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Quando il comportamento commerciale dei distributori è imputabile alla posizione dominante del produttore? La risposta della Corte di Giustizia

posizioneCon la sentenza in commento, la CGUE (Corte di giustizia dell’Unione europea) è tornata a pronunciarsi sul tema dell’abuso di posizione dominante e sulla corretta interpretazione dell'art. 102 TFUE, nel peculiare contesto di un rapporto contrattuale tra produttore e distributore, chiarendo quando il comportamento commerciale dei distributori è imputabile alla posizione dominante del produttore.

Si tratta di un provvedimento molto articolato e complesso, che chiarisce alcuni aspetti fondamentali in tema di onere probatorio gravante sull’AGCM nel censurare le condotte delle imprese segnalate.

Dal provvedimento dell’AGCM al rinvio pregiudiziale disposto dal Consiglio di Stato

Protagonista della vicenda è la società Unilever, segnalata per abuso di posizione dominante sul mercato dei gelati in confezioni individuali  destinati ad essere consumate «all'esterno», vale a dire al di fuori del domicilio dei consumatori, in bar, caffè, club sportivi, piscine o altri luoghi di svago.

A seguito dell’istruttoria condotta, l'AGCM aveva ritenuto che la Unilever avesse abusato della sua posizione dominante sul mercato della commercializzazione dei gelati in confezioni individuali destinate ad essere consumate all'esterno, in violazione dell'art. 102 TFUE, comminando alla stessa una sanzione pari a euro 60.668.580,00 (AGCM n. 26822/2017).

Come noto, l’art. 102 TFUE vieta, “nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo”.

Secondo l’AGCM, dunque, la Unilever aveva posto in essere una strategia di esclusione idonea ad ostacolare la crescita dei suoi concorrenti.

Unilever aveva così imposto clausole di esclusiva ai gestori dei punti vendita obbligandoli a rifornirsi esclusivamente presso la Unilever per l'intero fabbisogno di gelati. In cambio, la Unilever garantiva un'ampia gamma di sconti e commissioni condizionate dal fatturato o alla commercializzazione di una determinata gamma di prodotti. Tali sconti e tali commissioni, che si applicavano, secondo combinazioni e modalità variabili, alla quasi totalità dei clienti della Unilever, avrebbero indotto questi ultimi a continuare a rifornirsi esclusivamente presso tale società, dissuadendoli dal risolvere il loro contratto per rifornirsi presso concorrenti della Unilever.

In particolare, l’AGCM aveva rilevato due aspetti peculiari:

1) che il comportamento abusivo non era stato materialmente posto in essere dalla Unilever, bensì dai suoi distributori. Ciononostante, secondo l'AGCM tali comportamenti dovevano essere imputati unicamente alla Unilever in quanto quest'ultima e i suoi distributori avrebbero costituito un'unica entità economica. La Unilever avrebbe interferito nella politica commerciale dei distributori, cosicché questi ultimi non avrebbero agito in modo indipendente nell’imporre clausole di esclusiva ai gestori dei punti vendita.

2) che la Unilever, sfruttando le peculiarità del mercato (tra cui lo scarso spazio disponibile nei punti vendita, nonché il ruolo determinante, nelle scelte dei consumatori, della portata dell'offerta in tali punti vendita), con il suo comportamento, aveva escluso, o quantomeno limitato, la possibilità per gli operatori concorrenti di esercitare una concorrenza fondata sui meriti dei loro prodotti.

Avverso il provvedimento dell’autorità, la Unilever ha proposto ricorso innanzi al TAR Lazio che aveva confermato il provvedimento dell’AGCM.

Avverso la sentenza, la società ha promosso appello innanzi al Consiglio di Stato.

In sede di appello, la Unilever ha sostenuto che il giudice di primo grado aveva errato nell’imputare alla stessa dei comportamenti commerciali scorretti: la condotta sanzionata era stata realizzata unicamente dai suoi distributori. In ogni caso, la condotta contestata non era idonea a falsare la concorrenza.

Nel corso del giudizio il Consiglio di Stato ha disposto un rinvio pregiudiziale alla CGUE (ordinanza del 7 dicembre 2020, n. 7713) ponendo le seguenti questioni pregiudiziali:

1) a quali condizioni i comportamenti di operatori economici formalmente autonomi e indipendenti, vale a dire i distributori, possano essere imputati ad un altro operatore economico autonomo e indipendente, vale a dire il fabbricante dei prodotti che essi distribuiscono;

2) “se l'articolo 102 TFUE vada interpretato nel senso di ritenere sussistente in capo all'autorità di concorrenza [competente] l'obbligo di verificare se l'effetto di tali clausole è quello di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti, e di esaminare in maniera puntuale le analisi economiche prodotte dalla parte sulla concreta capacità delle condotte contestate di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti; oppure se, in caso di clausole di esclusiva escludenti [i concorrenti] o di condotte connotate da una molteplicità di pratiche abusive (sconti fidelizzanti e clausole di esclusiva), non ci sia alcun obbligo giuridico per l'[AGCM] di fondare la contestazione dell'illecito antitrust sul criterio del concorrente altrettanto efficiente”.

Le considerazioni della Corte di Giustizia

Con la prima questione pregiudiziale, il Consiglio di Stato ha essenzialmente chiesto alla CGUE se l'art. 102 TFUE debba essere interpretato nel senso che i comportamenti adottati da distributori che fanno parte della rete di distribuzione di un produttore in posizione dominante possano essere imputati a quest'ultimo e, eventualmente, a quali condizioni.

In particolare, i giudici hanno chiesto se l'esistenza di un coordinamento contrattuale tra un produttore e diversi distributori giuridicamente autonomi sia sufficiente per consentire una siffatta imputazione o se occorra anche constatare che detto produttore ha la capacità di esercitare un'influenza determinante sulle decisioni commerciali, finanziarie e industriali dei distributori, eccedendo gli abituali rapporti di collaborazione tra i produttori e gli intermediari di distribuzione.

La CGUE ha preliminarmente ricordato che l’accettazione, anche tacita, di alcune clausole adottate nell’ambito di un coordinamento contrattuale, come un accordo di distribuzione, non costituiscono di per sé un comportamento unilaterale, ma si inseriscono nelle relazioni che le parti intrattengono tra loro, rientrando quindi nel diritto delle intese di cui all’art. 101 TFUE.

Ciò, tuttavia, non esclude che ad un’impresa in posizione dominante possa essere imputato il comportamento adottato dai distributori dei suoi prodotti o servizi, con i quali essa intrattiene solo rapporti contrattuali, e che, di conseguenza, venga imputata ad essa un abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 102 TFUE.

È onere dell’impresa produttrice, infatti, non pregiudicare, con il suo comportamento, una concorrenza effettiva e leale nel mercato interno.

Di conseguenza, spiega la CGUE, “qualora il comportamento contestato all'impresa in posizione dominante sia materialmente attuato tramite un intermediario che fa parte di una rete di distribuzione, tale comportamento può essere imputato a detta impresa qualora risulti che esso è stato adottato conformemente alle istruzioni specifiche impartite da quest'ultima, e quindi a titolo di esecuzione di una politica decisa unilateralmente dall'impresa suddetta, cui i distributori interessati erano tenuti a conformarsi”.

In una ipotesi del genere, poiché il comportamento contestato all’impresa in posizione dominante è stato deciso unilateralmente, quest’ultima può esserne considerata come l’autrice e quindi come la sola eventuale responsabile ai fini dell’applicazione dell’art. 102 TFUE: la rete formata dai distributori con l’impresa produttrice, infatti, rappresenta uno strumento di ramificazione territoriale della sua politica commerciale e, dunque, lo strumento tramite il quale è stata eventualmente attuata la prassi di esclusione.

In tale ipotesi, dunque, è evidente che è l’impresa in posizione dominante a condizionare il comportamento attuato dalla sua rete di distribuzione. L’imputabilità della condotta, dunque, non è subordinata né alla dimostrazione che i distributori facciano parte dell’impresa produttrice, né all’esistenza di un vincolo “gerarchico” derivante dall’utilizzo di atti di indirizzo destinati a tali distributori, idonei ad influire sulle decisioni di gestione che questi ultimi adottano riguardo alle loro rispettive attività.

Quanto alla seconda questione pregiudiziale, relativa all’onere probatorio gravante sull’autorità garante di dimostrare, nel concreto, se le clausole di esclusiva hanno l’effetto di escludere dal mercato altri , la CGUE ha risposto positivamente.

La Corte di Giustizia ha preliminarmente ricordato che l’art. 102 TFUE non ha lo scopo di impedire ad un’impresa di conquistare, grazie ai suoi meriti e alle sue capacità, una posizione dominante su un mercato, né di garantire che concorrenti meno efficienti restino sul mercato.

