Rinegoziazione e appalto integrato: è possibile redigere il progetto esecutivo con il prezzario aggiornato?
L'aumento dei prezzi nei contratti pubblici è un tema di assoluta attualità. Sebbene il Codice dei contratti pubblici 2023 abbia introdotto numerose norme che permettono di mantenere in equilibrio il contratto minato dall’aumento spropositato dei prezzi (è il caso della revisione prezzi obbligatoria ex art. 60 d.lgs. 36/2023 e della rinegoziazione prevista dall’art. 9 d.lgs. 36/2023), numerosi sono i contratti disciplinati da corpi normativi privi di meccanismi analoghi di tutela.
La questione assume connotati peculiari nel caso dell’appalto integrato.
A fronte di un’offerta presentata sulla base di un prezzario non più attuale, è possibile per l’appaltatore redigere il progetto esecutivo sulla base dell’ultimo prezzario disponibile, che meglio rispecchi i prezzi attuali?
Con una recente delibera, l’ANAC ha risposto positivamente al quesito.
IL CASO
L’aspetto temporale e la disciplina applicabile al caso di specie sono di assoluta centralità per cogliere le conclusioni dell’Autorità.
Siamo infatti al cospetto di una procedura aperta per la realizzazione di un intervento di bonifica affidata tramite appalto integrato ai sensi dell’art. 53, comma 2, lett. c), del d.lgs. 163/2006. A base di gara, dunque, era stato posto il progetto preliminare e i concorrenti avrebbero dovuto predisporre il progetto definitivo; all’aggiudicatario sarebbe spettata la redazione del progetto esecutivo e l’esecuzione dei lavori.
Il bando di gara risaliva al dicembre 2015, con progetto preliminare approvato nel giugno 2015 e prezzario regionale 2014. Il termine di presentazione delle offerte era stato fissato nel marzo 2016. Nonostante l’aggiudicazione del febbraio 2018, a causa di un contenzioso amministrativo conclusosi solo nel 2021, le operazioni finalizzate alla sottoscrizione del contratto sono state avviate a distanza di anni.
Nell’abito della predisposizione del contratto, nel febbraio 2023, l’appaltatore aveva chiesto all’amministrazione di prevedere nel contratto l’aggiornamento del progetto esecutivo al prezzario aggiornato: in altre parole, fermo restando il ribasso offerto in gara, l’affidatario chiedeva di modificare il contratto al fine di procedere alla predisposizione del progetto esecutivo sulla base dell’ultimo prezzario regionale aggiornato, atteso non solo l’intervallo di tempo trascorso dall’offerta (circa 8 anni!), ma anche i noti eventi eccezionali ascrivibili alla categoria della causa di forza maggiore intervenuti nelle more della stipula del contratto.
L’amministrazione ha chiesto così all’ANAC di esprimersi sull’ammissibilità della richiesta avanzata dall’aggiudicatario, considerando altresì il rilevo sociale che i lavori di risanamento ambientale previsti dal progetto hanno, anche con riferimento all’economia locale del territorio.
IL PARERE DELL’ANAC
Secondo l’ANAC, le questioni da definire nel caso di specie sono essenzialmente due:
- la necessità che la stazione appaltante di applicare i prezzari aggiornati;
- la possibilità per l’amministrazione di modificare le condizioni economiche di un appalto prima della stipula del contratto;
Quanto alla prima questione, l’ANAC ha ribadito che il costo dei prodotti, delle attrezzature e delle lavorazioni deve essere determinato dalla stazione appaltante sulla base dei prezzari regionali aggiornati annualmente, precisando che “«L’obbligo di aggiornamento dei prezzi non può che riferirsi alla fase di approvazione del progetto e non a quelle ad essa successive (in tal senso depongono anche le indicazioni contenute in proposito nelle Linee Guida n. 3 e le disposizioni di cui all’art. 26 del Codice (…)» (delibera n. 768/2019 cit.)”. Si tratta di un principio cardine del sistema dei contratti pubblici che oltre a trovare conferma nei vari codici che si sono succeduti sino ad oggi (d.lgs. 163/2006, d.lgs. 50/2016 e d.lgs. 36/2023), ha trovato conferma anche nella recente legislazione emergenziale sviluppatasi negli ultimi anni (a tal proposito si rinvia al Paper di Legal Team Caro materiali e appalti pubblici disponibile gratuitamente a questo link).
La seconda questione, invece, è certamente quella di più incerta soluzione e su cui l’ANAC si concentra maggiormente.
Il tema che viene in rilievo non attiene, dunque, all’applicabilità o meno delle disposizioni emergenziali introdotte dal legislatore a cavallo tra il 2021 e il 2022 per far fronte al fenomeno c.d. caro materiali. La questione attiene alla possibilità da parte dell’aggiudicatario di redigere il progetto esecutivo avendo come riferimento l’ultimo prezzario regionale aggiornato, quindi procedendo ad una modifica delle condizioni economiche di aggiudicazione prima della stipula del contratto d’appalto.
Sia il codice del 2016, che il codice del 2006 ammettono unicamente una variazione del contratto in corso di esecuzione e sembrano escludere che sia consentito procedere ad una modifica del contratto prima della sua stipula, atteso che si tratterrebbe di una modifica delle condizioni di aggiudicazione. Sulla possibilità di apportare una variante nella fase tra l’aggiudicazione e la stipula si è acceso anche un dibattito giurisprudenziale.
Parte della giurisprudenza ritiene che non può trovare accoglimento la domanda di modifica delle pattuizioni prima di procedere alla stipulazione del contratto d’appalto (Cons. St. n. 9426/2022; TAR Lombardia n. 1343/2022).
Altra parte della giurisprudenza ritiene invece ammissibili – entro taluni e specifici limiti – modifiche alle condizioni di aggiudicazione prima della stipula del contratto d’appalto. Secondo tale indirizzo, infatti, il principio di immodificabilità del contratto non ha carattere assoluto e le variazioni contrattuali non violano sempre e comunque i principi fondamentali in materia di evidenza pubblica, per cui “una richiesta di rinegoziazione deve essere presa in considerazione, al ricorrere di particolari circostanze di fatto che ne evidenzino la ragionevolezza e la plausibilità, risultando irragionevole accettare l’azzeramento degli esiti di una procedura di affidamento in assenza di specifiche e sostanziali illegittimità che la affliggano” (TAR Piemonte n. 180/2023; TAR Sardegna n. 770/2022)
Nel dare soluzione al caso sottoposto alla sua attenzione, l’ANAC aderisce a tale ultimo orientamento.
Sicché, ferma restando la necessità di rispettare i principi di parità di trattamento e di trasparenza – che impediscono, dopo l’aggiudicazione, di apportare variazioni sostanziali alle condizioni di affidamento di un contratto pubblico -, “in presenza di circostanze eccezionali sopravvenute, appare consentito procedere a modifiche non sostanziali alle predette condizioni di affidamento, anche prima della stipula, secondo il prudente apprezzamento dell’amministrazione e nel rispetto dei limiti sopra individuati”.
Secondo l’Autorità, infatti, anche la normativa emergenziale introdotta dal legislatore per far fronte al fenomeno del c.d. caro materiali che ha colpito anche l’appalto in questione, trova genesi proprio nella considerazione chela valutazione di sostenibilità e remuneratività delle offerte condotta dall’amministrazione può riferirsi ad un contesto economico non più attuale al momento della stipula del contratto, con riguardo ai prezziari utilizzati per la progettazione della gara.
Nel caso di specie, alla luce della dilazione temporale intercorsa tra l’indizione della gara – dicembre 2015 – e la sottoscrizione del contratto, unita all’emergenza sanitaria e all’attuale contesto socio-economico caratterizzato da un sensibile aumento dei costi di alcuni materiali da costruzione, “sembra consentito alla stazione appaltante procedere ad una valutazione delle richieste provenienti dall’aggiudicatario, nei termini e nei limiti indicati dalla giurisprudenza richiamata, nel rispetto dei criteri di efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, al fine di assicurare che la stipula del contratto d’appalto avvenga in condizioni di equilibrio e di evitare contestazioni in corso d’opera e ostacoli alla realizzazione della stessa a regolare d’arte”.
Si tratterebbe, in tal caso, spiega l’ANAC, di garantire la predisposizione degli elaborati progettuali sulla base del prezzario regionale aggiornato, atteso l’obbligo previsto in tal senso in via generale dal d.lgs. 163/2006 e dal d.lgs. 50/2016, ma ribadito anche dalla normativa emergenziale, in particolare dall’art. 26 del c.d. decreto Aiuti (d.l. 50/2022).
Delibera ANAC n. 335 del 12 luglio 2023
AGCM e radiotaxi: continua la lotta alle clausole di esclusiva
L’AGCM continua a censurare le clausole di esclusiva inserite negli statuti di molte società cooperative di radiotaxi.
Con l’ingresso nel mercato di società che gestiscono piattaforme digitali e/o app, che mettono in contatto diretto tassista e utente, diverse cooperative di radiotaxi hanno inserito nei loro statuti le c.d. “clausole di esclusiva”, vietando sostanzialmente ai singoli tassisti aderenti di servirsi simultaneamente di più di un intermediario che fornisca il servizio di raccolta e smistamento della domanda. Alla violazione di tale divieto corrisponde generalmente l’esclusione dalla cooperativa.
Tali comportamenti sono stati oggetto di numerose segnalazioni, a cui hanno fatto seguito numerosi provvedimenti dell’AGCM che, dal 2018, contesta tali clausole, ritenendole indebitamente restrittive della concorrenza e sottolineandone le ricadute negative tanto per i fruitori del servizio quanto per chi lo offre (in altri termini, clienti e tassisti). Vincolare i soci a destinare tutta la propria capacità produttiva alla cooperativa a cui appartengono, rappresenta una condotta idonea ad impedire e ostacolare ingiustificatamente l’accesso e lo sviluppo di altre piattaforme di intermediazione nel mercato di riferimento. L’obiettivo, invece, è quello proprio di estendere la capacità produttiva dei singoli tassisti a favore delle piattaforme concorrenti, aumentando così la fruibilità del servizio.
Tra le cooperative colpite dalle sanzioni dell’Autorità antitrust figurano quelle impiegate nei territori di Milano, Roma e Torino che, quindi, - come è facilmente immaginabile - costituiscono una grande fetta del mercato dei servizi taxi in Italia.
A tale presa di posizione dell’Autorità ha fatto seguito un acceso contenzioso dinanzi al giudice amministrativo, che ha quasi sempre confermato i provvedimenti dell’AGCM.
Ad oggi tuttavia, oltre a non esservi stato alcun intervento del legislatore in materia, tali clausole continuano a trovare spazio in regolamenti e statuti di numerose cooperative taxi.
Così l’AGCM ha recentemente avviato un nuovo procedimento istruttorio per contestare l’inottemperanza ai propri provvedimenti da parte di alcune cooperative di radiotaxi operanti sul territorio di Roma, con cui era stata accertata l’illiceità antitrust delle clausole contenute nel relativo statuto e regolamento.
Più precisamente, nel giugno 2018 (provv. n. 27244 del 27 giugno 2018) l’Autorità aveva accertato che alcune cooperative operanti nel territorio di Roma Capitale avevano posto in essere delle intese restrittive della concorrenza, inserendo, negli atti che disciplinano i rapporti tra le società e i tassisti aderenti, delle clausole che individuano specifici obblighi di non concorrenza. Tali clausole, nel loro insieme, ostacolavano l’ingresso sul mercato di imprese concorrenti e, in particolare, dei nuovi operatori che offrivano servizi di servizi di raccolta e smistamento della domanda del servizio taxi.
