Il piano triennale 2023 - 2025 di tutela del mare.

Si potrebbe affermare che ci troviamo nel pieno sviluppo della transizione ecologica grazie all'adozione del piano triennale 2023 - 2025 di tutela del mare.

In precedenza ci siamo occupati del correlato tema della tutela specifica delle acque (qui la consultazione integrale della news); oggi, invece, a ricevere maggior tutela è il mare.

Per la prima volta, infatti, l'Italia ha elaborato un indirizzo strategico unitario nell'ambito della politica marittima nazionale, dotandosi di un vero e proprio "Piano del mare", uno strumento essenziale per garantire uno sviluppo sostenibile ed una visione olistica ed omogenea in tutte le filiere marittime costituenti un elemento fondamentale della crescita economica interna.

Il Piano costituisce riferimento privilegiato per gli strumenti di pianificazione di settore, a conferma di come l'azione istituzionale delle singole Amministrazioni debba tenere conto ed essere orientata alla luce delle finalità e degli obiettivi unitariamente definiti in sede di pianificazione governativa.

Sul piano normativo, si tratta di un atto che sorge a seguito dell'adozione del decreto legge 11 novembre 2022, n. 173, attraverso il quale il Governo ha inteso rafforzare il proprio operato in materia di politiche per il mare per la transizione energetica attraverso l'istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri del Comitato interministeriale per le politiche del mare (Cipom), con il compito di assicurare, ferme restando le competenze delle singole amministrazioni, la definizione e il coordinamento degli  indirizzi strategici delle politiche del mare.

La funzione essenziale del Cipom è quella di provvedere, con cadenza triennale, alla elaborazione e approvazione del "Piano del mare", in tale modo definendo gli indirizzi strategici componenti la politica marittima nazionale.

Orbene, si è detto che per la prima volta l'Italia si è dotata di un Piano del mare che, stando al contenuto della nota di presentazione che accompagna il testo normativo, si sviluppa intorno a sedici direttrici, riguardanti gli spazi marittimi, le rotte commerciali, i porti, l'energia proveniente dal mare, la transizione ecologica dell'industria del mare, la pesca e l'acquacoltura, la cantieristica, l'industria armatoriale, il lavoro marittimo, la conservazione degli ecosistemi e le aree marine protette, la dimensione  subacquea e le risorse geologiche dei fondali, il sistema delle isole minori, i turismi e sport del mare, i cambiamenti climatici, la  cooperazione europea e internazionale e la sicurezza.

A ben guardare, dunque, il protagonista del piano non è il "mare" nella sua accezione assoluta ed isolata, bensì è il "mare" in senso trasversale, poiché comprensivo di tutti i fattori ambientali che lo compongono: si potrebbe, dunque, affermare che la novità di rilievo sta proprio nella visione globale della risorsa ambientale, cui il legislatore ben comprende le potenzialità per l'implementazione della transizione energetica.

Soffermandosi sul contenuto del Piano, nella parte introduttiva del documento emerge una delle finalità ovvero quella della "tutela e valorizzazione della risorsa mare dal punto di vista ecologico, ambientale, logistico, economico". Ciò determina più azioni da attuare, quale quella dello sviluppo dell'energia derivante dal mare. Basti pensare che il Piano stabilisce espressamente, per quanto concerne la componente energetica, che "L’Italia per conformazione e posizione geografica è il candidato ideale a diventare l’hub energetico meridionale dell’Europa ... Nel contesto della nuova strategia di sviluppo energetico dell’Italia, il mare può dare un contributo decisivo nella produzione di energia da fonti rinnovabili, quali i parchi eolici offshore ed il moto ondoso, sempre più importanti nel mix energetico a livello europeo e, pur con un passo più rallentato, dell’Italia".

Il Piano del mare fa emergere due obiettivi strategici che il legislatore ha inteso perseguire con questo nuovo strumento di pianificazione:

  • il primo, ovvero che la transizione ambientale ha un "tratto" di colore blu che passa attraverso una tutela rafforzata del mare in ogni sua componente;
  • il secondo, ossia quella di esprimere una visione armoniosa, alta e onnicomprensiva della risorsa marina che, purtroppo, oggi è assente.

(G.U.R.I. n. 248 del 23.10.2023)


cumulo alla rinfusa

Il cumulo alla rinfusa e l'interpretazione autentica dell'art. 225, d.lgs. 36/2023.

cumulo alla rinfusa

Ancora una volta ad essere protagonista delle pronunce giurisprudenziali è lui: il principio del "cumulo alla rinfusa" ovvero il principio relativo alla possibilità, per gli operatori consorziati esecutori privi di specifici requisiti, di utilizzare la qualificazione cumulativa del consorzio stabile stesso.

Il principio è stato esaminato in più occasioni, da ultimo nella precedente news (che è possibile consultare a questo link), con la quale è stata ampiamente illustrata la problematica attinente alle criticità interpretative della normativa vigente e pregressa.

Storicamente, molto brevemente, il principio del cumulo alla rinfusa, elemento tipico delle figure soggettive consortili stabili, ha visto il suo esordio con il codice del 2006; con il successivo codice del 2016, il legislatore ha verosimilmente assunto una posizione intermedia, non ammettendolo esplicitamente e lasciando che la giurisprudenza ne forgiasse il perimetro applicativo.

Il nuovo Codice dei contratti pubblici, ovvero il d.lgs. 36/2023, segna una svolta nell'esaltazione del principio: utili indicazioni pervengono da una recente pronuncia del Giudice amministrativo toscano che passiamo qui in rassegna.

La vicenda attiene ad una procedura ad evidenza pubblica per l'esecuzione di lavori manutentivi stradali ove, ad adire il Giudice amministrativo contro le determinazioni assunte dalla Stazione appaltante, è un operatore economico privato riunito in raggruppamento temporaneo che, nel ritenere che l'aggiudicatario (una figura consortile stabile) avesse designato un'impresa esecutrice associata ma priva dei requisiti, pone in contestazione, tra l'altro, proprio il principio del cumulo alla rinfusa.

Il Giudice amministrativo, ripercorrendo i fatti della vicenda, nonostante la procedura fosse stata indetta sotto la vigenza del codice 2016, esamina la questione utilizzando, validamente, le previsioni contenute nel nuovo Codice, in particolare quelle dell'art. 225, d.lgs. 36/2023, definite in termini di vera e propria "interpretazione autentica".

Il Tar, infatti, osserva che "la problematica deve oggi essere affrontata alla luce della previsione interpretativa di cui all’art. 225, 13° comma prima parte del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36 (nuovo codice dei contratti pubblici) ... Per effetto della disposizione in questione trova pertanto sostanziale applicazione alla fattispecie la previsione di cui all’art. 36, 7° comma del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 che espressamente prevede che “il consorzio stabile si qualific(hi) sulla base delle qualificazioni possedute dalle singole imprese consorziate”, così delineando quella strutturazione complessiva sintetizzata dal cd. principio del “cumulo alla rinfusa” ampiamente richiamato dalla giurisprudenza <<più tradizionale>>".