Non tutti gli effetti preclusivi, infatti, pregiudicano necessariamente la concorrenza:  una concorrenza basta sui meriti può portare alla scomparsa dal mercato o all’emarginazione dei concorrenti meno efficienti e quindi meno interessanti per i consumatori.

In un simile contesto, le imprese in posizione dominante sono tenute, indipendentemente dalle cause di una simile posizione, a non pregiudicare, con il loro comportamento, una concorrenza effettiva e leale nel mercato interno. Di conseguenza, un abuso di posizione dominante potrà essere accertato quando il comportamento contestato abbia prodotto effetti preclusivi nei confronti di concorrenti di efficienza quantomeno pari all’autore di tale comportamento in termini di struttura dei costi, di capacità di innovazione o di qualità.

Spetta alle autorità garanti della concorrenza nazionali, nel nostro caso all’AGCM, dimostrare il carattere abusivo di un comportamento alla luce di tutte le rilevanti circostanze fattuali, nonché gli elementi di prova dedotti a sua difesa dall’impresa in posizione dominante.

Per dimostrare il carattere abusivo di un comportamento, un’autorità garante della concorrenza non deve necessariamente provare che esso abbia effettivamente prodotto effetti anticoncorrenziali: la ratio dell’art. 102 TFUE è infatti quella di sanzionare lo sfruttamento abusivo di una  posizione dominante sul mercato interno, o su una sua parte sostanziale, indipendentemente dall’esito più o meno fruttuoso di tale sfruttamento. Un’autorità garante della concorrenza, pertanto, può constatare una violazione dell’art. 102 TFUE dimostrando che, durante il periodo nel quale il comportamento in questione è stato attuato, esso aveva, nelle circostanze del caso concreto, la capacità di restringere la concorrenza basata sui meriti nonostante la sua mancanza di effetti.

Tale dimostrazione, tuttavia, deve fondarsi su elementi di prova tangibili, che dimostrino la capacità effettiva della prassi in questione di produrre tali effetti, dovendo l’esistenza di un dubbio al riguardo andare a vantaggio dell’impresa che ha fatto ricorso alla prassi stessa.  Di conseguenza, una prassi non può essere qualificata come abusiva se è rimasta allo stato di progetto, e non possono esserne considerati gli effetti meramente ipotetici.

Al fine di valutare la capacità del comportamento di una impresa di restringere la concorrenza effettiva sul mercato, un’autorità può basarsi su dati economici e studi empirici. Tali elementi non sono tuttavia sufficienti, dovendosi considerare elementi specifici del caso di specie.

Con particolare riferimento alle clausole di esclusiva, sebbene queste suscitino, per loro natura, preoccupazioni legittime in relazione alla concorrenza, la loro capacità di escludere i concorrenti non è automatica.

Di conseguenza, “quando un’autorità garante della concorrenza sospetti che un’impresa abbia violato l’art. 102 TFUE facendo ricorso a clausole di esclusiva e quest’ultima contesti, nel corso del procedimento, la capacità concreta di tali clausole di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti, producendo elementi di prova a sostegno, essa deve assicurarsi, nella fase della qualificazione dell’infrazione, che tali clausole avessero, nelle circostanze del caso concreto, l’effettiva capacità di escludere dal mercato concorrenti efficienti tanto quanto tale impresa”.

L’autorità garante della concorrenza che ha avviato tale procedimento, inoltre, è altresì tenuta a valutare, in concreto, la capacità di tali clausole di restringere la concorrenza qualora, l’impresa sospettata sostenga che esistono giustificazioni per la sua condotta.

La produzione, nel corso del procedimento, di prove idonee a dimostrare l’inidoneità a produrre effetti restrittivi fa sorgere l’obbligo, per le autorità garanti della concorrenza, di esaminarle.

Qualora l’impresa in posizione dominante abbia prodotto uno studio economico al fine di dimostrare che la prassi che le viene contestata non era idonea ad estromettere i concorrenti,  l’autorità garante della concorrenza competente non può escluderne la rilevanza senza esporre le ragioni per le quali ritiene che esso non consenta di contribuire alla dimostrazione dell’incapacità delle prassi contestate di compromettere la concorrenza effettiva sul mercato interessato e, di conseguenza, senza mettere detta impresa in grado di determinare l’offerta di prove che potrebbe essere sostituita a detto studio.

Per quanto riguarda, infine, il c.d. “criterio del concorrente altrettanto efficiente”, questo costituisce, secondo la Corte, solo uno dei diversi metodi che consentono di valutare se una prassi abbia la capacità di produrre effetti preclusivi.

Qualora un’impresa in posizione dominante sospettata di una prassi abusiva fornisca ad un’autorità garante della concorrenza un’analisi fondata sul criterio del concorrente altrettanto efficiente, detta autorità non può escludere tale prova senza neppure esaminarne il valore probatorio.

La Corte di Giustizia ha pertanto statuito che:

1) “L’articolo 102 TFUE deve essere interpretato nel senso che i comportamenti adottati da distributori facenti parte della rete di distribuzione dei prodotti o dei servizi di un produttore che gode di una posizione dominante possono essere imputati a quest’ultimo, qualora sia dimostrato che tali comportamenti non sono stati adottati in modo indipendente da detti distributori, ma fanno parte di una politica decisa unilateralmente da tale produttore e attuata tramite tali distributori”.

2) “L’articolo 102 TFUE deve essere interpretato nel senso che, in presenza di clausole di esclusiva contenute in contratti di distribuzione, un’autorità garante della concorrenza è tenuta, per accertare un abuso di posizione dominante, a dimostrare, alla luce di tutte le circostanze rilevanti e tenuto conto, segnatamente, delle analisi economiche eventualmente prodotte dall’impresa in posizione dominante riguardo all’inidoneità dei comportamenti in questione ad escludere dal mercato i concorrenti efficienti tanto quanto essa stessa, che tali clausole siano capaci di limitare la concorrenza. Il ricorso al criterio detto «del concorrente altrettanto efficiente» ha carattere facoltativo. Tuttavia, se i risultati di un siffatto criterio sono prodotti dall’impresa interessata nel corso del procedimento amministrativo, l’autorità garante della concorrenza è tenuta a esaminarne il valore probatorio”.

 

CGUE, Sez. V, 19 gennaio 2023, in C-680/20


AGCM: il claim di primato “il n. 1 in Italia” può costituire una pratica commerciale scorretta

AGCM: il claim di primato “il n. 1 in Italia” può costituire una pratica commerciale scorretta

AGCM: il claim di primato “il n. 1 in Italia” può costituire una pratica commerciale scorretta Vantare un primato aziendale (il n. 1 in Italia) non verificabile da un consumatore può costituire una pratica commerciale scorretta.

Il tema della diffusione di claim di primato non supportati da dati sufficientemente aggiornati è stato nuovamente oggetto di un procedimento innanzi all’AGCM, conclusosi con l’accettazione degli impegni presentati dalla società segnalata in merito all’aggiornamento e alla pubblicazione dei dati a supporto del claim.

IL CASO

Le società protagonista della vicenda è Idealista S.p.A., operante nel settore della pubblicazione di annunci immobiliari su piattaforme online.

Un competitor del settore – la società Immobiliare.it S.p.A. - aveva proceduto a segnalare Idealista, contestandone il comportamento commerciale. In particolare, in base alla segnalazione, la società avrebbe diffuso dei messaggi pubblicitari ingannevoli in merito alle caratteristiche del servizio offerto ed alla posizione di primato raggiunta nel proprio settore di attività.

Più precisamente, a partire da maggio 2021, nella homepage del sito, immediatamente sopra il box per la ricerca di annunci di vendita o affitto, quindi in una posizione particolarmente visibile per il consumatore, era stato posizionato il claim di primato con l’espressione “il n. 1 in Italia”. Tale claim era stato incluso anche anche nell’app.

Il claim, tuttavia, non era accompagnato dall’indicazione dei dati su cui si fondava il primato.

Solo dal marzo 2022 cliccando sul claim presente nel sito-web, era stato reso possibile accedere ad una landing page con i dati relativi al numero di visitatori mensili, gi annunci pubblicati, i download dell’app ecc. Lo stesso, invece, non era stato previsto per l’app.

IL PROCEDIMENTO

Sulla scorta della segnalazione pervenuta, l’AGCM ha avviato il procedimento, rinvenendo nella condotta della società la possibile violazione degli artt. 20 e 21, comma 1, lett. f) del Codice del consumo.

L’art. 20 del Codice vieta infatti le pratiche commerciali scorrette idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio di un dato prodotto.

A sua volta, l’art. 21, comma 1, lett. f) definisce pratica commerciale ingannevole quella che contiene “informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio” e che, “in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. È dunque ritenuta idonea a trarre in errore il consumatore figura, in base alla lett. f) della norma, la falsa o artata rappresentazione di alcuni elementi, tra cui: “la natura, le qualifiche e i diritti del professionista o del suo agente, quali l’identità, il patrimonio, le capacità, lo status, il riconoscimento, l’affiliazione o i collegamenti e i diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale o i premi e i riconoscimenti”.