Nel dispositivo del provvedimento, l’Autorità aveva ordinato alle cooperative di porre fine al comportamento distorsivo della concorrenza, eliminando tali clausole o riducendone la portata limitativa. Allo stesso tempo, l’Autorità aveva ordinato di astenersi in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quello oggetto dell’infrazione accertata, oltre che di trasmettere una relazione sulle misure di ottemperanza adottate.
Nonostante il Consiglio di Stato avesse confermato tali provvedimenti, le cooperative non avevano posto in essere alcuna attività idonea finalizzata all’ottemperanza del provvedimento sanzionatorio. Nel gennaio 2022, l’Autorità aveva così avviato un nuovo procedimento rilevando che le cooperative di radiotaxi non avevano adottato alcuna misura volta a eliminare o ridurre la portata delle clausole di non concorrenza e si erano limitate alla non applicazione delle clausole censurate e ritenute anticoncorrenziali. Ritenendo che un simile atteggiamento integrasse comunque inottemperanza al provvedimento n. 27244/2018, l’Autorità ha così disposto una nuova sanzione. Il TAR Lazio, con sentenza n. 4769 del 20 marzo 20235 ha confermato il provvedimento (allo stato risulta pendente l’appello).
AGCM ha così aperto un nuovo procedimento finalizzato all’ottemperanza del provvedimento del 2018.
Una delle cooperative destinatarie del nuovo procedimento ha tuttavia reso noto la conclusione di un accordo tra Uber e il consorzio italiano delle cooperative di radiotaxi, grazie alla quale i taxi aderenti alle principali cooperative radiotaxi avranno a disposizione un’ulteriore opportunità di corse e dunque di guadagno grazie all’accesso alla base utenti, nazionali e stranieri, dell’app Uber.
Tale misura non è stata ritenuta idonea dall’AGCM: le clausole di esclusiva continuano ad essere presenti nello statuto e nel regolamento della cooperativa così come censurate nel provvedimento dell’AGCM del 2018.
Il provvedimento sanzionatorio, precisa l’Autorità, imponeva un’attività modificativa dello statuto mediante una delibera assembleare straordinaria dei soci, volta all’eliminazione delle clausole di esclusiva a portata assoluta, che hanno l’effetto di condizionare indebitamente la condotta dei tassisti, esercitando una illecita pressione sulla loro libertà negoziale.
L’accordo siglato con Uber, dunque, secondo l’Autorità, non consente in ogni caso ai tassisti di impiegare liberamente una quota della propria capacità produttiva in favore di piattaforme di intermediazione concorrenti, atteso che Uber è integrato con la piattaforma del consorzio. L’accordo tra le due società, secondo l’AGCM, consisterebbe in “un’alleanza strategica con cui integreranno le rispettive app, nel senso, cioè, che i clienti di entrambi i servizi confluiranno sulla stessa piattaforma, che sarà gestita sulla base dell’accordo di cooperazione; alleanza che, pertanto, non appare modificare le condizioni di concorrenza nel mercato interessato in modo idoneo ad ottemperare al provvedimento dell’Autorità”.
La cooperativa di radiotaxi, dunque, avrebbe dovuto modificare il proprio statuto tramite una delibera assembleare dei soci e non limitarsi ad informare gli stessi di un nuovo accorso commerciale, mantenendo inalterata la natura della clausola di esclusiva.
In altre parole “la parziale apertura del mercato, all’esito dell’ottemperanza da parte degli altri partecipanti all’intesa sanzionata, non elide l’obbligo di porre in essere le medesime attività di adeguamento, come individuate nel richiamato provvedimento del 2018. Se così non fosse, si disincentiverebbe l’ottemperanza di ciascuna parte destinataria di un provvedimento dell’Autorità, nella speranza che l’ottemperanza delle altre imprese compartecipi possa soddisfare le ragioni pubbliche della concorrenza”.
Mentre tutti i canali di informazione narrano quotidianamente di una domanda molto alta per tali servizi che non riesce ad essere ampiamente soddisfatta a causa di un’offerta decisamente insufficiente, l’AGCM continua a constatare l’ostilità del settore all’apertura verso le nuove tecnologie e, soprattutto verso una riforma del settore dei servizi pubblici non di linea, ora più che mai necessaria.
Provvedimento AGCM n. 30716 - Bollettino AGCM n. 28/2023
Concessioni balneari: l’AGCM boccia i bandi che non aprono alla concorrenza
L’AGCM torna a discutere dell’assegnazione delle concessioni demaniali marittime e della proroga al 31 dicembre 2033.
Il tema delle concessioni demaniali marittime è stato oggetto di numerosi interventi da parte dell’Autorità volti a censurare sia le proroghe ingiustificate delle concessioni in essere, sia le disposizioni contenute nei bandi per l’assegnazione delle nuove concessioni che pregiudicano il corretto confronto concorrenziale.
Ne abbiamo parlato spesso anche nel nostro Paper gratuito sulle Concessioni demaniali che puoi scaricare cliccando QUI.
Proprio su questi due temi, l’AGCM è tornata ad esprimersi in un recente provvedimento.
IL CASO
Nel gennaio 2020, un Comune aveva ordinato la pubblicazione sul proprio sito istituzionale di ben 56 istanze di proroga del termine delle concessioni demaniali marittime formulate dai titolari delle stesse, con l’invito, rivolto a coloro che ne avessero avuto interesse, a presentare osservazioni e/o opposizioni avverso tali istanze. Una sola società aveva avanzato delle osservazioni sulle istanze di proroga con specifico riguardo a 3 stabilimenti per i quali erano state depositate le istanze.
Il Comune disponeva, in applicazione dell’art. 1, commi 682 L. 145/2018, la proroga delle concessioni in essere fino al 31 dicembre 2033, rinviando a una fase successiva la definizione dei procedimenti nei quali erano state presentate le osservazioni.
Nel dicembre 2020, le determine di proroga adottate del Comune erano fatte oggetto di una segnalazione all’Autorità, la quale rilevava l’illegittimità delle proroghe disposte e invitava il Comune a disapplicare la normativa nazionale indicata a fondamento, per contrasto con la disciplina e con i principi eurounitari. In riscontro alla segnalazione dell’Autorità, il Comune comunicava la propria intenzione di non procedere alla modifica dei provvedimenti di proroga in quanto ritenuti conformi ai principi eurounitari e alla disciplina nazionale dettata dal codice della navigazione e dall’art. 1, commi 682, L. 145/2018.
Solo nel marzo 2023, poi, il Comune dava seguito ai procedimenti di definizione delle istanze rispetto alle quali erano state presentate le osservazioni, avviando una manifestazione di interesse “al fine di individuare il soggetto affidatario che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione fino al 31 dicembre 2033”.
La fase di selezione dell’affidatario delle concessioni veniva articolata dal Comune in vari sub-procedimenti, consistenti:
a) nella verifica del possesso dei requisiti previsti dagli articoli 30 e 80 del d.lgs. 50/2016;
b) nell’indicazione da parte dei concorrenti della concessione demaniale marittima per la quale intendono partecipare alla fase comparativa;
c) nella “eventuale fase di comparazione”, da svolgersi secondo i criteri (di investimenti, gestione, standard di servizi offerti e maggior canone offerto) specificati in un apposito Disciplinare di gara.
La manifestazione di interesse e il disciplinare sono stati segnalati all’AGCM.
LE CONSIDERAZIONI DELL’AUTORITA’
Secondo l’AGCM, la procedura indetta dal Comune, piuttosto che avviare una reale competizione per l’assegnazione delle concessioni, aveva avvantaggiato di fatto i soli concessionari esistenti, precludendo l’accesso al settore a nuovi operatori.
Nel giungere a tale considerazione, l’Autorità ricorda che “in materia di affidamenti riguardanti l’uso di beni pubblici (rientranti nel demanio o nel patrimonio indisponibile dello Stato o degli enti locali), l’individuazione del privato affidatario deve sempre avvenire mediante l’espletamento, da parte della Pubblica Amministrazione, di procedure ad evidenza pubblica”.
In particolare, l’affidamento delle concessioni, tra cui quelle riguardanti i beni demaniali marittimi aventi finalità turistico/ricreative “deve avvenire mediante procedure concorsuali trasparenti e competitive, al fine di attenuare gli effetti distorsivi della concorrenza connessi alla posizione di privilegio attribuita al concessionario o ai concessionari”.
Si trattai di principi che, come noto, sono stati ampiamenti espressi già nelle famose sentenze gemelle n. 17/2021 e n. 18/2021 del Consiglio di Stato, in cui i giudici hanno sancito l’incompatibilità con il diritto europeo del sistema delle proroghe ex lege disposte dall’art. 1, commi 682 L. 145/2018, con conseguente venir meno degli effetti della concessione a partire dal 31 dicembre 2023, scaduto il quale “tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente da se via sia – o meno – un soggetto subentrante nella concessione”.
Con riferimento ai principi e ai criteri che devono essere utilizzati nelle predisposizioni dei bandi, il Consiglio di Stato ha precisato come detti criteri dovrebbero riguardare la capacità tecnica, professionale, finanziaria ed economica degli operatori, essendo consentito anche stilare dei criteri che valorizzino “l’esperienza professionale e il know how acquisito da chi ha già svolto attività di gestione di beni analoghi (e, quindi, anche del concessionario uscente, ma a parità di condizioni con gli altri)”.
Lo scopo, infatti, è quello di garantire criteri di selezione proporzionati, non discriminatori ed equi, consentendo a tutti gli operatori economici l’accesso alle opportunità economiche offerte dalle concessioni.
In altre parole, secondo il Consiglio si Stato, la previsione di tali criteri non può tradursi “in una sorta di sostanziale preclusione all’accesso al settore di nuovi operatori”.
Sulla stessa scia, ricorda l’Autorità, si colloca anche la recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE, 20 aprile 2023, c-348/22 di cui abbiamo parlato in qui) che, nell’affermare la diretta applicabilità della Direttiva 2006/123/CE, ha ricordato l’obbligo per gli Stati membri di applicare una procedura di selezione imparziale e trasparente tra i candidati potenziali e il divieto di rinnovare automaticamente un’autorizzazione rilasciata per una determinata attività.
Alla luce di tali considerazioni, l’AGCM ha ritenuto che le decisioni assunte dal Comune nel caso di specie, non solo traevano fondamento da una disciplina il cui contrasto con i principi concorrenziali europei è oramai acclarata, ma finivano per impedire un reale confronto competitivo che, invece, per tali servizi dovrebbe essere esaltato, in ragione della scarsità delle risorse oggetto di affidamento.
La procedura selettiva avviata dal Comune nel 2023, infatti, risultava solo apparentemente rispondente ai criteri di trasparenza, imparzialità, pubblicità e par condicio richiesti dall’art. 12 della Direttiva 2006/123/CE: il Comune, infatti, aveva limitato la procedura selettiva solamente a due operatori privati, l’attuale concessionario e un’altra società che aveva manifestato interesse a seguito della pubblicazione dell’avviso nel 2020.
Attraverso il Disciplinare, dunque, il Comune, piuttosto che avviare una reale competizione per il mercato, aveva di fatto avvantaggiato i concessionari esistenti, precludendo l’accesso al settore a nuovi operatori.