Ciò che rende particolare la pronuncia (meritevole di segnalazione) è l'ulteriore deduzione espressa, laddove il Giudice amministrativo si sofferma proprio sulla natura e ratio della previsione da ultimo introdotta: "Del resto, nella fattispecie non potrebbe neanche dubitarsi della natura di interpretazione autentica della previsione di cui all’art. 225, 13° comma prima parte del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, essendo pienamente ravvisabili, nella fattispecie, gli elementi indispensabili per poter concludere per la natura interpretativa della norma, come ampiamente noto, costituiti dal fatto che “una norma, per poter essere qualificata di natura interpretativa, deve recare in sé - con sufficiente chiarezza - idonei indici espressivi della volontà (da parte della fonte giuridica che l'introduce) di disporre, appunto, in chiave interpretativa… (e) deve anche risultare topograficamente collocata al di fuori del corpo normativo che reca la disposizione che si reputa di voler interpretare, essendo altrimenti oltremodo singolare che, in seno ad uno stesso testo normativo, compia una norma di un articolo che ne interpreta un'altra di un diverso articolo del medesimo e complessivo articolato”".

Nell'individuare la corretta interpretazione della disposizione, il Giudice amministrativo si spinge ad affermare, in termini generali, che "Nella fattispecie, non si può poi neanche dubitare che la ratio della previsione sia da riportare alla volontà del legislatore di “assegnare alle disposizioni interpretate un significato rientrante tra le possibili letture del testo originario”  ... ovvero di “optare”, in una qualche misura, tra la lettura proposta da parte ricorrente ... e l’opposta lettura proposta dalla Stazione appaltante e dal Consorzio controinteressato (che risulta oggi essere riaffermata normativamente, per effetto della detta norma di interpretazione autentica)".

Il percorso logico motivazionale seguito dal Giudice amministrativo appare completo e la conferma si rinviene, tra l'altro, da una disposizione, quella di cui all'art. 225, d.lgs. 36/2023, che per contenuto e ratio sembra aver ormai dissipato ogni dubbio sull'ammissibilità del principio del cumulo alla rifusa nell'ambito delle procedure ad evidenza pubblica.

(Tar Toscana Sez. I, 27 maggio 2023, n. 512)


I curricula dei professionisti e l'accesso in gara: il sì del Tar Molise.

L'accesso ai curricula dei professionisti allegati all'offerta di gara dell'aggiudicatario può essere oggetto di accesso agli atti da parte degli altri concorrenti, non sussistendo alcuna violazione del diritto alla riservatezza di terzi.

Questo, in sintesi, il principio di diritto espresso dal Tar Molise in relazione ad una controversia avente ad oggetto l'accesso agli atti e documenti di gara di un operatore economico classificatosi secondo nella graduatoria degli offerenti nell'ambito di una procedura ad evidenza pubblica concernente l'affidamento del servizio di assistenza medica presso dei presidi ospedalieri.

In sintesi, il ricorrente si è rivolto al Giudice amministrativo allorquando la Stazione appaltante, a fronte della richiesta di accesso agli atti formulata dal secondo classificato, ha espresso parziale diniego limitatamente ai curricula dei professionisti, curricula che, stando alle previsioni del bando e del disciplinare di gara, costituivano uno dei criteri di attribuzione del punteggio per la valutazione delle offerte ovvero, secondo il Tar, ne costituivano il "nucleo centrale" perchè dimostrativi dell'organizzazione della gestione del servizio.

Il Tar molisano, accogliendo le deduzioni difensive svolte dalla ricorrente, ha accolto il ricorso.

La prima osservazione svolta dal Giudice adito riguarda il perimetro normativo entro il quale l'istanza dell'interessato è da collocarsi: a fronte di più riferimenti normativi riguardanti l'istituto dell'accesso (l. 241/90, d.lgs. 33/2013 e d.lgs. 50/2016), non vi è dubbio che l'accesso inerente una procedura ad evidenza pubblica si colloca, in prima battuta, nello specifico ambito dell'art. 53, d.lgs. 50/2016, istituto oggi non più vigente perchè abolito dal d.lgs. 36/2023, come abbiamo ampiamente illustrato nella precedente news  di cui abbiamo parlato qui.

Richiamando i casi di esclusione dell'accesso previsti dalla normativa, il Giudice amministrativo ha acclarato che nella controversia in questione non vi fosse alcun elemento ostativo all'accesso, attribuendo rilevanza all'accesso cd. con finalità difensive.

Infatti, nell'esporre l'iter logico, il Tar Molise si sofferma proprio sull'articolato di cui alla l. 241/90, in forza del rinvio operato dallo stesso art. 53, d.lgs. 50/2016, constatando la prevalenza dell'accesso rispetto alla riservatezza, ricavando specificatamente che non si è al cospetto "di dati sensibili, in presenza dei quali l'accesso sarebbe consentito solo nei limiti in cui esso sia strettamente indispensabile: tali dati sono difatti da identificarsi, ai sensi dell’art. 9 del Regolamento UE del 27/04/2016 n. 679 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (il regolamento sulla protezione dei dati – GDPR, cui fa rinvio l’art. 22, comma 2, d.lgs. n. 101/2018), unicamente nei “dati personali che rivelino l'origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l'appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all'orientamento sessuale della persona".

Nel caso di specie si è osservato che la richiesta di accesso avanzata dalla ricorrente, stante la specifica finalità dedotta, non riguardava che il contenuto tipico proprio dei curricula, riflettente il percorso di studio e di esperienze professionali dei relativi professionisti. Onde qualsiasi eventuale dato personale –al di là di quelli certamente riservati come le generalità- considerato eccedente tale tipologia di contenuti, avrebbe dovuto essere preventivamente “schermato” dall’Amministrazione.

Per giustificare l'accoglimento del ricorso, il Giudice amministrativo chiarisce che "L’art. 22 della legge n. 241/1990 stabilisce ... che per "controinteressati" debbano intendersi “tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza”. Nella specie concreta, però, avendo i professionisti in rilievo consentito all’impiego dei loro curricula per la partecipazione a una gara pubblica tesa all’affidamento di una commessa (al cui espletamento avrebbero poi collaborato), la possibilità di un accesso agli stessi curricula da parte di altro concorrente della gara non è idonea a integrare alcuna apprezzabile compromissione del diritto alla riservatezza dei suddetti professionisti".