Secondo l’Autorità, dunque, la condotta segnalata avrebbe potuto integrare una fattispecie di pratica ingannevole. La comunicazione commerciale sulla posizione di leadership della società sarebbe stata in grado di falsare in misura apprezzabile il comportamento economico dei consumatori, così da determinarli a scelte economiche che altrimenti non avrebbero assunto. Il comportamento dei consumatori sarebbe stato determinato dalle affermazioni di primato, che avrebbero potuto indurre a ritenere che la società fosse il più importante operatore sul mercato, di cui, tuttavia, non sarebbe stata fornita immediata dimostrazione o possibilità di verifica al riguardo.

Nel corso del procedimento, la società segnalata ha chiarito che il claim riportato nel sito “il n. 1 in Italia”, riguardava un primato risultante da una serie di analisi condotte, che avevano considerato numerosi indici, tra cui: il numero di visitatori mensili, il numero di annunci di case e appartamenti in vendita, l’audience deduplicata, il numero di visite totali, il numero di nuovi download dell’App.

Nel corso del procedimento è poi intervenuta anche la società Immobiliare, che ha dato atto della pendenza di un giudizio innanzi al Tribunale di Milano, promosso da Immobiliare contro Idealista per concorrenza sleale in ragione dell'illegittima usurpazione del primato di cui si discute, con riferimento all'uso del claim “n. 1 in Italia” sul proprio sito. Accanto a ciò, Immobiliare ha rimarcato come il primato vantato dalla società Idealista era comunque da considerarsi fortemente ingannevole, in quanto basato su dati non scientifici, inaffidabili e comunque instabili nel corso del tempo.

GLI IMPEGNI FORMULATI DALLA SOCIETA’ SEGNALATA E LA VALUTAZIONE DELL’AGCM

La società segnalata ha dunque presentato all’AGCM una proposta di impegni da assumere entro 60 giorni dall’accoglimento per porre fine all’infrazione.

Tra questi, la società ha proposto:

  1. la modifica della landing page del sito collegata al claim di primato, dando maggiore risalto al periodo di riferimento dei dati posti a sostegno del claim di primato e alla cadenza di aggiornamento;
  2. l’indicazione nella landing page dei parametri utilizzati posti a fondamento del claim di primato;
  3. l’aggiornamento trimestrale dei dati riportati;
  4. l’eliminazione del claim ove i dati dovessero non confermare più il primato vantato;
  5. inserimento di una landing page contenente le informazioni relative ai dati anche nell’App.

Le misure presentate sono state ritenute idonee dall’AGCM ad eliminare le criticità informative segnalate.

Secondo l’Autorità, infatti, “- indipendentemente dalla fluttuazione dei dati volti ad attestare la posizione di primato raggiunta nel mercato delle piattaforme digitali di annunci immobiliari – ciò che rileva ai fini della divulgazione di affermazioni di leadership sono le indicazioni sulle fonti e i parametri, e i relativi aggiornamenti, posti a fondamento delle asserzioni di primato raggiunto”.

L’Autorità ha così ritenuto che “i richiami alle fonti ed ai criteri e parametri prescelti per sostenere la posizione di primato detenuta nel mercato interessato costituiscono elementi informativi sufficienti per consentire ai consumatori di scegliere di consultare o meno la piattaforma d’inserzioni immobiliari del professionista”.

Accogliendo, dunque, gli impegni proposti,  l’AGCM ha concluso il procedimento senza accertare l’infrazione, disponendo tuttavia l’obbligo per la società segnalata di ottemperare agli impegni proposti.

Bollettino n. 5/2023 - Provvedimento n. 30450 (PS12348 – Idealista – Claim di primato)


eco-taxi

Eco-taxi: per il TAR è legittimo il divieto del servizio nelle aree del centro di Roma

eco-taxiIl TAR Lazio ha di recente ritenuto legittimo il divieto di esercitare il servizio c.d. eco-taxi nelle aree del centro di Roma.

La decisione trae origine dal ricorso promosso da alcune società del settore della mobilità contro il Regolamento di Polizia Urbana di Roma Capitale (DAC n. 43 del 6 giugno 2019) che stabilisce il divieto di esercitare il trasporto di persone mediante velocipedi e risciò con conducente per ‘cicloturismo ed eco-taxi’, a tre o più ruote, anche a pedalata assistita e/o dotati di motore ausiliario elettrico, in determinate aree del centro storico fortemente turistiche.

Secondo i ricorrenti, l’amministrazione comunale avrebbe imposto delle restrizioni del tutto irragionevoli al servizio, anche considerando che la domanda di servizi di questo tipo è molto alta e proviene spesso dai turisti che frequentano le zone centrali della città.

Il divieto risulterebbe altresì in contrasto con l’art. 85 del codice della strada e con gli artt. 1, lett. b), e  5 della Legge n. 21 del 15 gennaio 1992 (“Legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea”), che consentono l’esercizio del servizio di noleggio con conducente mediante velocipedi.

Il Collegio ha tuttavia respinto il ricorso.

Il punto di partenza del ragionamento condotto dal TAR è la qualificazione del servizio: l’attività che i ricorrenti intendono svolgere sul territorio di Roma Capitale rientra, secondo i giudici, nella nozione di “servizio di noleggio con conducente per trasporto di persone a mezzo di velocipedi”.

L’art. 1, comma 2 lett. b) della L. 21/1992, infatti, nel definire i servizi pubblici non di linea, precisa che il servizio di noleggio con conducente può essere svolto anche tramite velocipedi.

Di conseguenza, per esercitare tale servizio occorre un’autorizzazione comunale di esercizio. L’art. 85 del codice della strada, infatti, prevede che “La carta di circolazione di tali veicoli è rilasciata sulla base della licenza comunale d’esercizio”.

Secondo il TAR, dunque, poiché il servizio svolto a mezzo di velocipede rientra tra le forme di servizio pubblico di trasporto non di linea, lo stesso è assoggettato alle regole previste dalla Legge quadro, L. 21/1992. Di conseguenza, i servizi di NCC oltre a dover essere autorizzati, dovrà essere disciplinati in concreto da appositi regolamenti comunali.

La Legge quadro, infatti, assegna un ruolo importante ai comuni, chiamati a svolgere una funzione decisiva nel mercato dei servizi di TPL non di linea. In base all’art. 5 della L. 21/1990, i comuni sono chiamati a effettuare un pregnante e visibile intervento nella conformazione delle regole del settore a livello territoriale: adottano i regolamenti sull’esercizio degli autoservizi pubblici non di linea i quali, tra l’altro, fissano il numero e la tipologia dei veicoli “autorizzabili” nel territorio, i requisiti e le condizioni per il rilascio delle licenze, le modalità di svolgimento del servizio, i criteri per la determinazione delle tariffe ed esercitano le pertinenti funzioni amministrative.

Sebbene, dunque, i regolamenti comunali debbano muoversi nell’ambito della legge statale e della legge regionale, spesso sono proprio questi a contenere degli aspetti pratico-operativi che consentono di “allargare” o “restringere” le maglie imposte dalla normativa statale.

In tale ottica, il TAR ha precisato come “Il regolamento comunale appare, dunque, la sede deputata a disciplinare, nell’ambito territoriale di competenza, l’esercizio dell’attività di cui si discorre secondo le esigenze specifiche del luogo in cui viene a svolgersi, modulandone le modalità di esercizio anche al fine di contemperare l’interesse del singolo operatore economico con i preminenti interessi pubblici quale, in particolare, quello alla sicurezza della circolazione stradale”.

In base all’art. 7 del codice della strada, poi,  i comuni dispongono, altresì, del potere di regolamentazione della circolazione nei centri abitati.

E’ proprio in ragione delle norme che disciplinano le competenze e i poteri attribuiti ai comuni che il TAR ha respinto il ricorso: secondo il giudice, la norma del regolamento di Roma Capitale che vieta il servizio di NCC con velocipedi in alcune aree del centro, è stata “legittimamente adottata da Roma Capitale in ossequio alla richiamata normativa dettata in materia dal legislatore nazionale, volta ad assicurare una considerazione del servizio di cui si discorre che ne consenta a livello locale una disciplina razionale che tenga conto delle peculiarità dello specifico ambito comunale”.

Il Collegio ha infatti evidenziato che Roma Capitale, vietando nelle vie e piazze del centro storico di Roma l’attività di eco-taxi, ha inteso garantire “la tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana, tanto più necessaria in ragione della peculiarità di tale area cittadina, caratterizzata da una viabilità suscettibile di inevitabile intralcio ad opera dei velocipedi”.