Oltre alla procedura di selezione, anche il sistema delle proroghe disposte dal Comune sino al 31 dicembre 2033 è risultato non rispondente ai principi concorrenziali della durata delle concessioni: nel predisporre le proroghe, il Comune non aveva condotto alcuna valutazione di carattere tecnico, economico e finanziario rispetto al valore della concessione e alla sua complessità organizzativa o al tempo necessario per la remunerazione del capitale investito. In effetti, il Comune si era limitato a indicare la medesima data prevista dalla proroga disposta dalla L. 145/2018 che, tuttavia, oggi risulta abrogata.
Il Comune, dunque, già nel 2020 – quando ha stabilito la proroga delle concessioni in essere - avrebbe dovuto disapplicare la normativa nazionale posta a fondamento delle proroghe e procedere per tutte le concessioni demaniali marittime all’indizione di una nuova procedura a evidenza pubblica, rispettosa dei principi comunitari e in grado di garantire effettivamente il confronto concorrenziale tra più operatori.
In conclusione, dunque, l’Autorità ha ritenuto le condotte e le determinazioni assunte dal Comune contrarie agli artt. 49 e 56 del TFUE – in quanto suscettibili di limitare ingiustificatamente la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi nel mercato interno – nonché alle disposizioni normative eurounitarie, in particolare con l’art. 12 della Direttiva 2006/123/CE, attesa la sua diretta applicabilità.
L’Autorità ha così invitato il Comune a modificare le deliberazioni assunte, eliminando le distorsioni concorrenziali e procedendo nel più breve tempo possibile all’indizione di procedure ad evidenza pubblica con riferimento a tutte le concessioni esistenti nel Comune.
Provv. AS1894 - Bollettino AGCM n. 26 del 10 luglio 2023
Cooptazione negli appalti pubblici: tra codice 2016 e codice 2023 le regole le fa la giurisprudenza
L'istituto della cooptazione torna a trovare spazio nel nuovo codice degli appalti pubblici, il d.lgs. 36/2023.
La cooptazione, anche se apparentemente assente, trovava in verità applicazione anche nel codice 2016 grazie al rinvio previsto dall’art. 216, comma 14 d.lgs. 50/2016 al d.p.r. 207/2010, il cui art. 92, comma 5 prevedeva che “Se il singolo concorrente o i concorrenti che intendano riunirsi in raggruppamento temporaneo hanno i requisiti di cui al presente articolo, possono raggruppare altre imprese qualificate anche per categorie ed importi diversi da quelli richiesti nel bando, a condizione che i lavori eseguiti da queste ultime non superino il venti per cento dell'importo complessivo dei lavori e che l'ammontare complessivo delle qualificazioni possedute da ciascuna sia almeno pari all'importo dei lavori che saranno ad essa affidati”.
L’art. 68, comma 12 del d.lgs. 36/2023 - che riproduce pressoché fedelmente la lettera dell’art. 95, comma 5 del d.p.r. 207/2010 – prevede infatti che i concorrenti che si uniscono e che hanno i requisiti «possono raggruppare altre imprese qualificate anche per categorie ed importi diversi da quelli richiesti nel bando, a condizione che i lavori eseguiti da queste ultime non superino il 20% dell’importo complessivo dei lavori e che l’ammontare complessivo delle qualificazioni possedute da ciascuna sia almeno pari all’importo dei lavori che saranno ad essa affidati».
La ratio dell’istituto della cooptazione è certamente quella di favorire le neonate imprese che si affacciano al mercato degli appalti e, dunque, di garantire la più ampia partecipazione delle PMI.
La cooptazione ha infatti lo scopo di consentire ai concorrenti non qualificati per una specifica prestazione, di maturare le capacità tecniche in categorie di lavori diversi da quelle per cui sono qualificati, affiancando un’altra impresa maggiormente qualificata.
Il rischio, tuttavia, è che il ricorso a tale istituto si trasformi in uno strumento per eludere la disciplina in tema di qualificazione e di partecipazione alle procedure di evidenza pubblica.
Una delle tematiche che ha da sempre accompagnato questo istituto è legata al ruolo che assumono le imprese cooptate nell’ambito della gara e, più precisamente, che ruolo assume la cooptata dinanzi alla stazione appaltante sia rispetto all’offerta presentata e alla verifica dei requisiti, sia rispetto al regime delle responsabilità in sede di esecuzione.
Secondo l’ANAC, ad esempio, l’impresa cooptata può eseguire i lavori, ma non assume lo status di concorrente e, dunque, non è tenuta a possedere tutti i requisiti di qualificazione richiesti ai concorrenti (Determina ANAC 10.10.2012, n. 4; Delibera ANAC 1.3.2017, n. 228).
A tale conclusione sembra allinearsi anche la giurisprudenza più recente.
Con la sentenza n. 950/2023, il TAR Veneto ha colto l’occasione per fornire una ricostruzione dell’istituto.
Muovendo dagli apporti giurisprudenziali più significativi, il TAR Veneto ha chiarito innanzitutto che il soggetto cooptato non può acquistare lo status di concorrente, né di offerente o contraente e, dunque, non può acquistare alcuna quota di partecipazione all’appalto. L’impresa cooptata non può altresì ricorrere al subappalto e non è tenuta alla sottoscrizione della garanzia.
Il ricorso alla cooptazione deve essere dichiarato dal concorrente in maniera chiara e inequivocabile, fermo restando che è possibile ricorrere a tale istituto per l’esecuzione di prestazioni che “non superino il venti per cento dell’importo complessivo dei lavori e che l’ammontare complessivo delle qualificazioni possedute da ciascuna sia almeno pari all’importo dei lavori che saranno ad essa affidati”.
In tal senso, precisa il TAR, l’impresa cooptata può non essere in possesso dei requisiti richiesti dalla legge di gara, ma ciò non esonera l’impresa cooptata dall’obbligo di qualificarsi per la parte di lavori assunta in proprio: “Il diverso ruolo assunto nell’ambito dell’associazione per cooptazione non esonera […] la mandante cooptata dall’obbligo di qualificarsi per la parte di lavori assunta in proprio, in conformità al principio di carattere generale di buon andamento dell’attività amministrativa e di par condicio tra operatori economici, secondo quanto previsto dalla citata disposizione regolamentare (laddove si pone la condizione che «l’ammontare complessivo delle qualificazioni possedute da ciascuna sia almeno pari all’importo dei lavori che saranno ad essa affidati» (in questi termini: Cons. Stato, V, 17 marzo 2014, n. 1327, 10 settembre 2012, n. 4772, sopra richiamate)” (Cons. Stato, Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328. Conformi ex multis: Cons. giust. amm. Reg. Sic., Sez. giur, 28 marzo 2017, n. 152; TAR Umbria, Sez. I, 13 marzo 2023, n. 146).
In sintesi, spiega il Collegio, “l’impresa cooptata può non essere in possesso dei requisiti richiesti dalla legge di gara, ma deve comunque avere i requisiti necessari ad eseguire le prestazioni che le vengono affidate”.
Sulla scorta di tali considerazioni, il TAR ha ritenuto legittima l’esclusione di un concorrente che aveva fatto ricorso all’istituto della cooptazione, indicando come cooptata un’impresa priva delle qualificazioni richieste dal bando.
L’impresa cooptante aveva infatti dichiarato che l’impresa cooptata avrebbe eseguito il 20% delle prestazioni OG12 per le quali il disciplinare richiedeva l’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali.
Secondo la ricorrente esclusa dalla gara, sarebbe stato sufficiente che l’operatore economico cooptante fosse in possesso di tutti i requisiti di partecipazione e di esecuzione richiesti dalla lex specialis, mentre l’impresa cooptata doveva essere in possesso di attestazioni SOA in classifiche adeguate a quelle necessarie a coprire l’importo delle prestazioni ad essa affidate.
L’impresa cooptata, tuttavia, risultava priva dell’attestazione SOA OG12 e dell’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali. Sulla scorta di tale dato, il TAR ha ritenuto legittima l’esclusione e, dunque, rigettato il ricorso promosso.
Le considerazioni espresse dal TAR costituiscono la sintesi degli apporti giurisprudenziali più recenti e permettono di coglier le implicazioni pratiche dell’istituto della cooptazione, specie in vista delle nuove norme del codice 2023 che tornano ad esplicitare la possibilità di ricorrere a tale istituto.
TAR Veneto, Sez. I, 27.6.2023 n. 910
Trasporto ferroviario ad alta velocità e regionale: il provvedimento dell’AGCM che guarda alla mobilità integrata
Con provvedimento n. 30610/2023, l’AGCM si è pronunciata sugli impegni assunti da Trenitalia in merito alla possibilità per il concorrente dei servizi di alta velocità NTV (Italo) di commercializzare anche i biglietti del servizio regionale gestito unicamente da Trenitalia e di creare un canale di vendita e di informazione analogo. Oltre a ciò, il provvedimento può certamente essere letto come una forma di apertura e di incentivo ai servizi di mobilità in chiave sempre più integrata per gli utenti.
Vediamo più nel dettaglio di cosa si tratta.
Nel marzo 2022, NTV (Italo), unico operatore italiano, oltre a Trenitalia, attivo nell’offerta di servizi di trasporto ferroviario ad altra velocità, aveva presentato una segnalazione all’AGCM dove rappresentava che Trenitalia avrebbe attuato una strategia commerciale abusiva.
Secondo NTV, Trenitalia avrebbe legato artificialmente i servizi di trasporto regionale e Intercity - gestiti da Trenitalia in regime di monopolio tramite corresponsione di corrispettivi pubblici - con i servizi di trasporto a mercato operati su rete alta velocità, dove Trenitalia è in concorrenza con NTV.
Ciò sarebbe avvenuto attraverso un’interfaccia di vendita - fisica e virtuale, diretta e indiretta - indistinta, unitaria ed esclusiva, non replicabile dai concorrenti non abilitati a vendere titoli di viaggio per i collegamenti sussidiati.
Al fine di superare questo svantaggio competitivo, NTV avrebbe ripetutamente chiesto a Trenitalia di consentirle di replicare, sui propri canali di vendita, soluzioni di viaggio che integrino le tratte regionali.
Dopo varie interlocuzioni, i due operatori ferroviari avevano raggiunto un accordo ed avevano sottoscritto un contratto per la commercializzazione, sui canali di vendita di NTV, dei biglietti dei servizi ferroviari regionali soggetti a obbligo di servizio pubblico operati da Trenitalia in combinazione con i treni AV Italo.
Tuttavia, in tale contratto Trenitalia avrebbe imposto specifiche clausole aventi ad oggetto l’accesso e il trattamento dei dati relativi ai biglietti di dubbia fattibilità tecnica, che avrebbero comportato un costo significativo a carico di NTV, oltre a prolungare le tempistiche di implementazione della soluzione.
Secondo NTV, dunque, Trenitalia farebbe leva sulla posizione dominante detenuta nei mercati dei servizi dei collegamenti ferroviari regionali e Intercity per estendere e preservare il proprio potere di mercato anche nel mercato dei servizi alta velocità, danneggiando l’unico competitor presente e ostacolando l’esplicarsi di un confronto concorrenziale basato sul merito.
Tale comportamento, dunque, avrebbe potuto integrare un presunto abuso di posizione dominante, vietato dall’art. 102 TFUE.
Nel luglio 2020, l’Autorità ha così avviato un procedimento nei confronti di Trenitalia, per accertare il presunto abuso di posizione dominante.
