerazione urbana,

Chi scrive aveva manifestato varie volte l’opinione che norme del genere dovessero intendersi derogabili ai sensi della disciplina speciale in questione.

Ad agosto scorso, tale tesi ha trovato autorevole conferma in un parere della Regione Lazio – “Ufficio speciale per la rigenerazione urbana” , secondo il quale disposizioni recanti percentuali di SUL da destinare a specifiche destinazioni, integrando l’ipotesi di “altre prescrizioni”, sono suscettibili di deroga in caso di interventi ex art. 6 L.R. 7/2017.

A tale parere ha fatto “eco” prima la Circolare DPAU  del 24.10 , che ha “preso atto” della indicazione regionale e, poi, la modifica della stessa norma in sede di collegato alla legge di stabilità regionale (L.R. 19/2022), disposizione che ha così modificato l’art. 6, co. 2, L.R. 7/2017:

Nell’ambito degli interventi di cui al comma 1 sono consentiti i cambi di destinazione d’uso nel rispetto delle destinazioni d’uso previste dagli strumenti urbanistici generali vigenti, indipendentemente dalle percentuali previste dagli strumenti urbanistici comunali per ogni singola funzione nonché dalle modalità di attuazione, dirette o indirette, e da altre prescrizioni previste dagli stessi. Sono, altresì, consentiti incondizionatamente i cambi all’interno della stessa categoria funzionale di cui all’articolo 23 ter del d.p.r. 380/2001 e successive modifiche.

La genesi della questione è abbastanza chiara – ossia: il dibattito sulla derogabilità dell’art. 45, co. 6, NTA PRG – ma indubbiamente la novella normativa è idonea ad incidere, a Roma, anche all’infuori della norma sulla Città consolidata nonché, nel resto del territorio laziale, su analoghe previsioni pianificatorie di altri comuni.

 

II. La monetizzazione degli standard.

Una seconda questione che è stata interessata prima da un parere regionale e poi dalla modifica della L.R. 7/2017 è quella della disciplina della monetizzazione degli standard in occasione degli interventi di rigenerazione urbana.

In questo caso la norma di riferimento, ante L.R. 19/2022, era l’art. 8, co. 1, L.R. 7/2017, nella parte in cui così disponeva circa la possibilità di monetizzare le aree a standard ex artt. 3 e 5 DM 1444/68:

Qualora sia comprovata l’impossibilità di cedere le aree per gli standard urbanistici ovvero, nei comuni con popolazione residente superiore a 40 mila abitanti, l’estensione delle aree da cedere a titolo di standard sia inferiore a 1000 mq, gli standard dovuti possono essere monetizzati”.

La Regione Lazio, interpellata sul punto, con un parere del luglio scorso [https://www.regione.lazio.it/sites/default/files/2022-07/Parere-649510-Monetizzazione-Terracina-01-07-2022.pdf] aveva interpretato la disposizione nel senso che la monetizzazione era consentita in due (alternative e non congiunte) ipotesi: (i) impossibilità di cessione di aree a standard e (ii) nei comuni sopra i 40.000 abitanti, in presenza di aree a standard inferiori a 1.000 mq. E ciò con la precisazione, sempre nel parere in questione, che la regola della “impossibilità” opera anche per i comuni sopra i 40.000 abitanti.

Ulteriormente il parere evidenziava che “stante la prevalenza della legge sulle fonti regolamentari comunali, la monetizzazione degli standard in attuazione degli interventi di cui alla l.r 7/2017 sia consentita esclusivamente nelle fattispecie previste dall’art. 8, comma 1, e con i limiti da esse previste, restando irrilevanti e non applicabili differenti casistiche, con esse confliggenti, individuate dai regolamenti comunali”. Da ciò, quindi, la conseguente inoperatività – in caso di interventi di rigenerazione urbana – di discipline locali differenti (fossero esse più o meno restrittive).

Tuttavia, con la L.R. 19/2022 la Regione è tornata sull’argomento per “riconsegnare” alla disciplina comunale la regolazione di modalità e limiti della (facoltà di) monetizzazione degli standard: infatti, il novellato art. 8, co. 1, L.R. 7/2017 dispone che

Qualora sia comprovata l’impossibilità di cedere le aree per gli standard urbanistici ovvero, nei comuni con popolazione residente superiore a 40 mila abitanti, l’estensione delle aree da cedere a titolo di standard sia inferiore a 1000 mq, gli standard dovuti possono essere monetizzati previa valutazione del comune eseguita secondo le disposizioni del proprio ordinamento.

La disciplina (e la decisione) sulla monetizzabilità degli standard è, appunto, tornata nell’orbita comunale, e ciò, verosimilmente, onde evitare difficoltà nel governo del territorio da parte dei singoli Enti Locali.