I curricula in questione, secondo la tesi del Tar, in quanto assunti a elementi integrativi della relativa offerta tecnica, erano con ciò stesso già usciti dalla sfera personale dei loro titolari, e confluiti nell’ambito del materiale documentale proprio della stessa offerta, nel più ampio contesto di un procedimento competitivo soggetto per legge a canoni di trasparenza e accessibilità, sicché la possibilità dell’accesso del concorrente in gara rientrava nell'alveo delle conseguenze prevedibili del consenso preventivo che gli stessi professionisti avevano prestato.

La pronuncia in questione, dunque, pone certamente una riflessione sul difficile equilibrio tra due diverse e contrapposte esigenze: da un lato, garantire la riservatezza dei candidati (in questo caso esclusa), dall'altro lato rendere effettiva la trasparenza laddove ha come finalità quella di promuovere la difesa in giudizio, quale diritto costituzionalmente protetto; non può sottacersi che, in tal contesto, viene in rilievo anche la questione dell'accesso ai documenti dell'offerta dell'operatore economico, questione ampiamente dibattuta dalla giurisprudenza amministrativa che, spesso e volentieri, ha precluso qualsivoglia atto di discovery (specie allorquando vi siano elementi specifici di tutela del know how professionale dell'operatore economico).

(Tar Molise Sez. I, 27 giugno 2023, n. 201)


Ecomafie 2023: le preoccupazioni nel rapporto di Legambiente.

84 (ottantaquattro). Nessun riferimento alla smorfia napoletana (che agli occhi dei più attenti rappresenta l'edificio di culto nel cristianesimo), bensì è il numero di reati ambientali (ecomafie) che ogni giorno si commettono (e che, con ogni probabilità, oggi sono stati commessi).

Il rapporto edito da Legambiente e reso pubblico martedì 11 luglio 2023 è chiaro: nel 2022 non si arresta la morsa delle ecomafie; i reati contro l'ambiente sono in costante crescita e, osservando la filiera produttiva nel 2022, quelli dell'abusivismo edilizio e degli appalti sono i settori economici in cui è stato registrato un incremento maggiore.

Non a caso quello l'edilizia, pubblica o privata quale essa sia, ha da sempre rappresentato il settore trainante dell'economia nazionale.

In passato ci siamo occupati della questione ambientale sotto il profilo della tutela che l'ordinamento giuridico accorda ai singoli riguardo gli strumenti risarcitori azionabili, evidenziando come l'ordinamento interno risulti alquanto lacunoso (qui il link della news per una consultazione integrale).

L'associazione ambientalista (forse sarebbe riduttivo definirla così) Legambiente, annualmente, elabora un documento di sintesi che riepiloga il numero di fattispecie delittuose ed illeciti amministrativi che si commettono nel nostro territorio sul fronte ambientale.

Nel nostro ordinamento giuridico, oltre al d.lgs. 152/2006 e s.m.i. recante norme in materia ambientale, le fattispecie delittuose sono state previste con la legge 22 maggio 2015, n. 68, la quale ha introdotto con l'art. 1 il titolo VI-bis del codice penale, rubricato specificatamente "Dei delitti contro l'ambiente", con il chiaro obiettivo di garantire una maggior tutela alla componente ambientale laddove la stessa risulti essere compromessa, ad esempio, a seguito di inquinamento.

Il dossier Legambiente 2023 contiene dei dati allarmanti: il numero di reati ed illeciti amministrativi risulta essere in constante crescita, segno che il cd. "virus della corruzione ambientale" è ampiamente diffuso e le attuali forme di tutela non risultano essere particolarmente efficienti.

Basti pensare, stando al contenuto del dossier, che a pesare sono, non solo il business dell'edilizia abusiva, ma anche i reati contro la fauna, il ciclo illegale dei rifiuti ed i reati legati a roghi dolosi e colposi.

In tal contesto, sempre secondo il dossier Legambiente, parrebbe avere un "peso" alquanto significativo anche il numero dei Comuni sciolti per mafia e la crescita dell'associazioni criminali che incrementano la "filiera" delle ecomafie.

Si tratta di dati di fondamentale importanza, non solo per il fatto che fotografano la realtà ambientale esistente, ma altresì consentono di cogliere la pericolosità del problema che espone la salute umana ad una serie di pregiudizi irreversibili; per questa ragione, è la stessa Associazione ad affermare quali sono gli strumenti da mettere in campo: "Per Legambiente quella contro l’ecomafia è una doppia sfida, che si può vincere da un lato rafforzando le attività di prevenzione e di controllo nel nostro Paese, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse stanziate con il Piano nazionale di ripresa e resilienza; dall’altro mettendo mano con urgenza, a partire dall’Europa, a un quadro normativo condiviso su scala internazionale, con cui affrontare una criminalità organizzata ambientale che non conosce confini. Dieci le proposte di modifica normativa presentate oggi dall’associazione ambientalista per rendere più efficace l’azione delle istituzioni a partire dall’approvazione delle riforme che mancano all’appello, anche in vista della prossima direttiva Ue sui crimini ambientali, di cui l’Italia deve sostenere con forza l’approvazione entro l’attuale legislatura europea".

Le parole suonano come un avvertimento rivolto al legislatore: per un verso, le misure di prevenzione atte a scongiurare il verificarsi di tali eventi sono insufficienti, per altro verso, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (che nel settore ambientale ha riposto buona parte delle proprie risorse) potrebbe rappresentare un nuovo traguardo verso una significativa riduzione del numero dei reati.

Certamente, le azioni concrete devono adottarsi già al livello "di prossimità": i piccoli gesti quotidiani, quale ad esempio il corretto conferimento dei rifiuti domestici, possono certamente contribuire a raggiungere il traguardo sperato, auspicando di raggiungere quello che nella smorfia è il numero che, per eccellenza, rappresenta il nostro Paese: il numero 1 ossia l'Italia, la Patria (nb: lo 0, purtroppo, non è contemplato nella smorfia, ma sarebbe il vero traguardo da raggiungere!).

(Comunicato stampa Legambiente)


L'aggiudicazione di appalti a società russe: il Tar "fissa" le regole.

L'attuale normativa unionale non consente ad un cittadino o una persona fisica o giuridica, un'entità o un organismo stabiliti in Russia di partecipare ad una procedura ad evidenza pubblica rientrante nell'ambito di applicazione delle direttive sugli appalti pubblici o eseguire contratti pubblici.

Si tratta di un principio che è stato affermato in una recente pronuncia del Giudice amministrativo, il quale è stato investito da un'impresa che lamentava l'errata aggiudicazione disposta dal Ministero degli Esteri nell'ambito di una procedura ad evidenza pubblica per l'affidamento di servizi attinenti le attività ausiliarie al rilascio di visti di ingresso in Italia e legalizzazioni.

Ci siamo occupati, in precedenza, degli impatti provocati dal conflitto bellico nella normativa interna italiana, specie allorquando il legislatore italiano è corso ai ripari avverso l'aumento dei costi energetici mediante una normativa specifica (questo link è possibile consultare la news in via integrale).