Nel corso di un’audizione NTV ha comunicato di aver avviato nel mese di luglio 2022 la vendita di biglietti di treni alta velocità Italo in combinazione con i biglietti di treni regionali di Trenitalia, sebbene limitatamente ai collegamenti del trasporto regionale esercitati da Trenitalia, escludendo i servizi erogati da due società partecipate da Trenitalia che gestiscono il trasporto regionale rispettivamente in Emilia-Romagna e Lombardia.
Italo aveva infatti avviato la negoziazione con le due società (che utilizzano il sistema di Trenitalia per la vendita dei biglietti) per estendere anche ad esse i contenuti dell’cccordo; tuttavia, Trenitalia, il cui coinvolgimento è necessario per le opportune estensioni all’accesso al suo sistema di vendita, avrebbe ritardando e ostacolato la trattativa.
Oltre a ciò, secondo il segnalante, sui canali di comunicazione di Trenitalia relativi al servizio regionale (in primis i monitor di bordo) venivano riprodotti annunci riguardanti solo le coincidenze con gli altri treni di Trenitalia, inclusi quelli a mercato. Al fine di garantire una corretta e completa informazione ai passeggeri, tali annunci dovrebbero includere, invece, anche le coincidenze con i treni alta velocità di Italo.
Al fine di comprendere la posizione tenuta dall’AGCM è necessario considerare il mercato di riferimento, così come tracciato nel provvedimento dell’Autorità.
La società Trenitalia opera in regime di monopolio nel segmento dei trasporti ferroviari regionali e intercity, a fronte della corresponsione di corrispettivi pubblici, mentre gestisce a mercato i servizi di alta velocità.
Si tratta di due segmenti di mercato che intercettano la domanda di viaggiatori diversi: la domanda di servizi di trasporto pubblico ferroviario regionale si rivolge principalmente ad utenti che “esprimono esigenze di mobilità a carattere continuativo su tratte primarie di breve durata in determinate fasce orarie delle giornate feriali”; i servizi di trasporto ferroviario di passeggeri a medio-lunga percorrenza su rete convenzionale, invece, “soddisfano esigenze di mobilità sovraregionale normalmente di carattere saltuario”.
Da questi ultimi si distinguono, poi, i servizi di trasporto pubblico ferroviario di passeggeri a lunga percorrenza su rete ad alta velocità, che “costituiscono un mercato rilevante del prodotto distinto dai servizi a medio-lunga percorrenza, in ragione di rilevanti differenze”.
Trenitalia detiene dunque una posizione di dominanza nei mercati dei servizi di trasporto passeggeri regionale e a medio-lunga percorrenza su rete convenzionale, potendo operare come monopolista in virtù dei contratti di servizio con gli enti pubblici. Nel settore dei servizi di trasporto ad alta velocità, invece, la stessa opera in regime di concorrenza con NTV (Italo), pur conservando rispetto a quest’ultima una posizione di preminenza.
L’AGCM ha deliberato di avviare un procedimento per violazione dell’art. 102 TFUE, ipotizzando che il rifiuto di Trenitalia di stipulare degli accordi con il competitor Italo, unite alle condizioni irragionevoli imposte negli accordi parzialmente raggiunti, integrassero un abuso di posizione dominante. Trenitalia, infatti, avrebbe fatto “leva sulla posizione dominante detenuta nei mercati dei servizi dei collegamenti ferroviari IC e TR per estendere e preservare il proprio potere di mercato anche nel mercato dei servizi AV, danneggiando l’unico competitor presente e ostacolando l’esplicarsi di un confronto concorrenziale basato sul merito”.
Nel novembre 2022 Trenitalia ha così presentato degli impegni ai sensi dell’articolo 14-ter della Legge n. 287/1990, dei quali l’AGCM aveva ordinato la pubblicazione: si tratta del c.d. market test, nel quale la congruità degli impegni assunti da un soggetto segnalato è sottoposta alla prova del mercato, affinché i terzi possano esprimere le proprie osservazioni.
All’esito delle osservazioni presentate da Italo, nel febbraio 2023 Trenitalia ha ritenuto di operare delle modifiche accessorie agli impegni inizialmente prestati, i quali sono stati favorevolmente accolti dall’AGCM.
A giudizio dell’AGCM, gli impegni sono stati valutati “idonei a risolvere le criticità concorrenziali”, favorendo lo sviluppo del mercato dei servizi di trasporto pubblico ferroviario a vantaggio dell’utenza, prescindendo dall’accertamento dell’ipotizzata infrazione.
In particolare, Trenitalia ha assunto l’impegno a collaborare con NTV, estendendo le previsioni dell’accordo anche ai biglietti dei servizi intercity e alle tratte gestite dalle due società (Trenitalia TPER s.c.a.r.l. e TRENORD s.r.l.) che operano rispettivamente in Emilia-Romagna e Lombardia. Trenitalia si è altresì impegnata ad indicare le coincidenze dei collegamenti dell’alta velocità esercitati da Italo a bordo dei treni del servizio regionale, e ciò non solo sui monitor di bordo, ma anche tramite annunci con l’altoparlante. Le coincidenze dei treni regionali con quelli dell’alta velocità verranno così annunciate secondo l’ordine cronologico di partenza dei treni, e non già sulla base della società che esercita il servizio.
Al di là dell’aspetto prettamente concorrenziale, il provvedimento dell’AGCM in questione pone particolare attenzione alla figura degli utenti e alla necessità di garantire un sistema di trasporto pubblico efficiente e sostenibile. In tal senso, il provvedimento in parola può certamente essere letto come una forma di apertura e di incentivo ai servizi di mobilità in chiave sempre più integrata.
Provvedimento AGCM n. 30610 – Bollettino n. 17/2023
Mancato riscontro ad accesso agli atti: il rischio è il danno erariale
Il mancato riscontro alle istanze di accesso agli atti può avere come conseguenza non solo l’eventuale condanna da parte del TAR adito all’ostensione degli atti richiesti, ma anche la condanna della Corte dei Conti del singolo dipendente pubblico che non ha dato seguito alla legittima richiesta d’accesso avanzata.
A confermarlo è una pronuncia della Corte dei Conti della Campania che si è espressa proprio in merito alla responsabilità erariale del pubblico funzionario che, non riscontrando la richiesta d’accesso avanzata all’Ente, ha provocato la condanna alle spese di lite dell’ente nell’ambito del giudizio amministrativo sull’accesso.
Un comune, infatti, era stato condannato dal TAR Campania alle spese di lite per un giudizio in materia di accesso agli atti: nel dichiarare l’illegittimità del diniego tenuto dal Comune sull’istanza di accesso, i giudici avevano condannato l’amministrazione all’ostensione degli atti e alla rifusione delle spese di lite.
Nello specifico, il contenzioso in oggetto traeva origine dalla richiesta di accesso agli atti esercitata da alcuni consiglieri comunali ex art. 43 TUEL e indirizzata al segretario comunale, al fine di ottenere l’ostensione di documenti nella disponibilità dell’Ente
Nonostante la domanda contenesse sia il riferimento al numero di protocollo che all’oggetto dei documenti richiesti, il segretario non aveva evaso la richiesta di accesso.
Secondo la Procura contabile, tale atteggiamento integrerebbe una condotta colposa del segretario comunale il quale, contravvenendo ai propri obblighi di servizio, aveva omesso di soddisfare una rituale istanza di accesso agli atti, provocando la condanna giudiziale del Comune al pagamento della complessiva somma di € 6.580,56.
Evocato in giudizio, il segretario si è difeso deducendo la propria incompetenza al soddisfacimento della istanza formulata, sottolineando come i consiglieri richiedenti l’accesso avrebbero dovuto rivolgere la relativa istanza direttamente agli uffici in possesso della documentazione richiesta.
Il Collegio ha ritenuto sussistente una responsabilità contabile in capo al segretario, ravvisando la presenza di tutti gli elementi tipici della responsabilità amministrativa.
Ebbene, quanto al rapporto di servizio, ossia il formale rapporto di impiego che lega il segretario al comune, questo è stato pacificatamene rinvenuto in virtù dell’inserimento del medesimo nell’organizzazione amministrativa dell’ente in qualità di segretario comunale, con partecipazione attiva allo svolgimento di un servizio pubblico e al perseguimento di interessi pubblici.
Con riferimento, poi, alla condotta e all’elemento soggettivo, il Collegio ha ravvisato l’illiceità del comportamento negligentemente serbato dal segretario il quale, “attraverso un’inescusabile condotta dilatoria ed ostruzionistica, ha vanificato l’istanza di accesso formulata da taluni consiglieri, così contravvenendo ai propri doveri d’ufficio”.
L’antigiuridicità della condotta tenuta dal segretario è stata ritenuta gravemente colposa, secondo i giudici, in ragione del ruolo rivestito del segretario, quale vertice giuridico-amministrativo dell’Ente e garante della legittimità dell’azione amministrativa. L’art. 97 TUEL infatti individua nel segretario comunale colui che “svolge compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti”.
Nel caso di specie, i giudici contabili hanno rilevato come il convenuto fosse stato investito da una richiesta d’accesso nell’esercizio delle sue funzioni da parte di alcuni consiglieri comunali sicché, sussistendone i presupposti, era obbligato ad evadere la richiesta.
Precisa a tal proposito il Collegio che il segretario avrebbe potuto al più smistare l’istanza agli uffici in possesso della documentazione seguendone poi il relativo iter. Tuttavia nulla di tutto ciò risultava avvenuto nella vicenda in esame.
Il comportamento del segretario, che aveva rivolto ai consiglieri una richiesta di integrazione dell’istanza di accesso, avrebbe ingenerato e rafforzato nei consiglieri il ragionevole affidamento in ordine alla corretta attivazione del procedimento; così facendo il segretario aveva riconosciuto la propria competenza a ricevere la domanda di accesso e ad inoltrarla agli uffici preposti.
Nessun impedimento oggettivo o errore scusabile era stato peraltro dichiarato dal segretario che, dunque, aveva agito con colpa grave. La Corte ha così condannato il segretario al pagamento dell’importo di € 5.000, oltre interessi.
Corte dei Conti Campania, 27 febbraio 2023, n. 135
Appalti pubblici, consegna lavori d'urgenza e rinuncia al contratto per mancato adeguamento dei prezzi: si può fare!
In materia di appalti pubblici, è possibile rinunciare alla stipula del contratto per mancato adeguamento dei prezzi in caso di consegna d’urgenza dei lavori.
Decorsi i termini di vincolatività dell’offerta e a seguito della richiesta di adeguamento dei prezzi del contratto non ancora stipulato, la pubblica amministrazione deve valutare la sussistenza dei presupposti per accordare all’operatore economico la modifica dei prezzi.
Secondo la recente pronuncia del TAR Friuli Venezia Giulia n. 155/2023, infatti, ove l’amministrazione ritenga che non possa darsi luogo all’adeguamento dei prezzi, deve limitarsi a prendere atto della volontà manifestata dall’aggiudicataria di non stipulare il contratto alle condizioni originarie, senza porre in essere atti pregiudizievoli per l’operatore.
In un simile contesto, secondo i giudici, resta priva di rilevanza l’eventuale consegna d’urgenza dei lavori che, dunque, non comporta la tacita accettazione di tutte le condizioni contrattuali originarie, né l’assunzione di un obbligo all’esecuzione integrale delle prestazioni.
Vediamo nel dettaglio il caso sottoposto all’attenzione del TAR.
I fatti
Un comune aveva indetto una procedura negoziata per l'affidamento in appalto di lavori di restauro e riuso di un complesso edilizio, indicando quale termine finale di presentazione dell’offerta il 18 maggio 2021.