Nello stesso regolamento, precisa il Collegio, si legge che il divieto in contestazione è stato disposto proprio al fine di tutelare la sicurezza urbana e il decoro del patrimonio artistico, storico e monumentale della città ed è stato rivolto aree specifiche del centro storico, dove la conformazione delle strade, la viabilità e la presenza di luoghi di particolare valore storico e monumentale richiede tutele particolari e più ampie, anche in relazione all’assenza di posteggi e aree di sosta per lo stazionamento di tali veicoli.

Il divieto, infatti, attiene solo a determinare e peculiari aree della città, “nelle quali l’affluenza dei turisti e la presenza di beni d’inestimabile valore storico, artistico e culturale depongono in favore dell’adozione di azioni (come quella in contestazione) di prevenzione e di contrasto, idonee ad impedire un’ulteriore potenziale aggressione al bene della sicurezza urbana soprattutto in siti in cui il rispetto ed il decoro dei luoghi impone finanche una tutela rafforzata degli interessi e beni pubblici da salvaguardare”.

Di qui, dunque, la conclusione del Collegio, che ha ritenuto ragionevole il divieto censurato.

TAR Lazio, Roma, Sez. II, 27.6.2022, n. 8761


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Legittima la revoca della gara per accedere ai fondi PNRR

revocaÈ legittima la revoca di una gara di appalto di lavori disposta per la sopravvenuta possibilità di fruire dei finanziamenti del PNRR, al fine di predisporre un progetto più organico. Così ha statuito di recente il TAR Campania con  la sentenza n. 7512/2022.

Il caso

Nel luglio del 2021, un’azienda ospedaliera aveva indetto una gara per l’affidamento dei lavori per un importo superiore ai 9 milioni di euro.

Giunta all’esame delle offerte presentate dai ricorrenti, l’azienda decideva di approvare un nuovo progetto di fattibilità tecnica ed economica per furie dei fondi PNRR e, di conseguenza, aveva adottato un provvedimento di revoca della gara, senza addivenire all’aggiudicazione della precedente.

Avverso tali atti è insorto il secondo classificato, lamentando, tra l’altro:

- l’inesistenza dei presupposti per la revoca della procedura di gara, essendo il progetto cantierabile e finanziato;

- l’assenza di modifiche sostanziali tra il primo ed il secondo progetto, tali da legittimare il ricorso ad una nuova gara;

- che l’esecuzione del progetto era pervenuto a uno stadio tale da escludere la ricorrenza dei presupposti per la revoca prevista dall’art. 21-quinquies della L. 241/1990 (la norma prevede che l’amministrazione può revocare un provvedimento solo al ricorrere di alcuni motivi specifici, ossia: sopravvenuti motivi di pubblico interesse, mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento, nuova valutazione dell’interesse pubblico originario),  anche in relazione alla tutela del legittimo affidamento ingenerato nei concorrenti;

- che la motivazione adottata dall’Azienda nel provvedimento , ossia l’approvazione di un nuovo progetto più ampio rispetto al precedente e la possibilità di fruire dei finanziamenti PNRR, non poteva dirsi legittima.

La decisione del TAR

Secondo il TAR Campania, la revoca della gara è giustificata dall’ampia discrezionalità riconosciuta all'Amministrazione. Ricordano infatti i giudici che la giurisprudenza amministrativa ritiene che “alla stazione appaltate è riservata "un'ampia discrezionalità nella valutazione della situazione di fatto e nella scelta dell'opzione ritenuta più vantaggiosa sotto il profilo economico-organizzativo" sicchè essa " - dopo l'avvio della procedura di scelta del contraente - mantiene il potere di revoca per documentate e motivate esigenze di interesse pubblico, anche consistenti in un diverso apprezzamento dei medesimi presupposti già considerati, in ragione delle quali sia evidente l'inopportunità o comunque l'inutilità della prosecuzione della gara stessa", chiarendosi come sia "sufficiente al riguardo che non risulti illogica né illegittima per manifesta abnormità o travisamento dei presupposti di fatto la decisione di perseguire una strada diversa" (in tal senso, ex multis, Consiglio di Stato, Sezione V, n. 5002/2011 ed i precedenti ivi richiamati)” (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 7.3.2022, n. 1530).

Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto apprezzabile l’esigenza dell’amministrazione di procedere alla revoca della procedura al fine di fruire dei finanziamenti del PNRR, di dare organicità al progetto di fattibilità tecnica ed economica predisposto e di rendere il progetto rispettoso dei tempi del PNRR.

Di conseguenza, ha ritenuto legittima la scelta compiuta dall’amministrazione di revocare la precedente gara, ritenendo non rilevante la natura marginale o sostanziale della modifica apportata al progetto che era alla base dell’originaria procedura. La modifica progettuale, infatti, non aveva comportato un mutamento della quantità di lavori del progetto iniziali, “quanto piuttosto l’inserimento del progetto finanziato (…) in un disegno più complessivo, che presenta un’interrelazione tra tutte le opere a farsi e rende giustificato il superamento della precedente scelta”. Peraltro, osservando la nuova soluzione nella sua interezza, le variazioni progettuali risultavano superiori al 15% dell’importo di progetto, ai sensi dell’art. 106 del d.lgs. 50/2016, giustificando anche sotto tale profilo il ritiro della procedura di gara.

La sentenza in commento, oltre a fornire alcune indicazioni sulla redazione dei progetti di fattibilità tecnica ed economica disciplinata dagli artt. 44 e 48 del d.l. 77/2021, è interessante per l’importanza che la stessa rivolge ai finanziamenti PNRR, la cui fruizione costituisce, nei fatti, ragione di interesse pubblico.

TAR Campania, Napoli, Sez. I, 1.12.2022


231/2002

Ritardo nei pagamenti della PA: si applicano gli interessi ex d.lgs. 231/2002?

Il tema dell’applicabilità degli interessi moratori previsti dal d.lgs. 231/2002 ai rapporti tra pubbliche amministrazioni e appaltatori/concessionari non sembra essere così lineare.

Il Tribunale di Bari, ad esempio, ha ritenuto applicabile il d.lgs. 231/2002 al ritardo nei pagamenti della prestazione del servizio di gestione di un centro polisportivo comunale (Trib. Bari, Sez. III, 4.7.2018, n. 2811).

Di segno opposto è invece apparsa una recente sentenza del Tribunale di Palermo.

Il caso origina da un decreto ingiuntivo emesso in favore del concessionario del servizio di trasporto pubblico locale per un importo pari a oltre 50.000 euro a titolo di conguaglio delle somme dovute, oltre interessi ai sensi del d.lgs. 231/2002.

Nel proporre opposizione al decreto, l’Amministrazione aveva rilevato, tra l’altro, che nel caso non sarebbe applicabile il d.lgs. 231/2002 in tema di interessi sulle transazioni commerciali, in quanto la concessionaria aveva svolto un servizio di pubblica utilità.

Il Tribunale di Palermo ha accolto la tesi dell’Amministrazione, riconoscendo come dovute alla società solo una somma pari a 26.000 euro.

Il giudice non ha dubbi: trattandosi di un contratto pubblico di servizio, non si applicano gli interessi commerciali, così come previsti dal d.lgs. 231/2002.

Osserva il Tribunale di Palermo come con il d.lgs. 231/2002, il legislatore nazionale abbia dato attuazione alla Direttiva 2000/35/CE in materia di ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali.

L’art. 1 del d.lgs. 231/2002 prevede infatti che l'ambito applicativo del decreto è quello delle transazioni commerciali.

Il successivo art. 2 definisce sia l’ambito di applicazione oggettivo che quello soggettivo della norma.

In particolare, vengono definiti transazioni commerciali “i contratti, comunque denominati, tra imprese o tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo”.

In merito all’applicazione soggettiva delle disposizioni di cui al d.lgs. 231/2002, la norma definisce il concetto di pubblica amministrazione, rinviando alla definizione fornita dal Codice dei Contratti pubblici, nonché quella di imprenditore (quest'ultimo individuato in ogni soggetto esercente un'attività economica organizzata, o una libera professione).

Nel rintracciare i contorni applicativi della norma, il giudice ha precisato che il decreto in esame impone un tasso di mora particolarmente elevato, diretto non solo a ristorare il creditore del danno subito per il ritardo nel pagamento, ma anche a sanzionare lo stesso autore del ritardo nell'adempimento della prestazione pecuniaria, con funzione dissuasiva di comportamenti abusivi del debitore.

La ratio della previsione è resa esplicita dalla stessa Direttiva 2000/35/CE di cui il decreto è attuazione, la quale sancisce che il meccanismo dei tassi di mora mira a introdurre un sistema idoneo a limitare al massimo i ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali, nella consapevolezza che gli eccessivi ritardi impongono pesanti oneri finanziari alle imprese – specie quelle di piccole e medie dimensioni e agli artigiani – e costituiscono una tra le principali cause di insolvenza determinando la perdita di numerosi posti di lavoro.