Prima di entrare nel merito della vicenda qui in commento, è bene rilevare che il Giudice amministrativo ha affrontato la questione relativa all'assetto societario dell'impresa aggiudicataria, iraniana nel caso di specie con partecipazioni estere, acclarando, all'esito di tale verifica, l'infondatezza del ricorso proprio perchè la società aggiudicataria dei servizi non rientrava nell'ambito delle esclusioni di cui alla normativa unionale.

Il Giudice amministrativo, nel corso della disamina della vicenda, ha approfondito la normativa di settore, la quale si compone dal Regolamento UE n.833/2014, così come modificato con Regolamento UE n.576/2022, il quale introduce delle misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina.

Nei considerando introduttivi del Regolamento, il diritto unionale prevede, in generale, una serie di principi che l'Unione ha inteso introdurre per fronteggiare, mediante iniziative restrittive di carattere economico-finanziario, le inammissibili attività belliche russe in danno dell'Ucraina, prevedendo, ad esempio, l'opportunità di applicare restrizioni sulle esportazioni di determinati beni e tecnologie a duplice uso, e sulla prestazione dei servizi connessi, nonché applicare restrizioni su determinati servizi connessi alla fornitura di armi e materiale militare.

Nel caso sottoposto al Giudice amministrativo, la disposizione che viene posta al centro dell'attenzione è l'art. 11 del Regolamento, il quale stabilisce che “È vietato aggiudicare o proseguire l'esecuzione di qualsiasi contratto di appalto pubblico o di concessione rientrante nell'ambito di applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, nonché dell'articolo 10, paragrafi 1 e 3, paragrafo 6, lettere da a) a e), e paragrafi 8, 9 e 10, e degli articoli 11, 12, 13 e 14 della direttiva 2014/23/UE, degli articoli 7 e 8, dell'articolo 10, lettere da b) a f) e da h) a j), della direttiva 2014/24/UE, dell'articolo 18, dell'articolo 21, lettere da b) a e) e da g) a i), e degli articoli 29 e 30 della direttiva 2014/25/UE, nonché dell'articolo 13, lettere da a) a d), da f) a h) e j), della direttiva 2009/81/CE, a o con:

a) un cittadino russo o una persona fisica o giuridica, un'entità o un organismo stabiliti in Russia;

b) una persona giuridica, un'entità o un organismo i cui diritti di proprietà sono direttamente o indirettamente detenuti per oltre il 50 % da un'entità di cui alla lettera a) del presente paragrafo; oppure

c) una persona fisica o giuridica, un'entità o un organismo che agiscono per conto o sotto la direzione di un'entità di cui alla lettera a) o b) del presente paragrafo, compresi, se rappresentano oltre il 10 % del valore del contratto, subappaltatori, fornitori o soggetti sulle cui capacità si fa affidamento ai sensi delle direttive sugli appalti pubblici”.

La misura restrittiva prevista dal Regolamento, dunque, opera attraverso un criterio soggettivo, criterio che nella vicenda esaminata dal Tar laziale non ricorreva, in quanto la società aggiudicataria era sì composta da una società russa, ma quest'ultima non raggiungeva la proprietà del 50% del capitale della società di altro Stato (escluso dalle disposizioni del Regolamento).

Per tali ragioni, il Giudice amministrativo ha confermato la legittimità dell'aggiudicazione disposta dall'Ente ministeriale.

Ora, a prescindere dagli aspetti propri della vicenda esaminata, ciò che rileva nel caso di specie è che allorquando ricorrono i presupposti sanciti dal Regolamento, qualsiasi operatore economico non può concorrere all'affidamento di una commessa pubblica; agli occhi dei più esperti tale meccanismo potrebbe apparire lesivo della concorrenza, ma è altrettanto vero che tali misure (imposte a livello unionale) sono finalizzate a tutelare, seppur in via trasversale, l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina onde promuovere una soluzione pacifica della crisi, interessi che possono certamente porsi su di un piano sovrastante (e che recedono) rispetto alla concorrenza.

(Tar Lazio Sez. III, 27 aprile 2023, n. 7251)


Il diritto di accesso agli atti nel d.lgs. 36/2023.

Il diritto di accesso agli atti è disciplinato nel nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 36/2023 e s.m.i.) attraverso due previsioni normative, ovvero gli articoli 35 e 36 recanti, rispettivamente, l'accesso agli atti e la riservatezza, nonché le norme procedimentali e processuali in tema di accesso.

Non può non constatarsi che le previsioni citate sono riportate nella Parte II del Codice, dedicata alla digitalizzazione: si vedrà come tale scelta è tutt'altro che casuale.

Prima di affrontare, sinteticamente, gli aspetti dell'istituto e gli impatti generati dal nuovo Codice dei contratti pubblici e su quello processuale (in relazione al quale è stato affrontato un apposito studio), è necessario chiarire che la disciplina in questione non introduce modiche ai principi fondamentali sanciti dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e s.m.i., bensì reca previsioni specifiche per l'accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti che assumono un carattere pubblicistico.

Più volte abbiamo affrontato le problematiche che pone l'istituto dell'accesso agli atti rispetto ad una procedura ad evidenza pubblica; ad esempio, a questo link è possibile consultare una precedente news sul tema dell'accesso eseguito da un operatore economico non invitato alla selezione.

Il nuovo Codice dei contratti pubblici, nell'ottica di perseguire la tutela della trasparenza e la pubblicità degli atti, ha ridefinito il quadro normativo pregresso, prevedendo, con due diverse disposizioni, il nuovo istituto dell'accesso agli atti che, certamente, risente (in termini positivi) dell'innovativo processo di digitalizzazione che il legislatore ha voluto attuare sotto molteplici direzioni.

Le novità di rilievo introdotte possono essere così sintetizzate:

  • l'art. 35, operando un rinvio esterno alle previsioni specifiche di cui alla legge sull'accesso agli atti e all'accesso civico generalizzato (la cui applicabilità alla fattispecie concernente i contratti pubblici è stata acclarata da Cons. Stato Ad. Plen. 2 aprile 2020, n. 10), sancisce l'obbligo in capo alle stazioni appaltanti e agli enti concedenti di assicurare l'accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici in modalità digitale, prevedendo, con esclusione dei contratti secretati, i momenti esatti delle fasi ove l'esercizio del diritto di accesso si realizza concretamente e dei casi specifici di esclusione dell'accesso (ad esempio, relazioni riservate, pareri legali, ecc. ...), fatti salvi i casi di indispensabilità ai fini della difesa in giudizio (da parte del concorrente);
  • l'art. 36 (con una formulazione poco chiara) introduce le norme procedimentali e processuali propedeutiche ad assicurare l'accesso in modalità digitale stabilendo, specificatamente, che le informazioni sono rese disponibili attraverso la cd. "piattaforma di approvvigionamento digitale" e che eventuali impugnazioni avverso documenti oscurati  possono essere proposto con ricorso notificato e depositato "entro dieci giorni dalla comunicazione digitale della aggiudicazione";
  • l'art. 35, a differenza dell'art. 36 (che modifica parzialmente il d.lgs. 104/2010 e s.m.i.), ha portata tendenzialmente generale, poiché la seconda attiene alle dinamiche "interne" alle procedure ad evidenza pubblica;
  • la previsione contenuta nell'art. 36 di diffusione delle informazioni degli appalti aggiudicati consente di elevare ad "interesse pubblico" l'offerta così da consentire, almeno astrattamente, a tutti i cittadini, di conoscere le modalità con cui agisce la pubblica amministrazione.