Espletate le formalità di gara, in data 13 luglio 2021 questa veniva aggiudicata ad un RTI, sebbene il relativo provvedimento di aggiudicazione fosse divenuto efficace solo in data 26 ottobre 2021, all’esito della verifica dei requisiti.
In data 29 ottobre 2021 il DL aveva proceduto ad una prima consegna parziale dei lavori “sotto le riserve di legge” che sarebbe stata sciolta dopo il perfezionamento degli atti di approvazione del contratto. Il 10 febbraio 2022 il DL aveva proceduto all’ulteriore consegna dei lavori in via d'urgenza, con la medesima precisazione.
Nell’aprile 2022 la società, resasi conto dell’aumento dei costi esponenziali che continuava a subire in attesa del perfezionamento del contratto, aveva inviato al DL una diffida con cui richiedeva la sospensione lavori e la redazione di una perizia di variante. A tale diffida non faceva seguito alcun riscontro da parte del Comune.
In data 26 agosto 2022 il Comune procedeva finalmente a convocare la società per la firma del contratto prevista per il giorno 7 settembre 2022. Prontamente l’impresa riscontrava il Comune rappresentando la necessità di adeguare le condizioni contrattuali prima della stipulazione del contratto, comunicando, in difetto, di rinunciare alla stipula del contratto.
Nonostante i successivi solleciti, il Comune non riscontrava la richiesta, sicché l’impresa in data 4 ottobre 2022, formalizzava, in via definitiva, la rinuncia alla stipula del contratto.
In data 10 novembre 2022, il RUP rappresentava alla società l’impossibilità, a suo dire, di procedere con una modifica del contratto prima della sua stipula e che, in ogni caso, le esigenze “economiche” dell’impresa potevano essere adeguatamente tutelate tramite i meccanismi di cui all’art. 26 del d.l. 50/2022 (c.d. decreto Aiuti).
Contestualmente, il RUP informava l’impresa che erano in corso delle valutazioni sulle azioni da disporre a tutela della stazione appaltante, in considerazione anche del fatto che il termine di fine lavori sarebbe scaduto in data 7 ottobre 2022, ossia dopo che l’impresa aveva formalizzato la propria rinuncia alla stipula, per cui – a parere dell’Amministrazione- tale comportamento concretizzava l’ipotesi di grave inadempimento e grave ritardo.
Prontamente l’impresa replicava che l’intervenuta consegna dei lavori in via d’urgenza non esimeva l’Amministrazione dal dare corso alla stipulazione del contratto entro il termine di 60 giorni, di cui all’art. 32, comma 8, d.lgs. 50/2016; termine decorso il quale l’aggiudicatario può liberamente sciogliersi dal vincolo, ove ritenesse non più conveniente proseguire con il rapporto.
Precisava infatti l’impresa che per un verso, l’immissione nell’area di cantiere dell’appaltatore era avvenuta quando ancora non era decorso il termine di 60 giorni, né quello di 180 giorni di validità dell’offerta, con la conseguenza che l’impresa non avrebbe potuto in alcun modo sottrarsi all’esecuzione delle opere provvisionali ordinata in quel frangente; per altro verso, che la normativa contempla espressamente l’ipotesi che la consegna dei lavori in via d’urgenza non sia seguita dalla stipulazione del contratto d’appalto, prevedendo, in tal caso, che l’aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione dei lavori ordinati dal direttore dei lavori (art. 32, comma 8, d.lgs. 50/2016).
In altri termini, spiegava l’impresa “la consegna in via d’urgenza non può essere concepita alla stregua di uno strumento mediante il quale si finisca per “sterilizzare” l’obbligo della stazione appaltante di addivenire alla stipulazione del contratto entro il termine di 60 giorni dall’aggiudicazione efficace; né, per identiche ragioni, essa può inibire l’impresa dall’esercizio del proprio diritto di svincolarsi da un rapporto che non sia tempestivamente approdato alla sua fisiologica dimensione contrattuale”.
Ciononostante, il Comune procedeva alla revoca in autotutela dell’aggiudicazione dei lavori disposta dal Comune ai sensi dell’art. 32, comma 8, del d. lgs. 50/2016, in danno dell’operatore economico, con conseguente escussione della polizza e segnalazione all’ANAC.
Il parere dei giudici
Il TAR Friuli ha accolto il ricorso.
Dirimente, secondo i giudici, è il dato per cui alla data del 7 settembre 2022, fissata dal Comune per la stipula del contratto d’appalto, erano già ampiamente decorsi tanto il termine di cui all’art. 32, comma 4, del d.lgs. 50/2016 (“L'offerta è vincolante per il periodo indicato nel bando o nell'invito e, in caso di mancata indicazione, per centottanta giorni dalla scadenza del termine per la sua presentazione”), quanto quello di cui al successivo comma 8 (“Divenuta efficace l'aggiudicazione, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione deve avere luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell'invito ad offrire, ovvero l'ipotesi di differimento espressamente concordata con l'aggiudicatario, purché comunque giustificata dall'interesse alla sollecita esecuzione del contratto. (…) Se la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato, l'aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto”), senza che la stazione appaltante avesse mai chiesto agli offerenti o concordato con gli stessi il loro differimento.
Sicché, secondo i giudici, l’impresa ricorrente ha esercitato una legittima facoltà ad ella spettante: a fronte del rifiuto dell’Amministrazione di procedere a riequilibrare le condizioni economiche dell’istaurando rapporto contrattuale, e non essendo più vincolante l’offerta presentata, l’impresa ha legittimamente manifestato la volontà di rinunciare alla stipula del contratto; di contro, al Comune residuava unicamente la possibilità di valutare “la sussistenza dei presupposti di pubblico interesse per accordare alla ricorrente l’invocata rimodulazione dei prezzi contrattuali”.
Precisa il TAR che ove il Comune avesse ritenuto (come, di fatto, ha ritenuto) che non vi fossero margini per procedere all’adeguamento dei prezzi contrattuali “altro non avrebbe potuto/dovuto fare che prendere lealmente atto della volontà legittimamente manifestata dall’aggiudicataria e, poi, assumere le conseguenti determinazioni per assicurare, se ancora di suo interesse, la realizzazione dei lavori che qui vengono in rilievo”.
Quanto alla consegna dei lavori, invece, i giudici hanno precisato che alla ricorrente non erano mai stati consegnati i lavori, in via definitiva e nella loro totalità, ma sempre e solo una consegna parziale la quale non può “costituire vincolo incondizionato per l’aggiudicataria alla stipula del contratto, viepiù laddove, come nella fattispecie in esame, la stipula stessa venga richiesta ad offerta non più vincolante e ampiamente oltre il termine di 60 (sessanta) giorni dall’efficacia dell’aggiudicazione. Né, tanto meno, può costituire vincolo per l’aggiudicataria all’esecuzione dei lavori nella loro interezza, essendo evidente che nessuno può essere tenuto ad eseguire lavori per la cui esecuzione non è stato mai autorizzato, né tanto meno essere ritenuto responsabile se non l’ha fatto”.
A confermare ciò, secondo i giudici, sarebbe la stessa formulazione dell’art. 32, comma 8, del d.lgs. 50/2016, il quale rende palese come la consegna in via d’urgenza sia un istituto autonomo e distinto rispetto alle vicende che possono condizionare le sorti del contratto.
Del pari, le misure previste dal legislatore per gestire il fenomeno dell’aumento dei prezzi e, segnatamente, il meccanismo previsto dall’art. 26 del d.l. 50/2022 (c.d. decreto aiuti) non possono comportare l’accettazione incondizionata del contratto atteso che si tratta “di strumenti che prevedono (…)l’accesso a fondi limitati e sono destinati ad assolvere a necessità impreviste e sopravvenute nel corso dell’esecuzione del contratto (Cons. Stato, Sez. V, 11.1.2022, n. 202)” (T.A.R. Toscana, sez. I, 4 luglio 2022, n. 885)”.
TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 17.4.2023 n. 155
Ordinanza rimozione rifiuti abbandonati e fallimento: siamo al caso di scuola?
Ordinanza rimozione rifiuti abbandonati e fallimento: siamo al caso di scuola?
Nei casi in cui si verifichi un danno ambientale, in applicazione del principio di matrice europea “chi inquina paga”, spetta al soggetto responsabile della contaminazione e, dunque, colui che ha provocato il danno, porre in essere le misure di riparazione, messa in sicurezza e bonifica dell’area danneggiata.
Nel nostro ordinamento, la responsabilità per danno ambientale si configura come una ipotesi di responsabilità oggettiva, per cui a risponderne è il soggetto che svolge un’attività professionale pericolosa, suscettibile di comportare un rischio alla salute umana e all’ambiente.
Si è discusso a lungo se tali principi possano trovare applicazione anche quando la società che esercita l’attività pericolosa venga dichiarata fallita e se, dunque, possa imporsi alla curatela fallimentare l’attività riparatoria dell’illecito ambientale.
Sul punto è intervenuta l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3/2021, chiarendo che l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all'art. 192 d.lgs. 152/2006 ricade sulla curatela e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare (di cui abbiamo parlato anche in questa news).
Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha colto l’occasione per ribadire i principi espressi dall’Adunanza Plenaria.
I FATTI E GLI ATTI OGGETTO DELLA PRONUNCIA
La vicenda oggetto della pronuncia è a dir poco complessa.
Una società aveva esercitato la propria attività industriale fino al 2005 e nel 2006 era stata posta in liquidazione, con conseguente abbandono del sito ove operava. Dalle indagini svolte dalla Procura, risultava che la falda acquifera sottostante al sito era fortemente contaminata da metalli pesanti, rendendosi quindi necessaria una bonifica per prevenire conseguenze peggiori.
La società aveva avviato un procedimento di bonifica del sito ma la conferenza di servizi convocata dal Comune non aveva approvato il progetto presentato dalla società.
A fronte di ciò, il Comune aveva agito dapprima con un’ordinanza contingibile e urgente, con la quale aveva ingiunto alla società di avviare la rimozione dei rifiuti liquidi nelle falde acquifere del sito e, successivamente, con deliberazione della Giunta aveva formalmente respinto la proposta di piano di bonifica.
L’ordinanza contingibile e urgente veniva impugnata innanzi al TAR competente che, di conseguenza, la annullava per mancanza del presupposto della necessità ed urgenza.
Negli anni successivi, presso il sito abbandonato si riscontravano esalazioni maleodoranti ed incendi, protrattisi a lungo tempo. In particolare, nel 2015, il Corpo forestale dello Stato aveva rilevato che era in atto un incendio di tipo sotterraneo, che bruciava lentamente il rifiuto accumulato negli invasi presenti nel sito e liberava nell’atmosfera fumi acri e maleodoranti, tant’è che i rilievi successivamente svolti avevano confermato la presenza nell’aria di una concentrazione superiore ai limiti di legge di alcune sostanze nocive.
A fronte di ciò, nel 2015 il sindaco del Comune aveva emanato una seconda ordinanza, con la quale ordinava alla società l'avvio delle operazioni di rimozione dei rifiuti presenti entro un breve termine, dando atto nella motivazione non solo dello stato dei luoghi e degli accertamenti condotti dall’autorità giudiziaria, ma anche richiamando le ragioni di necessità, indifferibilità ed urgenza richieste ai sensi dell’art. 50 comma 5 del TUEL. La norma prevede, infatti, che “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale”.