Secondo il Tribunale, dunque, “Se per un verso, quindi, non può dubitarsi dell'applicabilità della disciplina anche ai rapporti tra imprese e pubbliche amministrazioni – espressamente incluse nell'ambito di applicazione della disciplina – è altrettanto evidente che, ai fini dell'applicabilità della disciplina, è necessario che il rapporto tra la pubblica amministrazione e l'impresa sia una "transazione commerciale", vale a dire un rapporto contrattuale di natura privatistica che si svolga, dal punto di vista dell'impresa a tutela della quale è dettata la disciplina, in regime di concorrenza”.

Di conseguenza, sarebbero esclusi dall’ambito di applicazione del d.lgs. 231/2002 i corrispettivi dovuti per i rapporti tra PA e imprese, in cui la PA esercita un potere autoritativo, tra cui, come nel caso di specie, i rapporti concessori.

Secondo il giudice, infatti, la società “non ha agito come un mero operatore economico, che si è affacciato liberamente sul mercato, concludendo una transazione commerciale con la p.a., bensì quale soggetto incaricato dall’amministrazione di svolgere un pubblico servizio, tant’è che la convenzione non è il frutto della libera contrattazione, quanto piuttosto un atto che regolamenta l’erogazione del servizio, cui la pubblica amministrazione è tenuta per legge”.

Il Tribunale di Palermo sembra in verità concordare con l’indirizzo del Consiglio di Stato che, con riferimento al ritardo nel pagamento del compenso revisionale, aveva sostenuto che gli interessi dovuti “sono quelli da computarsi al tasso legale e non già quelli di mora previsti dal citato d.lgs. n. 231/2002, dal momento che le "transazioni commerciali" cui fa riferimento l'art. 2, comma 1, lett. a), ai fini dell'applicabilità del tasso di mora sono quelle "tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo", mentre nel caso del trasporto pubblico la prestazione è svolta dal gestore privato nei confronti dell'utenza, dalla quale il primo riceve dunque il corrispettivo, salva la contribuzione pubblica necessaria ad assicurare l'equilibrio economico del servizio” (Cons. St., Sez. V, 20.11.2015, n. 5291).

Tribunale di Palermo, 15.11.2022, n. 4663


concessioni commercio

Alle concessioni per il commercio si applica la direttiva Bolkestein e i principi dell’Adunanza Plenaria sulle concessioni balneari

concessioni commercio

Il tema delle concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative, c.d. concessioni balneari, non è l’unico a determinare forti contrasti tra la normativa nazionale e la normativa europea. A queste, infatti, si affiancano anche le concessioni di spazi pubblici per l'esercizio del commercio. Ci si riferisce, in particolare, ai c.d. posteggi per l'attività di vendita di merci al dettaglio e di somministrazione di alimenti e bevande effettuate su aree pubbliche date in concessione dai comuni ai commercianti.

Al pari delle concessioni balneari, il dibattito in tema di concessioni di spazi pubblici per l'esercizio del commercio ruota attorno all’applicabilità o meno a tale settore della direttiva Bolkestein, alla necessità di bandire o meno delle procedure selettive e, dunque, di osservare i principi pro-concorrenziali stabiliti a livello europeo.

I riferimenti normativi

Anche il settore delle concessioni di spazi pubblici per l'esercizio del commercio è stato interessato da numerosi interventi normativi, tutti caratterizzati dalla tendenza a stabilizzare la posizione degli assegnatari dei posteggi.

In particolare, con l’art. 1, comma 686, della L. 145/2018 (c.d. L. Bilancio 2019) è stato modificato il d.lgs. 59/2010 di recepimento della Direttiva 2006/123/CE (c.d. direttiva Bolkestein): l’intero settore del commercio al dettaglio su aree pubbliche è stato sottratto all’applicazione della direttiva. Pertanto, per tale settore, non trovano più applicazione le disposizioni normative che imponevano di procedere all’individuazione degli assegnatari tramite procedura selettiva, secondo criteri trasparenti e non discriminatori, stabilendo una durata dei titoli autorizzatori limitata e non soggetta a rinnovo automatico.

In pieno contesto pandemico, il d.l. 34/2020 (il c.d. decreto Rilancio), convertito in l. 77/2020, ha poi prorogato al 2032 le concessioni di posteggio per il commercio su aree pubbliche in scadenza (art. 181 comma 4-bis), prevedendo che eventuali posteggi liberi, vacanti o di nuova istituzione andassero assegnati “in via prioritaria e in deroga a qualsiasi criterio” agli aventi titolo, senza l’espletamento di alcuna procedura ad evidenza pubblica (art. 181, comma 4-ter).

Il 25 novembre 2020, in attuazione dell’art. 181, comma 4-bis del d.l. 34/2020, il MISE ha adottato le linee guida, con le quali è stato disposto che entro il 31 dicembre 2020 “il Comune provvede d’ufficio all’avvio del procedimento di rinnovo e alla verifica del possesso, alla medesima data, dei requisiti previsti dalle linee guida”.

Sul punto, l’AGCM ha precisato che alla luce del quadro normativo nazionale vigente, “il settore del commercio su aree pubbliche risulta attualmente impenetrabile all’applicazione dei principi della concorrenza”, evidenziando di conseguenza “seri dubbi di compatibilità con il diritto europeo”. L’AGCM aveva infatti suggerito di procedere alla disapplicazione delle norme nazionali per contrarietà con la disciplina e i principi di diritto europeo, adottando una disciplina delle procedure di assegnazione delle concessioni di posteggio coerente che preveda dei criteri di selezione e non dia luogo a rinnovi automatici (Parere AGCM del 15 febbraio 2021). La riforma pro-concorrenziale delle concessioni di spazi pubblici per l’esercizio del commercio è stata fortemente caldeggiata dall’AGCM anche nella segnalazione del 21 maggio 2021 rivolta alla Presidenza del Consiglio dei ministri contenete le “proposte di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza anno 2021” (disponibile a questo link).

Tuttavia, diversamente dalle concessioni demaniali per finalità turistico ricreative, la legge concorrenza 2021 (l. 118/2022) non ha previsto alcuna riforma in tema di concessioni di spazi pubblici per l’esercizio del commercio.

L’incompatibilità delle misure nazionali con i principi e la normativa di matrice europea rende in verità ancora più precarie le concessioni prorogate o rinnovate: i concessionari, infatti, non sembrano poter fare affidamento su tali norme che, poiché in contrasto con il diritto europeo, possono essere disapplicate non solo dal giudice, ma anche dalle singole pubbliche amministrazioni.

Questo è ciò che è accaduto in una recente episodio che ha coinvolto Roma Capitale e che è culminato con una pronuncia del TAR Lazio, la quale ha precisato che alle concessioni di spazi pubblici per l'esercizio del commercio si applica la direttiva Bolkestein e i principi espressi dall’Adunanza Plenaria sulle concessioni balneari.

Il caso

Il ricorrente, titolare di due autorizzazioni al commercio su area pubblica, ha impugnato il provvedimento di Roma Capitale con il quale è stato annullato l’atto di avvio della procedura finalizzata al rinnovo delle concessioni dei posteggi a rotazione per il commercio su aree pubbliche, in scadenza al 31.12.2020.

Roma Capitale, infatti, aveva avviato il procedimento di rinnovo dei posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche aventi scadenza al 31.12.2020, in applicazione dell’art. 181 del d.l. 34/2020, convertito dalla l.  77/2020.

Come anticipato, il comma 4-bis dell’art. 181 in parola ha stabilito che “le concessioni di posteggio per l'esercizio del commercio su aree pubbliche aventi scadenza entro il 31 dicembre 2020, se non già riassegnate ai sensi dell'intesa sancita in sede di Conferenza unificata il 5 luglio 2012, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 79 del 4 aprile 2013, nel rispetto del comma 4-bis dell' articolo 16 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, sono rinnovate per la durata di dodici anni, secondo linee guida adottate dal Ministero dello sviluppo economico e con modalità stabilite dalle regioni entro il 30 settembre 2020, con assegnazione al soggetto titolare dell'azienda, sia che la conduca direttamente sia che l'abbia conferita in gestione temporanea, previa verifica della sussistenza dei requisiti di onorabilità e professionalità prescritti, compresa l'iscrizione ai registri camerali quale ditta attiva ove non sussistano gravi e comprovate cause di impedimento temporaneo all'esercizio dell’attività”.

A seguito del parere espresso dell’AGCM del 15 febbraio 2021, Roma Capitale aveva provveduto ad annullare in autotutela il procedimento di proroga avviato, poiché aveva ritenuto necessario disapplicare la normativa nazionale perché contraria alla normativa europea in materia di concessioni.