Alla luce delle novità introdotte, non possiamo che evidenziare che il nuovo istituto dell'accesso agli atti certamente si pone in una prospettiva innovativa e semplificativa, laddove, per un verso, si promuovere la modalità digitale, per altro verso, si riducono i termini processuali (15 giorni rispetto ai canonici precedenti 30 giorni) per la proposizione di eventuali ricorsi avverso le decisioni assunte dalla stazione appaltante (di oscurare parti delle offerte, secondo il paradigma normativo).

Certamente la lettura delle previsioni, di quelle contenute nell'art. 36 in particolare, destano serie perplessità laddove comprimono significativamente i termini per agire in giudizio e, secondariamente, aderendo ad un'interpretazione estensiva, troverebbero applicazione in tutte le ipotesi di diniego di accesso e non limitatamente alle "decisioni assunte sulle eventuali richieste di oscuramento di parti delle offerte" (cfr. art. 36, co. 3, d.lgs. 36/2023 e s.m.i.).

(AA.VV, Relazione sulle ricadute del nuovo codice dei contratti pubblici sul processo amministrativo, giustizia-amministrativa.it, 2023)


Amianto e coperture: gli incentivi per impianti fotovoltaici sui tetti.

Il processo di transizione ambientale, energetica in particolare, si potrebbe dire che è cominciato alcuni anni addietro, come dimostra la normativa specifica di settore che ha previsto delle forme di incentivi per coloro i quali avessero realizzato degli impianti energetici (fotovoltaici) in sostituzione di coperture contenenti eternit e/o amianto.

In precedenza ci siamo occupati delle problematiche attinenti all'aumento del costo dell'energia (qui il link ove è possibile consultare la news sul tema) che certamente influisce sul tema che stiamo affrontando.

Come è noto, il materiale eternit/amianto (a questo link è possibile consultare gli effetti dannosi per la salute) ha trovato un vasto impiego come isolante o coibente e, secondariamente, come materiale di rinforzo e supporto per altri manufatti sintetici (mezzi di protezione e tute resistenti al calore); attualmente l’impiego è proibito per legge, tuttavia la liberazione di fibre di amianto da elementi strutturali preesistenti, all'interno degli edifici, può avvenire per lento deterioramento di materiali che lo contengono oppure per danneggiamento diretto degli stessi da parte degli occupanti o per interventi di manutenzione.

La presenza di tali materiali rappresenta, pertanto, un problema di carattere ambientale serio.

A fronte del divieto di utilizzo imposto, nel corso degli anni il legislatore ha inteso promuovere un processo di smaltimento finalizzato all'eliminazione di tutte quelle opere contenenti amianto: per promuovere tale processo, il legislatore ha introdotto, tra l'altro, delle misure straordinarie di incentivazione della produzione di energia elettrica da impianti solari fotovoltaici ove installati in sostituzione di coperture in eternit o comunque contenenti amianto.

Tale sistema di incentivazione prevede un maggior contributo economico (premio) che il Gestore dei servizi energetici (GSE) riconosce rispetto alla componente incentivante della cd. "tariffa base": la maggiorazione è del 5%.

La normativa di settore si ricava dal D.M. 5 maggio 2011 e s.m.i.

Naturalmente, nel corso degli anni sono sorti numerosi contenziosi legati al sistema incentivante.

La vicenda che qui si esamina è riferita ad una controversia insorta tra una società agricola ed il GSE, il quale, all'esito del procedimento di verifica dell'impianto fotovoltaico realizzato dall'impresa, aveva constatato che l'intervento di installazione dei moduli fotovoltaici non aveva comportato la rimozione e lo smaltimento della totale superficie di eternit esistente, escludendo, dunque, il riconoscimento delle premialità previste dalla normativa.

Avverso il provvedimento di non riconoscimento delle maggiorazioni è insorta la Società, lamentando diversi profili critici, tra cui quello secondo il quale l'attribuzione del premio era da riconoscere in quanto l'intervento era realizzato all'interno di una "porzione omogenea di copertura" ovvero sulla porzione di un edificio autonomo rispetto al complesso immobiliare cui era ricompresa la copertura.

Prescindendo dagli aspetti specifici della questione, il Tar laziale ha accolto il ricorso proposto dall'operatore economico e, richiamando la normativa di settore, ha acclarato che "Come emerge dalle citate Regole applicative, l’attribuzione del premio in argomento presuppone la rimozione delle preesistenti coperture in eternit/amianto relativamente alla falda di tetto o porzione omogenea della copertura su cui si intende installare l’impianto fotovoltaico, condizione che la ricorrente, ad avviso del Collegio, ha rispettato. 7.3. Dalla planimetria catastale prodotta in giudizio ... risulta, infatti, con evidenza che l’edificio sul quale è stato realizzato l’impianto – che peraltro occupa integralmente la copertura dello stesso, come pure emerge dalle fotografie in atti - è distinto e separato rispetto agli altri edifici – pur limitrofi – sui quali permane invece la copertura preesistente, configurando in tal modo la “porzione omogenea” rilevante ai fini della maggiorazione per cui è causa".

Il Giudice amministrativo, dunque, facendo leva sullo stato dei luoghi, ha riconosciuto espressamente il rispetto della normativa da parte del soggetto interessato e, correlativamente, la portata applicativa del premio incentivante, attribuendo rilevanza proprio all'impianto energetico realizzato su un edificio in sostituzione della precedente copertura, in quanto nociva per l'ambiente e la salute dell'uomo.

A ben guardare, dunque, il processo di transizione energetica passa necessariamente anche attraverso queste particolari forme e modalità di incentivi premiali che consentono a coloro che eseguono opere di miglioramento ambientale (tramite rimozione e smaltimento di coperture in eternit/amianto con la sostituzione di pannelli solari) di conseguire un maggior introito (e risparmio di costi) dall'energia pulita e, conseguentemente, di promuovere una maggiore tutela dell'ambiente laddove si eliminano le sostanze dannose e pericolose per l'uomo.