L’ordinanza è stata impugnata dalla società innanzi al TAR che ha accolto il ricorso, ritenendo insussistenti i presupposti di legge per emanare tale ordinanza, ovvero la “necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile”, non fronteggiabili con mezzi ordinari. Il TAR ha poi ritenuto che, data la pendenza del procedimento di bonifica, la procedura ordinaria per far fronte alla situazione fosse stata già attivata e che quindi l’intervento con un mezzo straordinario non fosse ammissibile.
Contro la sentenza del TAR ha proposto impugnazione il Comune, sostenendo di avere emesso l’ordinanza non per conseguire l’obiettivo della bonifica del sito, ma per fronteggiare una ben determinata e specifica situazione di emergenza, ovvero l’incendio dei rifiuti nel sito; peraltro, secondo il Comune, con l’ordinanza sarebbe stato imposto alla società non la bonifica, ma un’attività specifica e definita volta ad ovviare al pericolo così determinatosi.
In giudizio la società, nel frattempo dichiarata fallita, ha chiesto tra l’altro di dichiarare l’inammissibile dell’appello giacché un fallimento non potrebbe essere destinatario di un’ordinanza come quella impugnata, non disponendo fra l’altro di fondi per eseguirla.
LA DECISIONE DEL CONSIGLIO DI STATO
Il Consiglio di Stato ha anzitutto ritenuto infondata l’eccezione per cui il fallimento non potrebbe essere destinatario di un’ordinanza del tipo di quella impugnata.
Sul punto, i giudici hanno ricordato che la stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3/2021 ha statuito che l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti ricade sulla curatela fallimentare e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare.
L’abbandono di rifiuti costituisce una diseconomia esterna, ovvero un’esternalità negativa, derivante dall'attività di impresa, il cui costo non può che ricadere sulla massa dei creditori. Diversamente, infatti, i costi della bonifica verrebbero ad essere sostenuti unicamente dalla collettività incolpevole e, dunque, in spregio al principio del “chi inquina paga”, che domina le sanzioni in materia ambientale.
Ricorda poi il Consiglio di Stato che “l’abbandono di rifiuti ricade nell’ampia categoria degli illeciti amministrativi, che secondo costante giurisprudenza non si estinguono per fallimento del trasgressore, trattandosi di evento non equiparabile alla morte del reo: sul principio, si veda per tutte Cass. pen. sez. VI 25 luglio 2017 n.49055”.
In un simile contesto, dunque, non assume rilievo la circostanza che il fallimento non dispone dei mezzi economici per far fronte all’ordinanza, giacché tale aspetto non inficia la legittimità del provvedimento, potendo al più ripercuotersi sull’esecuzione concreta dello stesso.
I giudici hanno altresì ritenuto infondata l’eccezione avanzata dalla società fallita, secondo la quale, a prescindere dal fallimento dell’impresa, provvedere alla rimozione dei rifiuti spetterebbe al Comune in quanto custode del sito, dato che l’esser stati successivamente nominati custodi di un’area occupata da rifiuti abbandonati non trasferisce sul custode stesso non responsabile dell’abbandono gli obblighi di provvedere alla rimozione di essi.
In tal senso, vale la pena ricordare che la stessa Adunanza Plenaria n. 3/2021 ha chiarito che la responsabilità della curatela fallimentare è legata al ruolo di custode dei beni immobili inquinato in cui i rifiuti insistono, così come risultanti dalla dichiarazione di fallimento tramite l’inventario dei beni della società fallita.
Quanto invece all’illegittimità dell’ordinanza, i giudici hanno accolto il ricorso promosso dal Comune.
Le ordinanze contingibili ed urgenti ex art. 50 d.lgs. 267/2000 presuppongono una situazione di pericolo non fronteggiabile con mezzi ordinari. Dal punto di vista generale, dunque, l’esercizio del relativo potere non è precluso dall’esistenza di una serie di rimedi tipici per far fronte alle situazioni di emergenza di una data specie, in particolare dai rimedi previsti dal d.lgs. 152/2006 in tema di abbandono di rifiuti e di bonifica dei siti inquinati, essendo del tutto possibile che nel caso concreto questi rimedi risultino inadeguati.
Nel caso di specie, dunque, i giudici hanno ritenuto non solo che il Comune avesse dimostrato la sussistenza di una concreta situazione di pericolo, legata non alla mera presenza sul posto dei rifiuti, che effettivamente sono presenti sul sito da tempo, “ma all’improvvisa evoluzione in negativo del loro stato, che per ragioni non conosciute, ma irrilevanti ai fini del decidere, ne ha provocato la combustione spontanea, innescando gli incendi di cui si è detto e che l’ordinanza cita”.
È stata altresì ritenuta corretta l’istruttoria e la motivazione dell’ordinanza impugnata laddove rinviava agli atti istruttori - sopralluoghi della Polizia locale e verbale di intervento dei Vigili del Fuoco – con i quali è stato riscontrato l’incendio e l’emissione dei fumi maleodoranti.
Cons. Stato, Sez. IV, 2 marzo 2023, n. 2208
Revisione prezzi per servizi e forniture: come si applica l’art. 1, comma 511 della L. 208/2015?
Il tema della revisione prezzi per servizi e forniture assume una particolare declinazione per i contratti stipulati con soggetti aggregatori.
La Legge di stabilità 2016 (legge 28 dicembre 2015, n. 208) ha infatti predisposto un peculiare meccanismo di revisione prezzi per tali categorie di appalti.
La norma è tutt’ora applicabile grazie all’esplicito rinvio effettuato dall’art. 106, comma 1, lett. a) d.lgs. 50/2016, secondo cui “Per i contratti relativi a servizi o forniture stipulati dai soggetti aggregatori restano ferme le disposizioni di cui all'articolo 1, comma 511, della legge 28 dicembre 2015, n. 208”.
La norma è destinata a trovare applicazione anche all’interno del nuovo codice dei contratti pubblici: il comma 1, lett. a) dell’art. 120 della bozza del nuovo codice, dedicato alle modifiche dei contratti in corso di esecuzione, contiene l’esplicito rinvio all’art. 1, comma 511 L. 208/2015.
Si tratta di una disposizione che pone spesso delle problematiche. applicative sia per gli appaltatori che per le stesse amministrazioni. Una recente sentenza del TRGA Bolzano, n. 39/2023 si è espressa proprio in merito alla portata applicativa della norma.
Revisione prezzi per servizi e forniture: cosa prevede l’art. 1, comma 511 L. 208/2015
Prima di affrontare il caso specifico, vediamo cosa prevede l’art. 1, comma 511 L. 208/2015.
Nei contratti pubblici relativi a servizi e forniture ad esecuzione continuata o periodica stipulati da un soggetto aggregatore, qualora si verifichi un aumento del valore dei beni superiore al 10% e ciò sia tale da determinare significativamente l'originario equilibrio contrattuale, l'appaltatore o il soggetto aggregatore hanno facoltà di richiedere una riconduzione ad equità o una revisione del prezzo medesimo. Ad accertare la variazione e l’alterazione dell’equilibrio contrattuale è l'autorità indipendente preposta alla regolazione del settore relativo allo specifico contratto o, in mancanza, l’AGCM. E’ sulla base di tale accertamento, dunque, che prende avvio il procedimento.
Ai fini dell’applicazione del predetto meccanismo revisionale, la norma sembra in ogni caso presupporre la presenza nel contratto di una clausola di revisione e di adeguamento dei prezzi collegata o indicizzata al valore di beni indifferenziati.
In caso di raggiungimento dell'accordo sulla revisione, la disposizione consente ai soggetti contraenti, nei 30 giorni successivi a tale accordo, di esercitare il diritto di recesso ai sensi dell'art. 1373 c.c.
Nel caso invece di mancato raggiungimento dell'accordo, le parti possono consensualmente risolvere il contratto senza che sia dovuto alcun indennizzo come conseguenza della risoluzione del contratto, fermo restando quanto previsto dall'art. 1467 c.c., ossia la possibilità che in giudizio venga raggiunto un accordo per la c.d. rinegoziazione del contratto.
La norma prevede infine che le parti possono chiedere all'autorità che provvede all'accertamento della variazione di prezzo di fornire, entro 30 giorni dalla richiesta, le indicazioni utili per il ripristino dell'equilibrio contrattuale ovvero, in caso di mancato accordo, per la definizione di modalità attuative della risoluzione contrattuale finalizzate a evitare disservizi.
Il caso
Con bando del 2018, un soggetto aggregatore aveva bandito una gara per la fornitura di derrate alimentari e dei servizi connessi per la durata di 48 mesi per alcuni enti della provincia di Bolzano.
La società ricorrente si aggiudica uno dei lotti della gara, fornendo un’offerta in considerazione dei prezzi di mercato del 2018. Alla convenzione stipulata tra il soggetto aggregatore e l’aggiudicatario aderiscono diversi comuni della provincia di Bolzano.
Nel 2021, l’aggiudicataria si rivolge al soggetto aggregatore chiedendo la revisione dei prezzi dei prodotti offerti ai sensi dell’art. 1, comma 511 della L. 208/2015. Secondo l’aggiudicataria, infatti, i prezzi del mercato agroalimentare erano aumentati in considerazione del contesto pandemico e vi erano considerevoli difficoltà anche nell’approvvigionamento tempestivo degli stessi prodotti.
Alla base della richiesta di revisione, l’aggiudicataria aveva rilevato che mancando nel mercato di riferimento un’autorità regolamentare preposta, aveva preso come parametro di riferimento i prezzi riportati nei listini della Camera di commercio di Milano, dai quali risultavano degli aumenti superiori al 100%. Successivamente aveva integrato la richiesta di revisione evidenziando altri aumenti, superiori al 45%.
In riscontro alla richiesta di revisione, il soggetto aggregatore aveva rappresentato che mancando un’autorità regolatrice nel mercato specifico, si sarebbe rivolto all’AGCM e, in caso di mancato riscontro da parte dell’Autorità Antitrust, avrebbe comunque proceduto ad attivare la revisione prezzi “ordinaria” ai sensi dell’art. 106 d.lgs. 50/2016.
Nelle more della pronuncia dell’AGCM, la società richiedeva di provvedere quantomeno all’adeguamento ISTAT: sulla base dell’indice FOI per il periodo gennaio 2021- gennaio 2022, il soggetto aggregatore avrebbe dovuto riconoscere un aumento del 4,7%. Con ulteriori note, la società ha continuato a rappresentare l’aumento dei prezzi in corso e richiedere una riconduzione ad equità del contratto a mezzo dell’art. 1467 c.c..
Nel giugno 2022, l’AGCM ha archiviato l’istanza del soggetto aggregatore, ritenendo inapplicabile le disposizioni di cui alla L. 208/2015 in quanto “la convenzione in questione non contiene una clausola di revisione prezzi collegata e indicizzata al valore di beni indifferenziati”.
Recependo quanto disposto dall’AGCM, il soggetto aggregatore negava l’applicazione della revisione prezzi sostenendo che l’adeguamento all’indice FOI era stato già attuato e che dall’istruttoria condotta non risultava dimostrato né il superamento del limite della variazione del 10% del prezzo della convenzione, né un’alterazione significativa dell’originario equilibrio contrattuale della convenzione-quadro, così come previsto dal comma 511 della L. 208/2015.