Il ricorrente ha censurato l’operato di Roma Capitale sostenendo, in buona sostanza, che l’amministrazione non ha il potere di disapplicare l’atto amministrativo contrastante con la normativa comunitaria: tale prerogativa spetterebbe solo al giudice e solo con effetti limitati alla singola causa. Accanto a ciò, il ricorrente ha sostenuto che il settore del commercio su aree pubbliche è espressamente sottratto all’ambito applicativo della Direttiva Bolkestein e che nessun organo giudiziario ha ad oggi accertato, con efficacia di giudicato, la contrarietà a norme comunitarie del d.l. n. 34/2020.

Le motivazioni del TAR

Il TAR ha tuttavia rigettato il ricorso, ritenendo legittimo l’atto di annullamento disposto da Roma Capitale. Le argomentazioni a sostegno della decisione pesa dal TAR traggono espresso spunto dalle note sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 e 18 del 2021 in tema di concessioni demaniali per finalità turistico ricreative.

In primo luogo, il TAR ha ricordato come costituisce un principio consolidato anche in giurisprudenza quello per cui  sussiste un vero e proprio dovere anche per la pubblica amministrazione di non applicazione della norma nazionale illegittima per violazione del diritto europeo, anche in caso di direttiva “self executing”.

Allo stesso tempo, i giudici hanno ritenuto che i principi evidenziati dall’Adunanza Plenaria n. 17 e 18 del 2021 sono applicabili anche alle concessioni dei posteggi per l’esercizio del commercio, essenzialmente per due ordini di ragioni:

  1.  nel comune di Roma Capitale, gli spazi pubblici da affidare in concessione sono un bene limitato “considerato anche il ristretto carattere territoriale del Comune concedente, l’attuale assenza di concorrenzialità del settore e l’elevata attrattività che rivestono per gli operatori tali attività, specie nel contesto caratterizzato da profili di unicità e assoluta particolarità quale è quello di Roma”.
  2. nelle stesse sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è stata precisata l’applicabilità della direttiva Bolkestein anche al settore del commercio su area pubblica: le due pronunce, infatti, affermano che “la tutela della concorrenza (e l’obbligo di evidenza pubblica che esso implica) è, d’altronde, una “materia” trasversale, che attraversa anche quei settori in cui l’Unione europea è priva di ogni tipo di competenza o ha solo una competenza di “sostegno”: anche in tali settori, quando acquisiscono risorse strumentali all’esercizio delle relative attività (o quando concedono il diritto di sfruttare economicamente risorse naturali limitate), gli Stati membri sono tenuti all’obbligo della gara, che si pone a monte dell’attività poi svolta in quella materia”.

In altri termini, precisa il TAR, la direttiva Bolkestein impone l’indizione di gare pubbliche a tutela della concorrenza per il mercato, per cui è suscettibile di trovare applicazione in vari settori dell’ordinamento nazionale, tra cui quello delle concessioni per l’esercizio del commercio su aree pubbliche.

In quest’ottica, poiché - come chiarito anche dalla stessa Adunanza Plenaria -  la direttiva 2006/123/CE Bolkestein applicabile al caso di specie è “self executing”, sussisteva in capo all’amministrazione il dovere di non applicare la legge nazionale di rinnovo automatico delle concessioni, in quanto contrastante con il diritto eurounitario.

Il TAR ha dunque confermato l’operato dell’amministrazione che ha agito in autotutela, annullando l’avvio del procedimento di rinnovo della concessione, pur in assenza di una sentenza che si sia espressa in merito, giacché  l’art. 21-nonies l. 241/90 non richiede che l’illegittimità del provvedimento oggetto di riesame debba essere previamente affermata in giudizio.

Gli effetti della sentenza

Degno di nota è altresì la modulazione degli effetti della pronuncia che i giudici hanno effettuato, sulla falsariga di quanto fatto dall’Adunanza Plenaria per le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative.

Come noto, infatti, l’Adunanza Plenaria n. 17 e 18 del 2021 ha chiarito che l’incompatibilità comunitaria della legge nazionale che ha disposto la proroga ex lege delle concessioni determina il venir meno degli effetti della proroga, con il conseguente dovere in capo anche agli enti territoriali di non applicazione della disciplina interna illegittima. La Plenaria, tuttavia, “consapevole del notevole impatto (anche sociale ed economico) che tale immediata non applicazione può comportare, specie in un contesto caratterizzato da un regime di proroga che è frutto di interventi normativi stratificatisi nel corso degli anni” ha realizzato una sorta di disciplina transitoria per cui, nelle more del riordino della normativa da parte del legislatore, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023.

Allo stesso modo, nel caso di specie, il TAR Lazio ha ritenuto di dover modulare gli effetti della pronuncia di rigetto, precisando che la concessione oggetto del giudizio mantiene efficacia fino al 31 dicembre 2023, per cui “oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, essa cesserà di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E. e fermo restando che, nelle more, l’amministrazione ha il potere/dovere di avviare le procedure finalizzate all’assegnazione della concessione nel rispetto dei principi della normativa vigente, come delineati dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria n. 17 e n. 18 del 2021”.

TAR Lazio, Roma, sez. II-ter, 17.6.2022, n. 8136


TEMPI PROCEDIMENTO AGCM

I tempi dei procedimenti AGCM: il caso Apple/Amazon docet

tempiLa violazione dei tempi e dei termini individuati dalla legge per lo svolgimento dei procedimenti innanzi all’AGCM spesso può essere fatale e comportare l’annullamento dei provvedimenti sanzionatori.

È ciò che accaduto con la sentenza del TAR Lazio n. 12507/2022, in cui i giudici hanno annullato il provvedimento dell’AGCM che aveva condannato le società Apple e Amazon al pagamento di una sanzione per condotte anticoncorrenziali.

I giudici hanno annullato il provvedimento perché il relativo procedimento era stato avviato tardivamente, nonché per la brevità deI termini assegnati alle società per presentare le proprie memorie difensive.

Il 22 febbraio 2019, infatti, l’AGCM aveva ricevuto una segnalazione su alcune condotte anticoncorrenziali tenute da Amazon ed Apple; il 21 luglio 2020 l’Autorità aveva poi notificato l’avvio dell’istruttoria alle due società.

Nel novembre 2021 l'AGCM aveva concluso il procedimento, comminando una sanzione pecuniaria di euro 114.681.657 ad Apple e Amazon. Ad avviso dell’AGCM, le due società avevano posto in essere un accordo restrittivo della concorrenza che non permetteva a tutti i rivenditori terzi di prodotti a marchio Apple e Beats di operare sul marketplace Amazon.it, ma solo ad alcuni preventivamente individuati da Apple, ossia i c.d. Apple Premium Resellers (categoria di rivenditori che, all’interno del sistema di distribuzione di Apple, soddisfa i più alti standard di qualità ed investimenti). Secondo l’Autorità l’accordo era così idoneo a ridurre la concorrenza per l’innalzamento di barriere allo sbocco dei mercati della vendita online a danno dei rivenditori non ufficiali, solitamente piccole e medie imprese che effettuano vendite sul web utilizzando i servizi di marketplace, con evidenti effetti negativi per i consumatori e per le imprese. Tale limitazione, dunque, concretizzava una violazione della concorrenza ai sensi dell’art. 101 TFUE.

Con un articolato ricorso, Apple ad Amazon hanno impugnato innanzi al TAR il provvedimento dell’AGCM censurando anche alcuni aspetti procedurali, tra cui:

  1. La tardività dell’avvio del procedimento da parte dell’AGCM. Secondo le ricorrenti, l’Autorità aveva già a disposizioni tutti gli elementi per avviare il procedimento sin dal giorno in cui è stata effettuata la segnalazione (22 febbraio 2019) e nel periodo tra il 22 febbraio 2019 e la data in cui l’avvio del procedimento era stato notificato (luglio 2020), non sarebbe stata svolta alcuna attività istruttoria rilevante.
  2. L’irragionevolezza del termine minimo di 30 giorni dalla chiusura dell’istruttoria per assicurare le difese delle parti. Secondo le società, trattandosi di una vicenda di notevole complessità, l’AGCM avrebbe dovuto concedere un termine superiore a 30 giorni, come fatto peraltro già in passato per casi di analoga complessità.

Il TAR ha accolto le censure delle due società ricorrenti con riferimento proprio ai tempi del procedimento condotto dall’AGCM.

Innanzitutto, il TAR ha analizzato l’applicabilità ai procedimenti AGCM dell'art. 14 della L. 689/1981 in tema di sanzioni amministrative.

La norma stabilisce che “La violazione, quando è possibile, deve essere contestata immediatamente tanto al trasgressore quanto alla persona che sia obbligata in solido al pagamento della somma dovuta per la violazione stessa. Se non è avvenuta la contestazione immediata per tutte o per alcune delle persone indicate nel comma precedente, gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati residenti nel territorio della Repubblica entro il termine di novanta giorni e a quelli residenti all'estero entro il termine di trecentosessanta giorni dall'accertamento”.