(Tar Lazio Sez. Terza Ter, 22 maggio 2023, n. 8721)


ambiente

La tutela del bene ambientale: il caso della linea ferroviaria Verona - Brennero.

Ogni qualvolta si discute di opere strategiche per il Paese vengono in rilievo i procedimenti amministrativi che assumono delle matrici ambientali.

In più circostanze ci siamo occupati di come l'approvazione di progetti di interesse nazionale necessiti di iter che, per la loro complessità, necessitano di forme di raccordo, coordinamento e semplificazione tra i soggetti deputati all'approvazione al fine di consentirne la realizzazione.

Nella precedente news qui consultabile, ad esempio, ci siamo occupati del tema relativo al difficile bilanciamento che sussiste tra la tutela dell'ambiente e la promozione e valorizzazione delle iniziative imprenditoriali private: in quel caso, in particolare, si è osservato come alcuni fattori possono seriamente incidere sulle valutazioni autorizzative.

Il caso che oggi qui affrontiamo verte sul procedimento di approvazione di un progetto di interesse nazionale di potenziamento della rete ferroviaria italiana, opera finanziata con fondi PNRR, di elevato grado di complessità.

Ad adire il Giudice amministrativo, in questo caso, sono stati alcuni cittadini residenti in un ambito territoriale interessato dai lavori, i quali rivendicano la titolarità di un interesse legittimo ed un diritto alla salute, posizioni che sarebbero pregiudicate dalla realizzazione dell'opera.

Le problematiche su cui il Giudice amministrativo si sofferma si riferiscono a due distinti profili:

  • il primo, relativo alla tempestività della proposizione del ricorso;
  • il secondo, relativo alla natura, alle caratteristiche e alla finalità dell'iter autorizzativo di matrice ambientale, la valutazione d'impatto ambientale in particolare, così come disciplinata dall'art. 19 e ss., d.lgs. 152/2006 e s.m.i.

La valutazione d'impatto ambientale è configurata come una procedura amministrativa complessa e di supporto per l'autorità competente finalizzata ad individuare, descrivere e valutare gli impatti ambientali di un'opera, il cui progetto è sottoposto ad approvazione o autorizzazione.

In altri termini, trattasi di un procedimento di valutazione ex ante degli effetti prodotti sull'ambiente da determinati interventi progettuali, il cui obiettivo è proteggere la salute umana, migliorare la qualità della vita, provvedere al mantenimento delle specie, conservare la capacità di riproduzione dell'ecosistema, promuovere uno sviluppo economico sostenibile. Essa mira a stabilire, e conseguentemente governare in termini di soluzioni più idonee al perseguimento di ridetti obiettivi di salvaguardia, gli effetti sull'ambiente di determinate progettualità. Tali effetti, comunemente sussumibili nel concetto di "impatto ambientale", si identificano nella alterazione qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa, positiva e negativa che viene a prodursi sull'ambiente, laddove quest'ultimo a sua volta è identificato in un ampio contenitore, costituito dal sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici, in conseguenza dell'attuazione sul territorio di piani o programmi o di progetti nelle diverse fasi della loro realizzazione, gestione e dismissione, nonché di eventuali malfunzionamenti.

Soffermandosi sul secondo aspetto, i ricorrenti assumono che l'iter procedimentale sia affetto da carenze procedimentali (afferenti alla fase partecipativa) tali da inficiarne l'esito.

Il Giudice amministrativo, a fronte delle molteplici censure sollevate, ha tuttavia respinto il ricorso, concludendo con un pensiero alquanto significativo sull'importanza del tema trattato e del bene oggetto di tutela.

In ordine logico, il TAR si sofferma sulla impugnabilità del giudizio positivo di valutazione ambientale, il quale rappresenta un atto autonomamente impugnabile, sia nell'ipotesi in cui esso si concluda con esito negativo, sia che il medesimo abbia un epilogo positivo. Il Giudice amministrativo precisa che, in caso di epilogo positivo, occorre valutare "l'esistenza, in capo a terzi soggetti, di un interesse (contrario) al giudizio favorevolmente espresso dalla pubblica amministrazione; in sostanza, gli atti conclusivi delle procedure di valutazione di impatto ambientale, pur inserendosi all'interno di un più ampio procedimento di realizzazione di un'opera o di un intervento, sono immediatamente impugnabili dai soggetti interessati alla protezione dei valori ambientali, siano essi associazioni di tutela ambientale ovvero cittadini".

Soffermandosi sulla perimetrazione del controllo giudiziale sugli atti amministrativi recanti la valutazione di impatto ambientale in quanto espressivi di ampia discrezionalità amministrativa, il Giudice laziale perviene all'osservazione secondo la quale "il sindacato del giudice amministrativo in materia è necessariamente limitato alla manifesta illogicità ed incongruità, al travisamento dei fatti o a macroscopici difetti di istruttoria (come nei casi in cui l'istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato …) o quando l'atto sia privo di idonea motivazione ... Ma anche anche a prescindere dai prospettati profili di inammissibilità delle doglianze rivolte avverso la VIA in ragione della sua mancata tempestiva impugnazione, emerge l’infondatezza della censura atteso che non risulta comprovata da parte dei ricorrenti alcuna effettiva pretermissione delle garanzie partecipative afferenti alla predetta fase".

Appare evidente che la logica sottesa alla decisione amministrativa riflette quello che è il ruolo che assume il Giudice amministrativo nelle scelte quotidiane complesse: il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali è decisamente ristretto e deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto, non potendosi applicare criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa da parte di coloro che obiettano semplicemente la realizzazione dell'intervento.

Appare interessante l'inciso conclusivo espresso dal Giudice che rende evidente come l'ambiente (ergo il bene ambientale) sia trasversale: "L'opera ... appare armonizzarsi con il valore recato dal bene ambientale anche in ragione della sua funzionalità con l'implementazione della mobilità sostenibile e dalla sua inclusione nelle politiche del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza".

(Tar Lazio Sez. III, 13 maggio 2023, n. 8219)


Il difficile bilanciamento tra tutela dell’ambiente e iniziativa economica. Il "caso Ovindoli" tra protezione della fauna e sviluppo sostenibile.

Negli ultimi anni è parsa evidente l'attenzione che rivolge il Giudice amministrativo verso la tutela ambientale, la quale, come noto, costituisce un bene costituzionalmente protetto.

In precedenza ci siamo occupati di una vicenda che ha posto l'attenzione sul diritto ad un ambiente salubre, il quale rappresenta sempre più un fattore che condiziona le scelte quotidiane, comprese le iniziative di carattere economico (a questo link è possibile consultare il testo integrale della news).

Il caso sommariamente analogo che qui si affronta riguarda l'ampliamento di un impianto sciistico all'interno di comune abruzzese, realizzazione che soggiace ad un provvedimento autorizzativo complesso.