Secondo il soggetto aggregatore, infatti, la convenzione-quadro bandita, vincolante per gli enti, sia quanto all’adesione, che quanto al rispetto del relativo parametro prezzo-qualità come prezzo massimo di aggiudicazione (c.d. benchmarking), ha ricadute economiche rilevanti sugli enti aderenti in caso di modifiche dei prezzi di aggiudicazione, le quali devono essere ponderate con particolare attenzione e concesse solo in presenza di elementi probatori particolarmente fondanti.
Riguardo alla richiesta di riconduzione ad equità del contratto ai sensi dell’art. 1467 c.c., il soggetto aggregatore precisava che questa andava indirizzata alle singole amministrazioni contraenti della fornitura.
Data la peculiarità della situazione, il soggetto aggregatore aveva anche convocato un incontro con gli enti aderenti alla convenzione-quadro, titolari dei singoli contratti attuativi. All’esito dell’incontro, il soggetto aggregatore aveva fornito le proprie indicazioni in merito alla revisione dei prezzi e all’adeguamento del contratto ex art. 1467 cod. civ., chiarendo che la norma richiede la proposizione di un’azione giudiziaria dinnanzi al Giudice ordinario contro le amministrazioni contraenti.
All’esito dell’incontro, la ricorrente si rivolgeva ad uno dei comuni aderenti alla convenzione, per ottenere l’adeguamento dei prezzi. Il Comune intimato, tuttavia, negava la propria competenza nel poter procedere alla revisione richiesta.
Di qui, la società ha dunque proposto un ricorso innanzi al TRGA Bolzano.
La decisione del giudice amministrativo
Con il primo motivo di ricorso, la società ha lamentato “lo scarico di competenze e responsabilità tra il soggetto aggregatore e le amministrazioni aderenti alla convenzione-quadro”, ritenendo errata l’affermazione del soggetto aggregatore per cui la modifica del contratto sarebbe di pertinenza esclusiva della singola amministrazione aderente alla convenzione-quadro stipulata.
Dopo aver ricordato il contenuto dell’art. 1, comma 511, della L. 208/2015, il collegio ha osservato che la procedura concorsuale in questione è stata indetta dal soggetto aggregatore che ha predisposto tutti gli atti di gara e che si è riservata la facoltà di incidere sulle condizioni generali. I singoli contratti attuativi di fornitura sono poi stati stipulati dagli enti, che sono obbligati ovvero legittimati ad utilizzare la convenzione-quadro, sulla base di quanto ivi previsto. Di conseguenza, secondo il collegio, gli enti attuatori non potrebbero incidere sui prezzi pregiudicando così la facoltà riservata al soggetto aggregatore di aumentare le prestazioni contrattuali ai prezzi stabiliti in convenzione-quadro. La gara, infatti, è stata gestita a monte in via esclusiva dal soggetto aggregatore, “amministrazione aggiudicatrice” della procedura ad evidenza pubblica, mentre ai comuni aderenti può essere riconosciuta solo la qualità di “Amministrazione Contraente”, che “utilizza la Convenzione nel periodo della sua validità ed efficacia mediante gli Ordini di Acquisto, che operano per il tramite delle Unità/Punti Ordinanti”, recependo tramite il contratto attuativo “le prescrizioni e le condizioni fissate nella Convenzione”.
Di conseguenza, l’intervento di revisione prezzi deve essere fatto dal soggetto aggregatore, che dovrà poi fornire alle amministrazioni contraenti le necessarie direttive per adeguare i costi.
Con il secondo motivo di ricorso, la società ricorrente ha lamentato come il soggetto aggregatore avesse erroneamente ritenuto non applicabile il meccanismo di cui al comma 511, trincerandosi dietro gli assunti per cui la convenzione non aveva ad oggetto beni indifferenziati e che la stessa prevedeva un meccanismo revisionale unicamente legato agli indici Istat e al FOI.
Il Collegio ha accolto la censura della società ricorrente. Secondo i giudici, la convenzione-quadro, pur stabilendo che i prezzi sono fissi ed invariabili, contiene un espresso richiamo a due tipologie di revisione dei prezzi:
- una determinata secondo gli indici FOI, che è stata in effetti riconosciuta alla ricorrente;
- l’altra, ai sensi dell’art. 1, comma 511, della L. 208/2015, negata invece dal soggetto aggregatore.
Nel caso di specie, l’AGCM, interpellata dal soggetto aggregatore, ha ritenuto che la convenzione-quadro non contenesse una clausola di revisione e adeguamento dei prezzi collegata o indicizzata al valore di beni indifferenziati, sicché secondo tale Autorità non troverebbe applicazione la L. 208/2015.
Il collegio ha così ritenuto che quest’interpretazione “contrasta inevitabilmente con la disposizione convenzionale che fa espressamente salvo il procedimento di revisione di cui al richiamato comma 511”.
Precisa infatti il collegio che se la revisione si applicasse unicamente nel caso di tale collegamento o indicizzazione al valore di beni indifferenziati, si avrebbe un’interpretatio abrogans delle disposizioni della convenzione-quadro e sarebbe violato il criterio di interpretazione dei contratti previsto dall’ art. 1367 c.c., ossia il principio di conservazione del contratto, che impone “di interpretare le singole clausole della convenzione-quadro nel senso in cui esse possano avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno e, quindi, di attribuire al richiamo all’art. 1, comma 511, citato contenuto nella convenzione-quadro una valenza procedurale e cioè alla revisionabilità dei prezzi in occasione dell’accertato aumento dei prezzi dei beni superiori alla soglia del dieci per cento riguardo ai prezzi riferiti alla situazione di mercato verificata alla data di pubblicazione della gara, tale da alterare significativamente l’originario equilibrio contrattuale”.
Diversamente, infatti, il richiamo contenuto negli atti di gara all’art. 1, comma 511, della L. 208/2015 sarebbe inutile e privo di alcun significato.
Nello stesso senso, deve essere letto anche il riferimento all’art. 106, comma 1, lett. a) del d.lgs. 50/2016 contenuto nella convenzione-quadro, che dispone che le clausole di revisione dei prezzi fanno riferimento “alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti”. L’art. 106 citato non fa riferimento all’indice FOI, ma rinvia a prezzi e costi standard “se definiti”, sicché in mancanza di definizione degli stessi, il soggetto aggregatore è tenuto a condurre un’istruttoria ad hoc per la determinazione dei prezzi effettivi, “avendo l’indice FOI per costante giurisprudenza natura meramente sussidiaria (cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 marzo 2020, n. 1571) e potendosi la quantificazione del compenso revisionale effettuarsi ragionevolmente con il ricorso a differenti parametri statici (cfr. Cons. Stato, sez. III, 14 novembre 2018, n. 6421; TAR Campania, Napoli, sez. V, 17 maggio 2019, n. 2614, nonché la giurisprudenza citata nella lettera Acp dd. 21.4.2022)”.
Secondo il Collegio, dunque, il soggetto aggregatore avrebbe dovuto condurre un’istruttoria adeguata, a garanzia del corretto funzionamento del previsto meccanismo di revisione dei prezzi e del perseguimento dell’interesse generale posto a base dell’istituto in questione, valutando ogni circostanza del caso concreto. Per i giudici, dunque, “si dovranno approfondire le circostanze addotte dalla ricorrente, sia in relazione all’insorgere dell’emergenza pandemica, che ha avuto inizio nel mese di marzo 2020, sia in relazione alla sopravvenuta crisi ucraina del febbraio 2022, nonché esaminare la documentazione tecnico-contabile prodotta dalla parte ricorrente riguardo ai significativi incrementi dei prezzi nella misura complessiva dell’intero valore dell’appalto del 18,7% (cfr. controdeduzioni dd. 15.7.2022), al fine di accertare l’eventuale effettivo aumento dei prezzi”, tenendo altresì conto “dell’adeguamento FOI già riconosciuto e di eventuali sostegni riconosciute alle imprese”.
Precisa in conclusione il collegio che nel caso di specie non trova applicazione l’art. 106, comma 1, lett. c) d.lgs. 50/2016, ossia le c.d. varianti in corso d’opera, nemmeno nell’interpretazione fornita dall’art. 7, comma 2-ter d.l. 36/2022.
TRGA Bolzano, 21.2.2023, n. 39
Quando il comportamento commerciale dei distributori è imputabile alla posizione dominante del produttore? La risposta della Corte di Giustizia
Con la sentenza in commento, la CGUE (Corte di giustizia dell’Unione europea) è tornata a pronunciarsi sul tema dell’abuso di posizione dominante e sulla corretta interpretazione dell'art. 102 TFUE, nel peculiare contesto di un rapporto contrattuale tra produttore e distributore, chiarendo quando il comportamento commerciale dei distributori è imputabile alla posizione dominante del produttore.
Si tratta di un provvedimento molto articolato e complesso, che chiarisce alcuni aspetti fondamentali in tema di onere probatorio gravante sull’AGCM nel censurare le condotte delle imprese segnalate.
Dal provvedimento dell’AGCM al rinvio pregiudiziale disposto dal Consiglio di Stato
Protagonista della vicenda è la società Unilever, segnalata per abuso di posizione dominante sul mercato dei gelati in confezioni individuali destinati ad essere consumate «all'esterno», vale a dire al di fuori del domicilio dei consumatori, in bar, caffè, club sportivi, piscine o altri luoghi di svago.
A seguito dell’istruttoria condotta, l'AGCM aveva ritenuto che la Unilever avesse abusato della sua posizione dominante sul mercato della commercializzazione dei gelati in confezioni individuali destinate ad essere consumate all'esterno, in violazione dell'art. 102 TFUE, comminando alla stessa una sanzione pari a euro 60.668.580,00 (AGCM n. 26822/2017).
Come noto, l’art. 102 TFUE vieta, “nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo”.
Secondo l’AGCM, dunque, la Unilever aveva posto in essere una strategia di esclusione idonea ad ostacolare la crescita dei suoi concorrenti.
Unilever aveva così imposto clausole di esclusiva ai gestori dei punti vendita obbligandoli a rifornirsi esclusivamente presso la Unilever per l'intero fabbisogno di gelati. In cambio, la Unilever garantiva un'ampia gamma di sconti e commissioni condizionate dal fatturato o alla commercializzazione di una determinata gamma di prodotti. Tali sconti e tali commissioni, che si applicavano, secondo combinazioni e modalità variabili, alla quasi totalità dei clienti della Unilever, avrebbero indotto questi ultimi a continuare a rifornirsi esclusivamente presso tale società, dissuadendoli dal risolvere il loro contratto per rifornirsi presso concorrenti della Unilever.
In particolare, l’AGCM aveva rilevato due aspetti peculiari:
1) che il comportamento abusivo non era stato materialmente posto in essere dalla Unilever, bensì dai suoi distributori. Ciononostante, secondo l'AGCM tali comportamenti dovevano essere imputati unicamente alla Unilever in quanto quest'ultima e i suoi distributori avrebbero costituito un'unica entità economica. La Unilever avrebbe interferito nella politica commerciale dei distributori, cosicché questi ultimi non avrebbero agito in modo indipendente nell’imporre clausole di esclusiva ai gestori dei punti vendita.
2) che la Unilever, sfruttando le peculiarità del mercato (tra cui lo scarso spazio disponibile nei punti vendita, nonché il ruolo determinante, nelle scelte dei consumatori, della portata dell'offerta in tali punti vendita), con il suo comportamento, aveva escluso, o quantomeno limitato, la possibilità per gli operatori concorrenti di esercitare una concorrenza fondata sui meriti dei loro prodotti.