Dopo aver dato atto del contrasto giurisprudenziale in merito all’applicabilità o meno della disciplina delle sanzioni amministrative alle sanzioni comminate dall’AGCM, il TAR ha tuttavia ritenuto che il termine decadenziale previsto dall'art. 14 della L. 689/1981 non trova diretta applicazione nei procedimenti antitrust in relazione alla durata della fase istruttoria.

Ciononostante, secondo il TAR, la non applicabilità diretta del termine di cui all'art. 14 in parola “non può giustificare il compimento di un’attività preistruttoria che si prolunghi per un lasso di tempo totalmente libero da qualsiasi vincolo e ingiustificatamente prolungato”. I procedimenti condotti dall’AGCM, infatti, sono pur sempre dei procedimenti amministrativi che, dunque, rispondono ai principi sanciti nella L. 241/1990, ossia ai principi di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, oltre che al dovere di attribuire certezza al professionista sottoposto al procedimento.

Sussiste pertanto l'obbligo per l'Autorità di accertare una violazione del diritto antitrust e di applicare le relative sanzioni procedendo all'avvio della fase istruttoria entro un termine ragionevolmente congruo, “a pena di violazione dei principi di legalità e buon andamento che devono sempre comunque contraddistinguerne l'operato”.

Resta fermo, ricorda il TAR, che ai fini del giudizio di congruità del tempo di accertamento dell'infrazione, ciò che rileva, quale termine iniziale, non è la notizia del fatto ipoteticamente sanzionabile ma l'acquisizione della piena conoscenza della condotta illecita.

Dall’esame dello svolgimento dei fatti, il TAR ha rilevato come tra la data di ricezione della segnalazione e l’avvio dell’istruttoria l’AGCM non aveva svolto alcuna attività rilevante.

In tale lasso di tempo, infatti, l’AGCM dovrebbe acquisire tutte le informazioni necessarie per tratteggiare gli elementi-base dell'illecito e, quindi, decidere se avviare o meno la successiva fase istruttoria. Ferma restando la complessità della vicenda, tale fase preistruttoria deve comunque avvenire in un lasso di tempo limitato “a distanza di vari mesi - ma non di vari anni - dalla segnalazione della possibile infrazione”.

Secondo i giudici, dunque, nel caso di specie, tenuto conto che l'Autorità ha deliberato l'avvio dell'istruttoria solo il 21 luglio 2020, a distanza di circa un anno e mezzo dalla segnalazione, e che in tale lasso di tempo non sono state compiute attività di particolare complessità che giustificassero la dilazione, l’avvio del procedimento antitrust è da considerarsi tardivo.

Il TAR ha altresì ritenuto fondata la censura delle società concernente la violazione del diritto di difesa a causa del termine eccessivamente ridotto assegnato alle parti per presentare le proprie osservazioni conclusive.

L’art. 14 del d.P.R. n. 217/1998 che regola i procedimenti antitrust prevede, infatti, un termine inderogabile minimo di 30 giorni dalla chiusura dell’istruttoria per consentire alle parti di controdedurre sulle risultanze istruttorie dell’AGCM.

Nel caso di specie, era stato assegnato un termine di 30 giorni, con scadenza in agosto, successivamente prorogato di 15 giorni.

Tuttavia, secondo il TAR, la complessità delle analisi svolte dall’Autorità e l’importo della sanzione irrogata, che è risultata una delle più alte applicate dall’Autorità, avrebbe richiesto maggior tempo alle società per controdedurre alle osservazioni dell’AGCM.

Precisa la Sezione, infatti, che ponendo a paragone il tempo assegnato alle parti per le osservazioni con la durata della fase preistruttoria (17 mesi) e istruttoria (16 mesi, dal luglio 2020 al novembre 2021), si manifestava un evidente compressione del diritto di difesa: “Lo spazio difensivo assicurato nel caso di specie deve quindi ritenersi inidoneo a garantire l’effettivo esplicarsi del contraddittorio”.

Spiega a tal proposito il TAR come il termine per le difese viene assegnato con la comunicazione delle risultanze istruttorie e, quindi, è necessario consentire alle parti interessate di mettere a punto i propri scritti difensivi dopo avere avuto conoscenza di tutti gli elementi ritenuti dall’Autorità rilevanti per l’adozione del provvedimento finale: per tale motivo l’art. 14 del d.P.R. 217/1998 stabilisce che alle parti è assegnato un termine minimo di 30 giorni prima della chiusura della fase istruttoria per presentare memorie scritte e documenti. La previsione di un minimo, e non di un massimo, fa sì che l’Autorità possa modulare tale termine in base alla complessità del caso. La prassi dell’Autorità sembra peraltro essere quella di assegnare un termine sensibilmente maggiore del minimo previsto, soprattutto nei casi di accertamenti più complessi.

Nella specie, invece, il termine di 30 giorni assegnato appariva “già di per sé del tutto insufficiente al fine di replicare ad una contestazione dispiegata in un documento di oltre 100 pagine”, anche considerando che nel periodo di agosto, pur non essendo espressamente prevista una vera e propria sospensione feriale, è “indubitabilmente molto più arduo raccogliere eventuali documenti da produrre a confutazione di quelli acquisiti ed utilizzarli per dispiegare le argomentazioni difensive”.

In conclusione, dunque, il TAR ha ritenuto tale termine breve ingiustificato a fronte della durata complessiva e della rilevanza del procedimento, concluso dopo circa due anni e mezzo dalla segnalazione e tre dalla conclusione dell’accordo.

AGCM, provvedimento n. 29889/2021 pubblicato sul Bollettino dell’Autorità n. 47/2021

TAR Lazio, Sez. I, 3.10.2022, n. 12507


Google ADS gratuiti per i portali del Ministero degli affari esteri: il via libera dell’ANAC

Con il parere del 20 luglio 2022, l’ANAC ha prestato parere positivo all’offerta di Google di fornire gratuitamente al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale dei crediti pubblicitari nell’ambito del Google Ads Crisis Relief Program, per promuovere i portali Viaggiare Sicuri e Dove Siamo Nel Mondo nelle ricerche effettuate dagli utenti tramite il motore di ricerca Google e riferite a viaggi all’estero.

I due portali, infatti, rappresentano due punti di riferimento importanti per reperire o fornire informazioni ufficiali sui paesi esteri. In particolare, il portale Viaggiare Sicuri fornisce informazioni ufficiali e consigli sulla situazione dei diversi paesi e sugli eventuali rischi per la sicurezza dei connazionali che si trovano o che intendono recarsi all’estero, mentre il portale Dove Siamo Nel Mondo è lo strumento dell’Unità di Crisi della Farnesina tramite il quale i cittadini italiani possono “registrarsi” prima di partire, fornendo gli elementi necessari per essere rintracciati e ricevere informazioni utili in caso di emergenza.

Rendere tali portali maggiormente visibili a coloro che cercano online informazioni per i propri viaggi o spostamenti all'estero permette evidentemente di garantire l'interesse pubblico a che i cittadini siano adeguatamente informati e, dunque, a prevenire possibili inconvenienti che possono accadere a coloro che si recano in determinati paesi del mondo.

Le ragioni giuridiche della percorribilità di una simile operazione sono da rinvenirsi, secondo l’Autorità, nel fatto che nel caso di specie non può parlarsi né di un contratto di appalto, né di contratto di sponsorizzazione.

Sia il contratto di appalto, che il contratto di sponsorizzazione, infatti, sono contratti a titolo oneroso.

Più precisamente, non sarebbe possibile parlare di un contratto di appalto poiché manca nel caso di specie il carattere sinallagmatico o comunque la controprestazione: è del tutto assente nell’iniziativa proposta da Google qualsiasi tipo di utilità o vantaggio a favore dell’operatore economico sia in termini economici che in termini di pubblicità. Allo stesso modo non risultano evidenziate controprestazioni a carico del Ministero.

L’iniziativa, dunque, non sembra riconducibile nello schema tipico del contratto d’appalto e, quindi, nel campo di applicazione del d.lgs. 50/2016.

Allo stesso modo non potrebbe parlarsi di contratto di sponsorizzazione, ossia del contratto atipico disciplinato dall’art. 19 del Codice dei contratti pubblici, mediante il quale un soggetto (detto sponsee o sponsorizzato) assume, dietro corrispettivo (o altre utilità), l’obbligo di associare a proprie attività il nome o il segno distintivo di altro soggetto (detto sponsor o sponsorizzatore), divulgandone così l'immagine o il marchio al pubblico.

Secondo i chiarimenti dalla giurisprudenza e richiamati anche dall’Autorità, benché il contratto di sponsorizzazione rientri tra i c.d. contratti esclusi – che non impongono l’adozione delle regole sancite dal Codice dei contratti -, non si tratta comunque di un contratto a titolo gratuito, in quanto alla prestazione dello sponsor corrisponde l’acquisizione del diritto all’uso promozionale dell’immagine del bene pubblico da parte dello stesso.