Avverso la decisione di primo grado del Giudice amministrativo, quest'ultimo adito con esito positivo da alcune associazioni ambientaliste che censuravano le risultanze istruttorie culminate nel rilascio del titolo autorizzativo, il comune interessato all'iniziativa ha interposto appello deducendo una serie di motivi, accomunati dalla correttezza logica e giuridica del provvedimento autorizzativo dell'impianto ricadente all'interno di area protetta.

Sotto il profilo ambientale, gli aspetti e gli argomenti della decisione del Supremo Consesso amministrativo (di riforma della pronuncia di primo grado) sono molteplici poiché riguardano singoli fattori che entrano in gioco allorquando si realizza (anche in termini di ampliamento) un'opera complessa, come quella di un impianto sciistico, che assolve, certamente, a delle finalità turistiche, ma anche di promozione sociale e di sviluppo economico.

L'argomento chiave è che lo sviluppo dell'iniziativa deve necessariamente considerare le incidenze sullo stato di conservazione dell'habitat preesistente nella zona.

Il primo profilo meritevole di attenzione è l'interesse alla decisione da parte delle associazioni ambientaliste, anch'esse parte della vicenda, in relazione alle quali il Consiglio di Stato, richiamando la normativa istitutiva del Ministero dell'ambiente e delle norme in materia di danno ambientale (l. 8 luglio 1986, n. 349 e s.m.i.), ha chiaramente confermato l'indirizzo interpretativo secondo il quale le associazioni ambientaliste sono legittimate in relazione all'impugnazione di atti amministrativi "che si considerino lesivi dei valori ambientali, paesistici, storici o artistici di un'area determinata" (Cons. St. Sez. IV, 6 marzo 2023, n. 2279).

A ben guardare, proprio la legge 349/1986 ha cristallizzato, all'art. 18, le esigenze di tutela dei soggetti portatori di interessi collettivi, introducendo ex lege la possibilità per le associazioni ambientaliste di intervenire nei giudizi di danno ambientale ovvero di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti legittimi.

Uno dei passaggi motivazionali più significativi è quello relativo al contenuto dello studio di impatto ambientale (ricompreso nella progettazione propedeutica all'autorizzazione) concernente le misure di mitigazione previste per la tutela della fauna, specificatamente della "Vipera ursinii", quale animale tutelato dalla direttiva Habitat 92/43/CEE., oggetto di specifica censura da parte dei soggetti ricorrenti di primo grado.

Tale argomento conduce ad un ragionamento alquanto complesso della tutela ambientale.

Per giungere alla decisione, infatti, il Consiglio di Stato non si è limitato ad operare un richiamo normativo del bene faunistico, bensì ha rivolto un vero e proprio "ammonimento" verso gli interessati, affermando che "Laddove si parta dal presupposto che qualsiasi attività che presenti controindicazioni rispetto alla significativa permanenza della vipera oggetto di tutela debba essere vietata, sarebbe necessario vietare anche il pascolo di animali indicato nello studio come fonte di pericolo, la presenza di escursionisti", osservando puntualmente che "è necessario contemperare le esigenze di carattere ambientali con altri interessi parimenti meritevoli di tutela".

Muovendo da tali presupposti, che certamente ripropongono la problematica propria del diritto dell'ambiente ovvero la tutela di interessi di pari valore, il Giudice d'appello ha richiamato lo storico pronunciamento reso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 85 del 2013 che ha affermato che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri.

Tale argomento conduce ad un ragionamento alquanto complesso della tutela ambientale.

Secondo tale pronuncia, la tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro, giacché se così non fosse, si verificherebbe "l'illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona".

Nella vicenda esaminata si è conclusivamente evidenziato che "il bene di rilievo costituzionale da contemperare con la tutela dell’ambiente era il diritto all’esercizio di un’attività di impresa cui era connesso il diritto al lavoro dei dipendenti. Il caso in esame presenta lo stesso apparente contrasto tra le esigenze di sviluppo economico di una comunità e il rischio di compromettere l’ambiente che va ridotto al minimo, ma che non può diventare un ostacolo insormontabile salvo che l’intervento da autorizzare presenti delle caratteristiche assolutamente incompatibili con la tutela ambientale".

Secondo il Giudice amministrativo, lo sviluppo economico rappresenta certamente un interesse meritevole di tutela che, in relazione alla tutela dell'ambiente, non deve necessariamente porsi in termini ostativi, bensì in termini di integrazione, potendo l'esercizio di attività d'impresa sempre e comunque garantire una tutela effettiva delle componenti ambientali, a volte anche in misura maggiore rispetto a quelle preesistenti.

La sentenza rappresenta una ulteriore evoluzione della giurisprudenza amministrativa, degno di nota: infatti, se fino ad oggi (specie in tema di autorizzazioni di impianti da fonti energetiche rinnovabili c.d. FER) le decisioni si erano spesso occupate di bilanciare i valori costituzionali  tra loro “affini” del paesaggio e dell’ambiente (in un certo senso, e come rilevato da alcune decisioni, “facce della stessa medaglia” nella prospettiva del c.d. sviluppo sostenibile), in questo caso peculiare il Consiglio di Stato ha applicato lo stesso metodo ed approccio avuto riguardo al rapporto tra i valori ambientali/paesaggistici e la tutela dello sviluppo economico in senso stretto. E ciò, peraltro, con una sentenza anche “coraggiosa”, nella parte in cui non solo viene declinato il principio di non prevalenza a priori (ossia implicante sempre e comunque la c.d. opzione zero) della tutela ambientale rispetto allo sviluppo economico, ma il medesimo principio viene applicato “in concreto” dal Giudice Amministrativo che, sulla base delle risultanza procedimentali, conferma la correttezza del provvedimento autorizzatorio (in luogo, ad esempio, di soluzioni processuali spesso adoperate dai giudici amministrativi, consistenti nel rinviare alla P.A. per un nuovo esame e motivazione).

Peraltro, in una prospettiva più ampia, occorre ricordare anche che il tema della verifica degli impatti “economici” in sede di valutazione ambientale, trova una sua conferma anche nella disciplina della VAS recata dal d.lgs. 152/2006. Infatti, l’art. 4, co. 3, del Codice dell’Ambiente dispone che “La valutazione ambientale di piani, programmi e progetti ha la finalità di assicurare che l'attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, e quindi nel rispetto della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un'equa distribuzione dei vantaggi connessi all'attività economica”.