Avverso il provvedimento dell’autorità, la Unilever ha proposto ricorso innanzi al TAR Lazio che aveva confermato il provvedimento dell’AGCM.
Avverso la sentenza, la società ha promosso appello innanzi al Consiglio di Stato.
In sede di appello, la Unilever ha sostenuto che il giudice di primo grado aveva errato nell’imputare alla stessa dei comportamenti commerciali scorretti: la condotta sanzionata era stata realizzata unicamente dai suoi distributori. In ogni caso, la condotta contestata non era idonea a falsare la concorrenza.
Nel corso del giudizio il Consiglio di Stato ha disposto un rinvio pregiudiziale alla CGUE (ordinanza del 7 dicembre 2020, n. 7713) ponendo le seguenti questioni pregiudiziali:
1) a quali condizioni i comportamenti di operatori economici formalmente autonomi e indipendenti, vale a dire i distributori, possano essere imputati ad un altro operatore economico autonomo e indipendente, vale a dire il fabbricante dei prodotti che essi distribuiscono;
2) “se l'articolo 102 TFUE vada interpretato nel senso di ritenere sussistente in capo all'autorità di concorrenza [competente] l'obbligo di verificare se l'effetto di tali clausole è quello di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti, e di esaminare in maniera puntuale le analisi economiche prodotte dalla parte sulla concreta capacità delle condotte contestate di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti; oppure se, in caso di clausole di esclusiva escludenti [i concorrenti] o di condotte connotate da una molteplicità di pratiche abusive (sconti fidelizzanti e clausole di esclusiva), non ci sia alcun obbligo giuridico per l'[AGCM] di fondare la contestazione dell'illecito antitrust sul criterio del concorrente altrettanto efficiente”.
Le considerazioni della Corte di Giustizia
Con la prima questione pregiudiziale, il Consiglio di Stato ha essenzialmente chiesto alla CGUE se l'art. 102 TFUE debba essere interpretato nel senso che i comportamenti adottati da distributori che fanno parte della rete di distribuzione di un produttore in posizione dominante possano essere imputati a quest'ultimo e, eventualmente, a quali condizioni.
In particolare, i giudici hanno chiesto se l'esistenza di un coordinamento contrattuale tra un produttore e diversi distributori giuridicamente autonomi sia sufficiente per consentire una siffatta imputazione o se occorra anche constatare che detto produttore ha la capacità di esercitare un'influenza determinante sulle decisioni commerciali, finanziarie e industriali dei distributori, eccedendo gli abituali rapporti di collaborazione tra i produttori e gli intermediari di distribuzione.
La CGUE ha preliminarmente ricordato che l’accettazione, anche tacita, di alcune clausole adottate nell’ambito di un coordinamento contrattuale, come un accordo di distribuzione, non costituiscono di per sé un comportamento unilaterale, ma si inseriscono nelle relazioni che le parti intrattengono tra loro, rientrando quindi nel diritto delle intese di cui all’art. 101 TFUE.
Ciò, tuttavia, non esclude che ad un’impresa in posizione dominante possa essere imputato il comportamento adottato dai distributori dei suoi prodotti o servizi, con i quali essa intrattiene solo rapporti contrattuali, e che, di conseguenza, venga imputata ad essa un abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 102 TFUE.
È onere dell’impresa produttrice, infatti, non pregiudicare, con il suo comportamento, una concorrenza effettiva e leale nel mercato interno.
Di conseguenza, spiega la CGUE, “qualora il comportamento contestato all'impresa in posizione dominante sia materialmente attuato tramite un intermediario che fa parte di una rete di distribuzione, tale comportamento può essere imputato a detta impresa qualora risulti che esso è stato adottato conformemente alle istruzioni specifiche impartite da quest'ultima, e quindi a titolo di esecuzione di una politica decisa unilateralmente dall'impresa suddetta, cui i distributori interessati erano tenuti a conformarsi”.
In una ipotesi del genere, poiché il comportamento contestato all’impresa in posizione dominante è stato deciso unilateralmente, quest’ultima può esserne considerata come l’autrice e quindi come la sola eventuale responsabile ai fini dell’applicazione dell’art. 102 TFUE: la rete formata dai distributori con l’impresa produttrice, infatti, rappresenta uno strumento di ramificazione territoriale della sua politica commerciale e, dunque, lo strumento tramite il quale è stata eventualmente attuata la prassi di esclusione.
In tale ipotesi, dunque, è evidente che è l’impresa in posizione dominante a condizionare il comportamento attuato dalla sua rete di distribuzione. L’imputabilità della condotta, dunque, non è subordinata né alla dimostrazione che i distributori facciano parte dell’impresa produttrice, né all’esistenza di un vincolo “gerarchico” derivante dall’utilizzo di atti di indirizzo destinati a tali distributori, idonei ad influire sulle decisioni di gestione che questi ultimi adottano riguardo alle loro rispettive attività.
Quanto alla seconda questione pregiudiziale, relativa all’onere probatorio gravante sull’autorità garante di dimostrare, nel concreto, se le clausole di esclusiva hanno l’effetto di escludere dal mercato altri , la CGUE ha risposto positivamente.
La Corte di Giustizia ha preliminarmente ricordato che l’art. 102 TFUE non ha lo scopo di impedire ad un’impresa di conquistare, grazie ai suoi meriti e alle sue capacità, una posizione dominante su un mercato, né di garantire che concorrenti meno efficienti restino sul mercato.
Non tutti gli effetti preclusivi, infatti, pregiudicano necessariamente la concorrenza: una concorrenza basta sui meriti può portare alla scomparsa dal mercato o all’emarginazione dei concorrenti meno efficienti e quindi meno interessanti per i consumatori.
In un simile contesto, le imprese in posizione dominante sono tenute, indipendentemente dalle cause di una simile posizione, a non pregiudicare, con il loro comportamento, una concorrenza effettiva e leale nel mercato interno. Di conseguenza, un abuso di posizione dominante potrà essere accertato quando il comportamento contestato abbia prodotto effetti preclusivi nei confronti di concorrenti di efficienza quantomeno pari all’autore di tale comportamento in termini di struttura dei costi, di capacità di innovazione o di qualità.
Spetta alle autorità garanti della concorrenza nazionali, nel nostro caso all’AGCM, dimostrare il carattere abusivo di un comportamento alla luce di tutte le rilevanti circostanze fattuali, nonché gli elementi di prova dedotti a sua difesa dall’impresa in posizione dominante.
Per dimostrare il carattere abusivo di un comportamento, un’autorità garante della concorrenza non deve necessariamente provare che esso abbia effettivamente prodotto effetti anticoncorrenziali: la ratio dell’art. 102 TFUE è infatti quella di sanzionare lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante sul mercato interno, o su una sua parte sostanziale, indipendentemente dall’esito più o meno fruttuoso di tale sfruttamento. Un’autorità garante della concorrenza, pertanto, può constatare una violazione dell’art. 102 TFUE dimostrando che, durante il periodo nel quale il comportamento in questione è stato attuato, esso aveva, nelle circostanze del caso concreto, la capacità di restringere la concorrenza basata sui meriti nonostante la sua mancanza di effetti.
Tale dimostrazione, tuttavia, deve fondarsi su elementi di prova tangibili, che dimostrino la capacità effettiva della prassi in questione di produrre tali effetti, dovendo l’esistenza di un dubbio al riguardo andare a vantaggio dell’impresa che ha fatto ricorso alla prassi stessa. Di conseguenza, una prassi non può essere qualificata come abusiva se è rimasta allo stato di progetto, e non possono esserne considerati gli effetti meramente ipotetici.
Al fine di valutare la capacità del comportamento di una impresa di restringere la concorrenza effettiva sul mercato, un’autorità può basarsi su dati economici e studi empirici. Tali elementi non sono tuttavia sufficienti, dovendosi considerare elementi specifici del caso di specie.
Con particolare riferimento alle clausole di esclusiva, sebbene queste suscitino, per loro natura, preoccupazioni legittime in relazione alla concorrenza, la loro capacità di escludere i concorrenti non è automatica.
Di conseguenza, “quando un’autorità garante della concorrenza sospetti che un’impresa abbia violato l’art. 102 TFUE facendo ricorso a clausole di esclusiva e quest’ultima contesti, nel corso del procedimento, la capacità concreta di tali clausole di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti, producendo elementi di prova a sostegno, essa deve assicurarsi, nella fase della qualificazione dell’infrazione, che tali clausole avessero, nelle circostanze del caso concreto, l’effettiva capacità di escludere dal mercato concorrenti efficienti tanto quanto tale impresa”.
L’autorità garante della concorrenza che ha avviato tale procedimento, inoltre, è altresì tenuta a valutare, in concreto, la capacità di tali clausole di restringere la concorrenza qualora, l’impresa sospettata sostenga che esistono giustificazioni per la sua condotta.
La produzione, nel corso del procedimento, di prove idonee a dimostrare l’inidoneità a produrre effetti restrittivi fa sorgere l’obbligo, per le autorità garanti della concorrenza, di esaminarle.
Qualora l’impresa in posizione dominante abbia prodotto uno studio economico al fine di dimostrare che la prassi che le viene contestata non era idonea ad estromettere i concorrenti, l’autorità garante della concorrenza competente non può escluderne la rilevanza senza esporre le ragioni per le quali ritiene che esso non consenta di contribuire alla dimostrazione dell’incapacità delle prassi contestate di compromettere la concorrenza effettiva sul mercato interessato e, di conseguenza, senza mettere detta impresa in grado di determinare l’offerta di prove che potrebbe essere sostituita a detto studio.
Per quanto riguarda, infine, il c.d. “criterio del concorrente altrettanto efficiente”, questo costituisce, secondo la Corte, solo uno dei diversi metodi che consentono di valutare se una prassi abbia la capacità di produrre effetti preclusivi.
Qualora un’impresa in posizione dominante sospettata di una prassi abusiva fornisca ad un’autorità garante della concorrenza un’analisi fondata sul criterio del concorrente altrettanto efficiente, detta autorità non può escludere tale prova senza neppure esaminarne il valore probatorio.
La Corte di Giustizia ha pertanto statuito che:
1) “L’articolo 102 TFUE deve essere interpretato nel senso che i comportamenti adottati da distributori facenti parte della rete di distribuzione dei prodotti o dei servizi di un produttore che gode di una posizione dominante possono essere imputati a quest’ultimo, qualora sia dimostrato che tali comportamenti non sono stati adottati in modo indipendente da detti distributori, ma fanno parte di una politica decisa unilateralmente da tale produttore e attuata tramite tali distributori”.
2) “L’articolo 102 TFUE deve essere interpretato nel senso che, in presenza di clausole di esclusiva contenute in contratti di distribuzione, un’autorità garante della concorrenza è tenuta, per accertare un abuso di posizione dominante, a dimostrare, alla luce di tutte le circostanze rilevanti e tenuto conto, segnatamente, delle analisi economiche eventualmente prodotte dall’impresa in posizione dominante riguardo all’inidoneità dei comportamenti in questione ad escludere dal mercato i concorrenti efficienti tanto quanto essa stessa, che tali clausole siano capaci di limitare la concorrenza. Il ricorso al criterio detto «del concorrente altrettanto efficiente» ha carattere facoltativo. Tuttavia, se i risultati di un siffatto criterio sono prodotti dall’impresa interessata nel corso del procedimento amministrativo, l’autorità garante della concorrenza è tenuta a esaminarne il valore probatorio”.
CGUE, Sez. V, 19 gennaio 2023, in C-680/20