Secondo l’Autorità, l’iniziativa che coinvolge Google e il Ministero degli Affari esteri sarebbe diversa, in quanto la prestazione di Google si configura come gratuita tourt court, non essendo previsto a fronte dell’offerta del credito pubblicitario avanzata dalla società, alcuna prestazione da parte dell’amministrazione, in termini di pagamento di somme o di pubblicità, né alcuna utilità a vantaggio della società, ossia alcuno sfruttamento dell’iniziativa a fini pubblicitari o di promozione dell’immagine da parte della società offerente.

In tal senso, a fronte della disponibilità di Google di mettere a disposizione gratuitamente alcuni spazi pubblicitari del proprio portale, normalmente a pagamento, dando massima visibilità ai siti del Ministero, l’Amministrazione ricevente non prevede di fornire alcun ritorno pubblicitario a Google.

Precisa in proposito l’Autorità, che la mancata applicazione del codice dei contratti pubblici all’iniziativa in questione non viola, né le direttive europee, né i principi comunitari indicati nell’art. 30 del Codice e, in particolare, il principio di par condicio.

L’iniziativa, infatti, non deve essere riservata in via esclusiva a Google: l’amministrazione deve riservarsi il diritto di poter aderire, anche contestualmente, ad eventuali ulteriori proposte di analogo tenore di altri operatori web o social network.

Peraltro, specifica l’Autorità, trattandosi di una iniziativa non riconducibile al contratto di appalto, non dovrebbe essere posto alcun vincolo a carico del Ministero che possa condurre nel tempo a fenomeni di lock-in e, in generale, alla successiva necessità per la stessa amministrazione di avvalersi di servizi offerti dalla società in relazione alla prestazione resa.

In conclusione, tuttavia, l’ANAC raccomanda al Ministero di agire pur sempre nel rispetto dei criteri e dei principi sanciti dall’art. 1 della l. 241/1990, ossia ai criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e, in particolare, nel rispetto del principio di trasparenza,  per cui all’iniziativa deve essere garantita adeguata pubblicità, con riguardo alla conclusione dell’accordo con la società offerente.

Parere consultivo ANAC 20 luglio 2022, n. 39


iva

Caro materiali e IVA sulla compensazione prezzi. I chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate.

Uno dei temi più dibattuti in ordine al pagamento della compensazione dei prezzi richieste in base al meccanismo di cui all’art. 1-septies del d.l. 73/2021 attiene all’applicazione del regime IVA.

Due recenti interventi dell’Agenzia delle Entrate forniscono chiarimenti di non poco conto.

Con un primo intervento del 12 marzo 2022, in risposta all’interpello avanzato dal MIMS (Interpello n. 956-83/2022 presentato il 12.1.2022), l’Agenzia si è espressa in merito all’applicazione del regime IVA alle erogazioni delle somme del Fondo ministeriale e, dunque, alle movimentazioni di somme di denaro che intercorrono tra il Ministero e le committenti che hanno presentato istanza di accesso al Fondo per far fronte alle istanze di compensazione presentate delle imprese appaltatrici.

Sul punto l’Autorità ha sostenuto che “l’erogazione delle predette somme non integri il presupposto oggettivo ai fini dell’IVA di cui all’articolo 3 del citato d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto non si ravvisa un rapporto di natura sinallagmatica; infatti, dette somme vengono erogate dal Ministero istante nei confronti dei soggetti di cui al richiamato articolo 1-septies, comma 7, del citato decreto legge n. 73 del 2021 (stazioni appaltanti), in assenza di alcuna controprestazione da parte di quest’ultimi e di alcun obbligo di effettuare prestazioni di servizi nei confronti dell’ente erogatore. In mancanza di qualsiasi rapporto di natura sinallagmatica, come innanzi precisato, dette somme si configurarsi “mere” movimentazioni di denaro e, come tali, escluse dall’ambito applicativo dell’IVA, ai sensi del citato articolo 2, terzo comma, lettera a), del d.P.R. n. 633 del 1972, che prevede la non rilevanza all’IVA delle “cessioni che hanno per oggetto denaro o crediti in denaro”.

Come correttamente rilevato dall’Agenzia, tra il MIMS e le stazioni appaltanti non intercorre nessun rapporto contrattuale o sinallagmatico. Di qui la conclusione dell’Agenzia, per cui le somme erogate dal Fondo in favore delle stazioni appaltanti sono esenti dall’applicazione del meccanismo dell’IVA.

Più delicata, ed invero meno condivisibile, è stata invece la risposta fornita dall’Agenzia delle Entrate in merito al quesito relativo all’applicabilità del regime IVA alle somme che la stazione appaltante corrisponde in favore degli appaltatori a titolo di compensazione.

Con il parere del 13.7.2022, l’Agenzia ha infatti ritenuto che le somme erogate dalle stazioni appaltanti nei confronti dell’appaltatore sono soggette ad IVA.

Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha  dapprima ribadito che le somme che il Ministero eroga in favore delle stazioni appaltanti che hanno effettuato accesso al Fondo Ministeriale di cui al comma 8 dell’art. 1-septies del d.l. 73/2021 non sono soggette ad IVA, trattandosi di mere movimentazioni di denaro e non essendo ravvisabile in tal caso alcun rapporto sinallagmatico. Analogamente, precisa l’Agenzia, non sono soggette ad IVA le movimentazioni di denaro relative alle somme erogate alle stazioni appaltanti a valere sul Fondo di cui all’art. 1-septies, comma 8, le cui richieste vengono avanzate ai sensi dell’art. 26, comma 4 del c.d. decreto Aiuti (d.l. 50/2022, conv. In L. 91/2022).

Quanto invece alle somme erogate dalle stazioni appaltanti in favore degli appaltatori, queste assumono “natura di integrazione dell’originario corrispettivo stabilito per l’esecuzione dell’opera e del servizio e come tale risultano rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto”. E ciò, segnatamente in ragione del fatto che l’art. 13 del D.P.R. 633/1972 nel sancire il principio di onnicomprensività del corrispettivo, specifica che la base imponibile delle cessioni di beni e di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore di lavoro secondo le condizioni contrattuali a cui si sommano le integrazioni direttamente connessi ai corrispettivi dovuti ad altri soggetti.

Nella corposa motivazione del Parere, nel richiamare alcune circolari della stessa Agenzia, nonché le pronunce della Corte di Giustizia, l’Agenzia spiega che nei casi in cui sussiste un nesso di reciprocità tra le prestazioni del rapporto che lega le parti, la prestazione di denaro si qualifica come corrispettivo e l'operazione deve essere regolarmente assoggettata ad imposta. Diversamente, in mancanza di un nesso sinallagmatico tra gli importi erogati dalla parte pubblica o privata e la prestazione resa dalla controparte, le erogazioni di denaro si qualificano come contributi, ossia mere movimentazioni di denaro, e, in quanto tali, escluse dall'ambito applicativo dell'IVA.

A tal proposito, l’art. 73 della Direttiva n. 2006/112/CE precisa che sono soggette ad IVA anche le “sovvenzioni direttamente connesse al prezzo”. In tale locuzione rientrano, secondo la Corte di Giustizia ( CGUE, sentenza 22.11.201, C-184/00), le sovvenzioni che costituiscono il corrispettivo totale o parziale di un'operazione di fornitura di beni o di prestazione di servizi e che sono versate da un terzo al venditore o al prestatore. Perché la sovvenzione sia legata al prezzo è necessario che essa sia specificamente versata all'organismo sovvenzionato affinché fornisca un bene o effettui un determinato servizio. In questo caso la sovvenzione può essere configurata alla stregua di un corrispettivo della fornitura di un bene o della prestazione di un servizio.

In tal senso, dunque, sembrerebbe che secondo l’Agenzia, l’erogazione delle somme a titolo di compensazione in favore dell’appaltatore configurerebbero sovvenzioni connesse al prezzo e aventi ad oggetto un rapporto sinallagmatico: applicando tali principi alle conclusioni dell’Agenzia, sembrerebbe infatti possibile sostenere che questa abbia ritenuto che le compensazioni abbiano comunque la finalità di permettere all’appaltatore di garantire l’esecuzione dell’opera e, dunque, sarebbero comunque riconducibili alla dinamica contrattuale intercorrente tra la stazione appaltante e l’appaltatore. E ciò, dunque, a prescindere da fatto che sia intervenuto o meno il Fondo istituito presso il MIMS.

In conclusione, dunque, secondo l’Agenzia, ai fini del pagamento delle compensazioni da parte delle committenti gli appaltatori che hanno avanzato richiesta, si applica comunque il meccanismo dell’IVA secondo le modalità e l'aliquota già previste per l'originario contratto di appalto.

Agenzia Entrate – Risoluzione n. 39 del 13.7.2022