Principio, quello ricordato, che ha trovato ad esempio applicazione in TAR Toscana, 23 marzo 2017, n. 1387, laddove è stato evidenziata la illegittimità di parere di VAS in quanto “quest’ultima si sarebbe limitata alla valutazione degli aspetti ambientali, senza prendere in considerazione le ricadute socio economiche delle scelte di pianificazione E’ necessario, pertanto, che detta valutazione presupponga lo svolgimento di un’analisi di fattibilità economica, comportando lo svolgimento di una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all'utilità socio - economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla cosiddetta opzione - zero, vagliando quindi tutte le possibili interrelazioni che la scelta urbanistica può arrecare alla salute umana, al paesaggio, all'ambiente in genere, al traffico ed anche all'economia di tutto il territorio coinvolto (…). ”

In conclusione, tornando alla recente sentenza del Consiglio di Stato, si può ritenere di essere al cospetto di una motivazione condivisile e, certamente, in linea con gli attuali orientamenti prevalenti in tema di “sviluppo sostenibile”, ferma restando la necessità di un vaglio “caso per caso”.

(Cons. St. Sez. IV, 6 marzo 2023, n. 2279)


Diniego di autorizzazione al subappalto: il potere autoritativo della P.A.

L'istituto del subappalto ha da sempre rappresentato un valido strumento di cooperazione tra le imprese che operano nell'ambito di un appalto pubblico, sia esso di lavori, servizi o forniture.

Il subappalto, attualmente disciplinato dall'art. 105, d.lgs. 50/2016 e s.m.i., risponde, infatti, all'esigenza di consentire ad un operatore economico affidatario di un contratto pubblico di avvalersi, durante la fase esecutiva delle prestazioni, di un operatore economico terzo e formalmente "estraneo" alla partecipazione a gara, al quale sono affidate l'esecuzione di una parte delle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto.

La finalità del subappalto è sempre stata individuata nell'esigenza di favorire le PMI all'interno delle pubbliche commesse,: il legislatore ha previsto numerose garanzie nei loro confronti attraverso una tutela "rafforzata", visto il ruolo fondamentale che svolgono nel panorama economico globale.

Solo per citarne una, si pensi alla possibilità che la Stazione appaltante provveda al pagamento diretto delle prestazioni svolte dal subappaltatore.

In questa precedente news ci siamo soffermati sull'ipotesi specifica del cd. "subappalto necessario", figura affine al subappalto che potremmo definire tradizionale che presenta caratteristiche autonome (qui il link per un approfondimento ed una consultazione integrale).

Seppur sono numerosi i profili della disciplina che ancora oggi appaiono incerti, uno degli aspetti più importanti dell'istituto è l'iter autorizzativo finalizzato a consentire l'ingresso del subappaltatore all'interno dell'appalto così da consentire, in autonomia, lo svolgimento delle prestazioni contrattuali affidate allo stesso dal contraente principale.

A tal proposito, l’autorizzazione al subappalto è disciplinata dall’art. 105, comma 7, Codice dei contratti pubblici, il quale stabilisce che: “L'affidatario deposita il contratto di subappalto presso la stazione appaltante almeno venti giorni prima della data di effettivo inizio dell'esecuzione delle relative prestazioni. Al momento del deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante l'affidatario trasmette altresì la dichiarazione del subappaltatore attestante l'assenza dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80 e il possesso dei requisiti speciali di cui agli articoli 83 e 84. La stazione appaltante verifica la dichiarazione di cui al secondo periodo del presente comma tramite la Banca dati nazionale di cui all'articolo 81. Il contratto di subappalto, corredato della documentazione tecnica, amministrativa e grafica direttamente derivata dagli atti del contratto affidato, indica puntualmente l'ambito operativo del subappalto sia in termini prestazionali che economici”.

A ben guardare, dunque, il legislatore, oltre ad aver individuato precisamente la scansione procedimentale e gli obblighi gravanti sul contraente principale e sul subappaltatore finalizzati a conseguire l'autorizzazione, ha specificatamente circoscritto l'ambito di operatività dell'Amministrazione, la quale, in linea teorica, è tenuta prioritariamente ad effettuare alcune verifiche.

In particolare, in caso di richiesta di autorizzazione al subappalto, la verifica della stazione appaltante va condotta con riferimento al possesso dei requisiti in capo al subappaltatore concernenti, sia l'art. 80 (requisiti generali), sia gli artt. 83 e 84 (requisiti speciali) del Codice dei contratti pubblici.

Orbene, recentemente la giurisprudenza amministrativa si è interrogata sui poteri di cui dispone l'Amministrazione nell'ambito del sub procedimento di autorizzazione al subappalto allorquando, come osservato, la stessa sia tenuta a verificare la sussistenza dei requisiti anche in capo al subappaltatore.

La carenza dei requisiti in capo al subappaltatore implica, infatti, l'adozione di un diniego di autorizzazione al subappalto.

Nel caso che qui si affronta, il diniego di subappalto dell'Amministrazione era fondato sulla presunta sussistenza di un grave illecito professionale in capo al legale rappresentante della società subappaltatrice risalente ad oltre tre anni prima della richiesta di subappalto.

In Giudice amministrativo, accertata la propria giurisdizione e l'illegittimità del diniego opposto, si è soffermato su due profili meritevoli di essere richiamati:

  • il primo, attinente ai presupposti che integrano il grave illecito professionale. Ove l'illecito sia risalente nel tempo e ben oltre il triennio precedente alla presentazione dell'istanza di autorizzazione al subappalto, non ricorre l'ipotesi di esclusione automatica, in quanto i fatti non sono idonei ad integrare il grave illecito professionale, in applicazione del principio di ragionevolezza e dei principi di cui all'art. 57, par. 7, direttiva 24/2014 UE;
  • il secondo, relativo ai poteri di cui dispone l'Amministrazione. L’autorizzazione al subappalto ed il relativo diniego, pur intervenendo nella fase esecutiva dell’appalto, richiedono comunque che "l’amministrazione committente accerti la loro coerenza col perseguimento del pubblico interesse al rispetto dei criteri fissati dalla procedura di gara ... È chiaro dunque che, anche in questa fase, l’amministrazione esercita poteri autoritativi, espressione di discrezionalità valutativa, la cui delibazione di legittimità rientra nel terreno proprio del giudice amministrativo, posto che la posizione soggettiva del privato è tipica d’interesse legittimo ...".

La motivazione della pronuncia appare lineare e certamente condivisibile: l'operatore economico che si è visto rifiutare l'autorizzazione al subappalto in assenza di giusta motivazione potrà rivolgersi al Giudice amministrativo domandando di pronunciarsi sulla legittimità del diniego opposto.

Nel procedimento di verifica, stando a quanto sancito dal Giudice nella pronuncia qui richiamata, l'amministrazione esplica un potere di tipo autoritativo che è espressione di una discrezionalità che, in quanto tale, soggiace ai limiti pubblicistici dell'evidenza pubblica.

Naturalmente, ad agire in giudizio dovrà essere l'affidatario dell'appalto ovvero colui che abbia avanzato la richiesta di subappalto e che si è visto opporre il diniego.

(TAR Campania, Sez. I, 21 marzo 2023, n. 1764)